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PENALE

COLTIVAZIONE IN CASA DI MARIJUANA PER USO PERSONALE, PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ E LIBERTA’ DI AUTODETERMINAZIONE

  Penale 
 lunedì, 9 gennaio 2017

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Lorenzo Delli Priscoli, Magistrato addetto all'ufficio del Massimario e del ruolo della Corte di cassazione

 
 

 

     Sommario: 1. La perdurante rilevanza penale della coltivazione di marijuana per uso personale a oltre vent’anni dal referendum abrogativo del 1993. – 2. L’affermazione (di principio?) da parte della Corte costituzionale e della Cassazione circa la necessità di verificare la compatibilità del reato con il principio di offensività. - 3. La sussistenza del reato purché sia verificata la “potenziale idoneità” della coltivazione a produrre “in futuro” sostanze stupefacenti; la presunzione di “detenzione a fini di spaccio”. – 4. L’assenza di offensività quale circostanza che esclude il reato e la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto: possibilità di individuare diversi livelli di lieve offensività della condotta? - 5. Persistenza del reato e perdurante disvalore (sociale?) nei confronti del consumatore di marijuana (tossicodipendente?). - 6. Libertà di autoderminazione del consumatore di marijuana e perplessità circa l’effettiva lesione – reale o potenziale - dei beni giuridici protetti.7. L’irrisarcibilità del danno non patrimoniale derivante da reato ma scarsamente offensivo e la ragionevole durata dei processi.

 

     1. La perdurante rilevanza penale della coltivazione di marijuana per uso personale ad oltre vent’anni dal referendum abrogativo del 1993.Secondo l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) costituisce reato la coltivazione senza autorizzazione di piante di marijuana (che è una sostanza psicoattiva che si ottiene dalle infiorescenze essiccate delle piante di Cannabis), anche se tale coltivazione avviene per destinare ad uso personale la sostanza psicotropa così ricavata. L’art. 75 del d.P.R. citato – frutto della modifica operata dall’art. 1, comma 24-quater, del d.l. n. 36 del 2014 (Disposizioni urgenti in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 79 del 2014 – configura infatti come illecito amministrativo (anziché penale) il fatto di chi, «per farne uso personale, illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope»: pertanto, secondo una interpretazione letterale confermata da un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, quest’ultima norma non include la coltivazione tra le condotte punibili con le sole sanzioni amministrative.

     A più riprese è stata peraltro prospettata la tesi che le condotte “neutre” non menzionate dal legislatore – prima fra tutte, la coltivazione – potessero essere “recuperate” all’area di irrilevanza penale connessa alla finalità di uso personale facendole rientrare, tramite una lettura estensiva, nel concetto generico e “di chiusura” di «detenzione» dello stupefacente («comunque detiene»). Respinta dalla giurisprudenza di legittimità nel vigore della legge n. 685 del 1975, detta ipotesi interpretativa ha trovato un certo seguito in rapporto alla previsione dell’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, subito dopo la consultazione referendaria del 1993 che ha abrogato il reato di detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale. Nella seconda metà degli anni ’90, la giurisprudenza di legittimità è tornata, peraltro, ad attestarsi saldamente sulla soluzione negativa. Un tentativo di “rivitalizzare” l’esegesi in discorso è stato operato, a distanza di un decennio, da alcune sentenze della sesta sezione penale della Corte di cassazione, facendo leva sull’assunto che la nozione penalmente rilevante di «coltivazione» dovesse ritenersi evocativa della sola coltivazione «in senso tecnico-agrario», o «imprenditoriale»: con la conseguenza che la coltivazione cosiddetta “domestica” (effettuata, cioè, tramite messa a dimora delle piante in vasi presso l’abitazione dell’agente, come nei casi oggetto dei giudizi a quibus) sarebbe ricaduta tra le fattispecie di «detenzione», sanzionate in via amministrativa dalla norma denunciata, ove finalizzate al consumo personale (per tutte, Cass., sez. 6, n. 17983 del 2007, Notaro).

     Tale ricostruzione non ha trovato però l’avallo delle sezioni unite, le quali, con due sentenze “gemelle” del 2008, hanno confermato la validità dell’indirizzo tradizionale. Rilevato come l’ipotizzata esegesi restrittiva della nozione penalmente rilevante di «coltivazione» non trovi conforto – come si sosteneva – nella disciplina delle autorizzazioni all’esercizio di tale attività, recata dagli artt. 26 e seguenti del d.P.R. n. 309 del 1990, le sezioni unite hanno ribadito il principio per cui «costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale» (Cass., S.U. n. 28605 e n. 28606 del 2008, Valletta e Di Salvia). La giurisprudenza di legittimità successiva si è uniformata a tale indicazione, onde non appare contestabile che l’attuale rilevanza penale della coltivazione domestica di marijuana possa definirsi come “diritto vivente”.

     Tale circostanza appare tuttavia scontrarsi con la strategia – cui si ispira la normativa italiana in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope fin dalla precedente legge n. 685 del 1975 (Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) e confermata dal referendum abrogativo del 1993 – volta a distinguere nettamente, sul piano del trattamento sanzionatorio, la posizione del consumatore di droga da quella del produttore e del trafficante. L’idea di fondo del legislatore era ed è che l’intervento repressivo penale debba rivolgersi solo nei confronti dei secondi. Tale strategia si fonda su un dato inerente all’intenzione dell’agente: la finalità di «uso personale» della sostanza. Configurata in origine come causa di non punibilità correlata ad un limite quantitativo non definito (la «modica quantità» dello stupefacente oggetto della condotta: art. 80 della legge n. 685 del 1975), detta finalità è stata successivamente trasformata – con soluzione di maggior rigore – in elemento che “degrada” l’illecito penale in illecito amministrativo, nel rispetto di un limite quantitativo più stringente (la «dose media giornaliera» determinata dall’autorità amministrativa: art. 75 del d.P.R. n. 309 nel 1990, nel testo originario); limite venuto poi a cadere per effetto del referendum del 1993, avente ad oggetto l’abrogazione delle pene per la detenzione ad uso personale di droghe, in cui il SI vinse con oltre 19 milioni di voti  (55,40% dei votanti).

     In effetti, secondo le sezioni unite del 2008 citate, ai fini della punibilità della condotta di coltivazione di marijuana, è invece irrilevante la destinazione o meno ad uso personale, anche se è indispensabile, ai fini della sussistenza del reato, la verifica da parte del giudice circa l’offensività in concreto della condotta, riferita però non alla destinazione ad altri dello stupefacente, ma all’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile. Secondo tale interpretazione giurisprudenziale dunque anche la coltivazione delle piante di Cannabis per semplice uso ornamentale, o ancora per il semplice piacere di avere delle piante da curare potrebbe integrare il suddetto reato.

     La giurisprudenza delle Sezioni Unite giunge a tali affermazioni per comporre il contrasto, molto risalente, tra l’orientamento che, anche dopo le modifiche normative intervenute con la legge cd. “Fini-Giovanardi” (d.l. n. 272 del 2005, conv. con modifiche in legge  n. 49 del 2006), individuava una nozione di “coltivazione domestica” per uso personale (distinta da quella penalmente rilevante della “coltivazione in senso tecnico-agrario”), ritenendo comunque la condotta di coltivazione non estranea all’ambito concettuale della “detenzione”, quindi anch’essa sottoposta al canone di rilevanza penale della “destinazione ad uso non personale”, e l’orientamento (al quale le sezioni unite hanno aderito) che invece riteneva comunque sussistente il reato, anche nel caso in cui la coltivazione mirasse a soddisfare esigenze di approvvigionamento personale, in ragione, soprattutto, della idoneità della condotta ad accrescere il pericolo di circolazione e diffusione delle sostanze stupefacenti e ad attentare al bene della salute a causa dell’incremento delle occasioni di spaccio. Ha sottolineato l’irrilevanza della distinzione tra coltivazione domestica e coltivazione tecnico-agraria anche Cass., sez. 6, n. 51497 del 2013, Zilli, la quale, in una fattispecie relativa alla coltivazione di una pluralità di piantine di cannabis all'interno di una serra rudimentale, afferma che la coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti è penalmente rilevante, a prescindere dalla distinzione tra coltivazione tecnico-agraria e coltivazione domestica, posto che l'attività in sé, in difetto delle prescritte autorizzazioni, è da ritenere potenzialmente diffusiva della droga.

 

     2. L’affermazione (di principio?) da parte della Corte costituzionale e della Cassazione circa la necessità di verificare la compatibilità del reato con il principio di offensività. – Il principio di offensività - in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa ("nullum crimen sine iniuria") - non è espressamente previsto né dalla Costituzione né dal codice penale, ma, secondo la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione, è ricavabile implicitamente dal combinato disposto degli artt. 13, comma 2, 25 comma 2, e 27 comma 3, della Costituzione. Si ritiene che tale principio abbia un sicuro riferimento costituzionale anche nel principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., e in particolare nei suoi corollari rappresentati dal principio di ragionevolezza (non è ragionevole una sanzione penale per chi ha rubato un chicco d’uva) e della necessità di trattare in maniera adeguatamente diseguale situazioni diseguali (chi ha rubato un chicco d’uva non può essere oggetto di sanzione penale, come lo è invece chi ha svaligiato una banca). 

      Secondo Corte cost. n. 172 del 2014 spetta al giudice ricostruire e circoscrivere l’area di tipicità della condotta penalmente rilevante sulla base dei consueti criteri ermeneutici, in particolare alla luce del principio di offensività, che per giurisprudenza costante di questa Corte costituisce canone interpretativo unanimemente accettato. Analogamente, ha affermato Corte cost. n. 139 del 2014 che resta precipuo dovere del giudice di merito di apprezzare − «alla stregua del generale canone interpretativo offerto dal principio di necessaria offensività della condotta concreta» – se essa sia, in concreto, palesemente priva di qualsiasi idoneità lesiva dei beni giuridici tutelati; il legislatore ben potrà intervenire, fermo restando il rispetto del citato principio di offensività che ha rilievo costituzionale.

     Richiamando in particolare, tra le altre, le sentenze n. 360 del 1995, n. 296 del 1996 e n. 265 del 2005 della Corte costituzionale, le Sezioni unite del 2008 citate nel paragrafo precedente, partendo dal concetto che la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato però dalla necessaria offensività della fattispecie criminosa astratta (sentenza n. 360 del 1995), hanno aderito all’opzione del giudice delle leggi secondo cui il principio di offensività richiede che una condotta, per essere punita come reato, soddisfi due distinti requisiti: la verifica dell’offensività in astratto del reato e della condotta in concreto.

    Il primo requisito (l’offensività in astratto del reato) impone al legislatore di modellare fattispecie di reato che esprimano un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse di rilevanza costituzionale: è necessario cioè che il legislatore configuri il sistema penale come extrema ratio di tutela della società, circoscritta ai soli beni di rilievo costituzionale, sia pure in un’accezione “allargata” ai beni riferibili anche alla cd. Costituzione “materiale” (che segue i bisogni sociali): in tal senso cfr. le sentenze nn. 364 del 1988, 409 del 1989, 487 del 1989 della Consulta. E’ assai discutibile, come si vedrà in seguito, che il reato in questione possa dirsi lesivo di un qualche bene di rilevanza costituzionale. A livello astratto l’offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità legislativa è stata sì affermata anche da Corte cost. nn. 360 del 1995, 263 del 2000 e n. 354 del 2002, ma solo raramente si è tradotta in decisioni di illegittimità costituzionale[1]. La Corte costituzionale ha riservato sostanzialmente alla discrezionalità del legislatore il livello e il modo di anticipazione della tutela, scegliendo di non sindacare le scelte tecniche di costruzione dell’illecito penale secondo lo schema dei reati di danno o di pericolo, anche presunto o astratto, purché la scelta delle condotte accompagnate dalla sanzione penale non fosse manifestamente irrazionale o arbitraria. Con riferimento alla coltivazione di piante dalle quali si possano ricavare sostanze stupefacenti, la Corte costituzionale è intervenuta più volte (da ultimo con la sentenza n. 109 del 2016), in sostanza sempre ribadendo la ragionevolezza della scelta legislativa in relazione ai parametri della necessaria offensività ed agli altri valori costituzionali in gioco. Le precedenti sentenze riferite espressamente a questioni attinenti al vaglio di costituzionalità della disciplina normativa relativa alla coltivazione di piante stupefacenti sono: la n. 360 del 1995[2], con la chiara enunciazione del doppio profilo del principio di offensività penale e, in precedenza, le sentenze nn. 133 del 1992, 333 del 1991 e 62 del 1986, nonché, successivamente, le ordinanze nn. 150 del 1996 e 414 del 1996, le quali tutte si sono espresse nel senso della infondatezza delle questioni sollevate. Ancora, deve ricordarsi la sentenza n. 296 del 1996 che sottolinea come l’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990 estrapoli solo alcune ma non tutte delle condotte di cui al precedente art. 73 per attrarle alla sfera dell’irrilevanza penale qualora rivelino la finalizzazione della condotta dell’agente all’uso personale delle sostanze stupefacenti.

     Il secondo requisito (l’offensività in concreto della condotta), che presuppone che un positivo riscontro circa la presenza del primo requisito sia stato già compiuto, si rivolge al giudice, il quale è tenuto ad accertare che il fatto concreto abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato (offensività in concreto: così si esprimono in particolare Corte Cost. nn. 109 del 2016 e 265 del 2005; in senso conforme le decisioni nn. 360 del 1995, 519 e 263 del 2000, 354 del 2002, 265 del 2005, 225 del 2008). Da tali premesse le sezioni unite del 2008 citate hanno stabilito che spetta al giudice verificare se la condotta sia inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva. Tale impostazione sembrerebbe più che ragionevole: le sezioni unite però specificano anche che la condotta è “inoffensiva” soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante è a tal fine il grado dell'offesa), sicché, con riferimento allo specifico caso della coltivazione di marijuana, l’offensività non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. Tale atteggiamento interpretativo, che porta di fatto ad una quasi completa disapplicazione del principio di offensività in concreto (o meglio - come si cercherà di dimostrare meno empiricamente nel quarto paragrafo - a confonderlo con l’assenza di tipicità legale o con il reato impossibile), è peraltro coerente con la restante giurisprudenza di legittimità in tema di principio di offensività, che è stato invocato e applicato in sporadiche sentenze ben poco significative e per fatti in cui il bene giuridico era stato leso in maniera davvero impercettibile e impalpabile[3]. Deve inoltre segnalarsi una parte di pronunce della Cassazione che sembrano lasciar emergere un paradigma di inoffensività collegato all’inefficacia drogante o psicotropa, peraltro affermato non solo in tema di coltivazione di sostanze stupefacenti, ma anche in generale, per qualsiasi illecito avente ad oggetto detenzione o cessione di stupefacenti. E difatti già Cass., sez. 6, n. 564 del 2001, dep. 2002, Caserta, aveva sostenuto che, in tema di stupefacenti, la valutazione dell'efficacia psicotropa delle sostanze, demandata al giudice nell'ambito della verifica dell'offensività specifica della condotta accertata, è la sola che consente la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta e va compiuta prendendo in considerazione il quantitativo complessivo di sostanze detenute ai fini di spaccio o cedute, senza arbitrarie parcellizzazioni legate ai singoli episodi di vendita. Sul tema Cass., sez. 6, n. 6928 del 2011, dep. 2012, Choukrallah ha affermato che è necessario dimostrare che il principio attivo contenuto nella dose destinata allo spaccio, o comunque oggetto di cessione, sia di entità tale da poter produrre in concreto un effetto drogante. La motivazione della sentenza in esame ha messo in luce come le affermazioni sulla necessaria valutazione dell’offensività in concreto della condotta, svolte dalle Sezioni Unite del 2008 e mutuate dalla giurisprudenza costituzionale, attengono a principi che, seppure pronunciati in materia di coltivazione non autorizzata, si proiettano necessariamente sull'intera disciplina degli stupefacenti. Ne consegue che per i reati in materia di stupefacenti, che pongono in pericolo - in forme più o meno incisive - la salute degli assuntori, è essenziale la dimostrazione della probabilità di un evento lesivo, attraverso la dimostrazione dell'efficacia drogante della sostanza. Sicché, nel caso in cui l'offensività in concreto accertata dal giudice si riveli inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta perché l’indispensabile connotazione di offensività in generale di quest'ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto l’offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 c.p.) o venendo meno la stessa tipicità della fattispecie penale (in questo senso anche Corte cost. n. 109 del 2016 cit.). In tale impostazione generale si riconoscono Cass., sez. 6, n. 8393 del 2013, Cecconi; Cass., sez. 4, n. 3787 del 2016, Festi; Cass. sez. 4, n. 4324 del 2015, Mele, dep. 2016. Tuttavia, deve darsi atto che tale orientamento, già estremamente severo, ha incontrato decisioni ancora più rigide, che hanno completamente “dimenticato” il principio di offensività in concreto: Cass., sez. 3, n. 47670 del 2014, Aiman, e Cass., sez. 4, n. 21814 del 2010, Renna hanno affermato che il reato di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 è configurabile anche in relazione a dosi inferiori a quella media giornaliera, con esclusione soltanto di quelle condotte afferenti a quantitativi di sostanze stupefacenti talmente minimi da non poter modificare, neppure in maniera trascurabile, l'assetto neuropsichico dell'utilizzatore; così anche Cass., sez. 5, n. 5130 del 2010, dep. 2011, Moltoni, ha ritenuto l’irrilevanza del mancato superamento della soglia quantitativa drogante, stante la natura legale della nozione di sostanza stupefacente; nello stesso senso: Cass., sez. 4, n. 32317 del 2009, Di Settimio, e numerose conformi precedenti sulla scia di Cass., sez. U, n. 9973 del 1998, Kremi, che aveva ritenuto, in una fattispecie di illecita detenzione e vendita di sostanza stupefacente contenente mg. 13,4 di eroina-base, che l'inidoneità dell'azione, relativamente alle fattispecie previste dall'art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990, vada valutata unicamente avuto riguardo ai beni oggetto della tutela penale, individuabili in quelli della salute pubblica, della sicurezza e dell'ordine pubblico e della salvaguardia delle giovani generazioni, beni che sarebbero messi in pericolo anche dallo spaccio di dosi contenenti un principio attivo al di sotto della soglia drogante.

    Conclusivamente, deve rilevarsi che il principio di offensività, affermato e mai smentito in linea di principio ormai da trent’anni sia dalla Corte costituzionale che dalla Cassazione, ha trovato scarse e poco significative applicazioni concrete da parte di tali Corti. Quanto detto vale anche più specificamente a proposito della coltivazione casalinga di marijuana, relativamente alla quale la Consulta ha ritenuto sussistere l’offensività in astratto e la Cassazione solo in poche ed incerte pronunce ha rilevato l’inoffensività in concreto, peraltro per quantitativi di marijuana davvero minimali.

 

     3. La sussistenza del reato purché sia verificata la “potenziale idoneità” della coltivazione a produrre “in futuro” sostanze stupefacenti; la presunzione di “detenzione a fini di spaccio”. - Uno degli orientamenti di legittimità di maggior seguito ha enucleato degli “indicatori” dimostrativi della concreta offensività della condotta di coltivazione non autorizzata di marijuana per uso personale, fra i quali, oltre al quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante in relazione al loro grado di maturazione, o l’estensione e la struttura organizzata della piantagione dalle quali possa derivare una produzione di sostanze potenzialmente idonea ad incrementare il mercato, anche la “potenziale idoneità” della coltivazione-produzione di piante di natura stupefacente a produrre “in futuro” tali sostanze (così Cass., sez. 3, n. 23082 del 2013, De Vita). Ulteriori pronunce hanno affrontato la questione sempre con riferimento agli indicatori e caratteri specifici attinenti alla piantagione, affermando, ai fini della punibilità della coltivazione l’irrilevanza della quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, e la rilevanza, invece, della conformità della pianta al tipo botanico previsto e della sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente (così, Cass., Sez. 6, n. 22459 del 2013, Cangemi), cosicché l'offensività deve essere esclusa soltanto quando la sostanza ricavabile risulti priva della capacità ad esercitare, anche in misura minima, effetto psicotropo (così Cass., sez. 3, n. 23881 del 2016, Damioli. E’ stata in particolare sottolineata l’irrilevanza del fatto che, al momento dell'accertamento del reato, le piante non siano ancora giunte a maturazione, poiché la coltivazione ha inizio con la posa dei semi, dovendosi invece valutare l'idoneità anche solo potenziale delle stesse a produrre una germinazione ad effetti stupefacenti (Cass., sez. 4, n. 44287 del 2008, Taormina). Nello stesso senso anche Cass. sez. 6, n. 25057 del 2016, Iaffaldano; Cass., sez. 6, n. 10169 del 2016, Tamburini; Cass., sez. 6, n. 6753 del 2014, M., secondo le quali, ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l'offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l'assenza di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all'esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, in quanto il "coltivare" è attività che si riferisce all'intero ciclo evolutivo dell'organismo biologico. Infine, Cass., sez. 4, n. 44136 del 2015, Cinus, nell’affermare la sufficienza, ai fini della punibilità, della conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente, ha precisato che il dato ponderale può assumere rilevanza, al fine di fornire indicazioni sull'offensività in concreto della condotta, soltanto quando la sostanza ricavabile risulti priva della concreta attitudine ad esercitare, anche in misura minima, l'effetto psicotropo. Si richiamano ai medesimi principi, tra le altre, Cass. Sez. 6, n. 49476 del 2015, Radice, e Cass. sez. 6, n. 3037 del 2015, dep. 2016, Fazzi[4].

      E’ evidente l’eccessiva e irragionevole anticipazione della tutela penale nella repressione, quale reato consumato, della condotta diretta a coltivare piante che solo in un futuro eventuale potrebbero dare vita a della sostanza drogante (tanto che a questo punto è anche difficile ipotizzare un delitto tentato di coltivazione casalinga di marijuana, e in effetti nella pratica giudiziaria tale reato non viene mai contestato): si pensi, per mettere a fuoco l’estrema aleatorietà di questa impostazione, alla rilevanza attribuita nel diritto commerciale al cd. “rischio ambientale”, che storicamente ha sempre consentito all’imprenditore agricolo (fisiologicamente esposto al pericolo di perdere l’intero raccolto in virtù di imponderabili futuri eventi climatici) di usufruire, rispetto all’imprenditore commerciale, di una disciplina differenziata e di favore (in tema di iscrizione nel registro delle imprese, necessità di tenere le scritture contabili e sottoposizione alle procedure concorsuali: cfr. Cass. civ. n. 16614 del 2016). Tale impostazione è oltretutto contraddittoria anche con un orientamento interno alla stessa Cassazione in tema di mera detenzione di semi di pianta dalla quale siano ricavabili sostanze stupefacenti: Cass., sez. 6, n. 41607 del 2013, Lorusso, esclude la rilevanza penale di tale semplice detenzione, trattandosi di atto preparatorio non punibile, da cui non può desumersi l’effettiva destinazione dei semi; analogamente anche da Cass., sez. U, n. 47604 del 2012, Bargelli, per l’ipotesi di offerta in vendita di semi di pianta dalla quale siano ricavabili sostanze stupefacenti non è penalmente rilevante, configurandosi come atto preparatorio non punibile perché non idoneo in modo inequivoco alla consumazione di un determinato reato, non potendosi dedurne l'effettiva destinazione dei semi. In effetti, una volta riconosciuta la rilevanza penale, quale reato consumato, della coltivazione di piantine ancora lontane dalla maturazione delle loro foglie, non si vede perché il possesso o l’offerta in vendita dei semi non dovrebbe dar luogo al tentativo di questo reato, visto che sembra assai difficile riuscire a dimostrare che il possesso di semi di marijuana non costituisca una condotta idonea e diretta in modo non equivoco a produrre sostanza stupefacente.

       A favore di questo orientamento così severo sembrerebbe militare la circostanza che la pianta di cannabis, essendo un organismo vivente in continua evoluzione, contiene una quantità di sostanza stupefacente molto diversa a seconda del momento in cui la si prenda in considerazione e che quindi la stessa pianta potrebbe essere ritenuta pressoché innocua in un momento ma molto pericolosa anche poche settimane dopo[5]. Questo ragionamento non convince perché fissa comunque una presunzione di pericolosità eccessivamente anticipata (si sanziona penalmente un “pericolo del pericolo”) e dimentica che “il coltivatore” viene pur sempre in ogni caso sanzionato in sede amministrativa.

      Sembra dunque maggiormente convincente un diverso indirizzo – purtroppo minoritario - il quale, affermando l’esigenza che la verifica dell’offensività in concreto avvenga al momento dell’accertamento della condotta, pongono l’accento sulla necessità che, ai fini della punibilità, sussista comunque un’effettiva ed attuale capacità drogante del prodotto della coltivazione rilevabile nell’immediatezza, contestando la proiezione nel futuro della verifica di offensività sulla base di un giudizio prognostico di idoneità della coltivazione a giungere a maturazione, secondo il tipo botanico. Sono espressione di tale opzione anzitutto Cass., sez. 6, n. 2618 del 2015, dep. 2016, Marongiu, che ripercorre le ragioni costituzionali della propria opzione, annullando con rinvio la pronuncia di merito, che non aveva verificato la quantità di principio attivo ricavabile da nove piantine di cannabis non giunte a maturazione. La sentenza sottolinea il pericolo di un’applicazione eccessivamente anticipata della tutela penale, che operi di fatto una totale svalutazione dell'elemento costituito dalla necessaria offensività in concreto della condotta, cioè dalla capacità della stessa di ledere effettivamente i beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice; si richiama, a tal fine, il nucleo di garanzia della stessa sentenza delle Sezioni unite Di Salvia là dove essa ritrova il paradigma di compatibilità tra i reati a pericolo presunto, come quello di coltivazione, ed il principio di offensività, proprio nella verifica concreta del giudice sulla effettiva messa in pericolo dei beni oggetto di tutela, sottraendoli dall’alveo di reati di “mera disobbedienza”. Successivamente, Cass., sez. 6, n. 8058 del 2016, Pasta, negli stessi termini della sentenza Marongiu, ha affermato l’insufficienza dell'accertamento della conformità al tipo botanico vietato, dovendosi invece accertare l'offensività in concreto della condotta, intesa come effettiva ed attuale capacità della sostanza ricavata o ricavabile a produrre un effetto drogante e come concreto pericolo di aumento di disponibilità dello stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso, nella specie annullando senza rinvio la pronuncia di condanna relativa alla coltivazione di una pianta di cannabis indica, da cui sono risultati ricavabili gr. 0,345 di principio attivo (cfr. anche Cass., sez. 6, n. 12612 del 2012, Floriano). Egualmente, già Cass., sez. 4, n. 1222 del 2008, dep. 2009, Nicoletti, aveva escluso la punibilità nel caso di piante che non avevano ancora completato il ciclo di maturazione né prodotto sostanza idonea a costituire oggetto del concreto accertamento della presenza del principio attivo della sostanza stupefacente. Cass., sez. 3, n. 21120 del 2013, Colamartino, ha peraltro affermato l’irrilevanza del mancato completamento del ciclo di maturazione e la punibilità della coltivazione di 24 piante di canapa indiana “non ancora giunte a maturazione”, constatandone le dimensioni. La sentenza espressamente afferma però che non è configurabile il reato di coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti nel caso in cui la condotta sia assolutamente inidonea (irrilevante essendo il grado dell’offesa) a ledere i beni giuridici tutelati[6] dalla norma incriminatrice e, pertanto, risulti inoffensiva secondo i canoni previsti dall’art. 49 cod. pen., precisando, però, che tale assoluta inidoneità della condotta non può dipendere da circostanze occasionali e contingenti quali la mancata produzione di sostanza stupefacente a causa della non maturazione della piantagione, magari per l’intervento tempestivo da parte della polizia giudiziaria.

      Infine, Cass. sez. 6, n. 10169 del 2016, Tamburini, ha messo in relazione l’orientamento in esame, con quello - cui aderisce e che applica nella fattispecie al suo esame - secondo cui l’offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali dai quali è estraibile sostanza stupefacente. Nel caso ad essa sottoposto, infatti, la S.C. ha ritenuto sussistere il reato di coltivazione in un’ipotesi di coltivazione “domestica” di nove piantine di marijuana, in parte già produttive di sostanza (per 60 mg individuati, corrispondenti a più di due dosi medie singole), con riferimento alle quali ha posto in luce la differenza dall’ipotesi esaminata nella citata sentenza Sez. 6, Piredda, in cui la condotta era condivisibilmente inoffensiva perché riferita a sole due piantine di marijuana contenenti 18 mg di principio attivo, inferiore alla dose media singola individuata nella misura di 25 mg.

     In quest’ultima pronuncia si trascura però completamente di considerare che 25 mg di marijuana è appunto la dose giornaliera e che dunque un quantitativo di 60 mg non solo non può ragionevolmente essere destinato ad altri ma non è neppure minimamente sufficiente per l’uso personale, dato che verrebbe esaurito di poco più di 2 giorni. E’ forse questa una delle più grandi contraddizioni, in smaccato contrasto con il principio di offensività, insite nella apodittica presunzione di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti: non si vede infatti perché la detenzione di una quantità anche notevolmente superiore alla dose media giornaliera dovrebbe essere di per sé indice di una presunzione di spaccio in assenza di altre circostanze (quali ad esempio la dimostrazione dell’impossibilità di conservazione della sostanza che se non consumata entro breve tempo perderebbe l’effetto drogante e quindi valore: si pensi invece che tale sostanza si conserva agevolmente ben oltre un anno in semplice vasetti di vetro chiusi in un cassetto fresco) quando è chiaro che un consumatore di marijuana per evidenti ragioni di comodità e riservatezza, nella stragrande maggioranza delle ipotesi non si reca tutti i giorni dal un fornitore di tale sostanza. Si pensi altresì che il prezzo non elevatissimo di tale sostanza (intorno a 10 euro a dose, ma i prezzi variano molto a seconda della qualità della sostanza, dei luoghi in cui è venduta e della percentuale di principio attivo contenuto) incoraggia ancor di più il consumatore ad acquistare un quantitativo rilevante di tanto in tanto per poi consumarlo al bisogno senza necessità di dover andare ogni giorno a procurarselo. Non da ultimo occorre considerare che spesso, anche nella pratica giudiziaria, si prende in considerazione il peso della sostanza sequestrata e non quello, assai inferiore, di principio attivo da essa ricavabile e che invece dovrebbe essere l’unico parametro di riferimento.

 

     4. La difficoltà della distinzione tra assenza di offensività quale circostanza che esclude il reato e la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto: possibilità di individuare diversi livelli di lieve offensività della condotta? – Si è detto che la giurisprudenza di legittimità afferma la sussistenza del principio di offensività in concreto e in particolare il potere-dovere di verifica da parte del giudice circa l’effettiva corrispondenza della fattispecie sottoposta al suo esame con la condotta astratta di reato, nella prospettiva dell’art. 49, comma 2, c.p. (la punibilità è esclusa quando, per l’inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso).

     Alcune pronunce incentrano la motivazione di inoffensività sulla esiguità del principio attivo e sulla modalità palesemente minima di coltivazione. In tal senso, Cass. sez. 4, n. 25674 del 2011, Marino, riprende il concetto di coltivazione “domestica”, che pure era stato superato dalle Sezioni Unite nelle sentenze gemelle delle sezioni unite del 2008 (là dove indicativo di esclusione della punibilità delle condotte di coltivazione per la destinazione ad uso personale dello stupefacente), per affermare la non punibilità del fatto con riferimento ad una piantina di canapa indiana contenente principio attivo pari a mg. 16, posta in un piccolo vaso sul terrazzo di casa, in quanto condotta inoffensiva ex art. 49 cod. pen., che non integra il reato di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990. Più di recente, Cass. sez. 6, n. 5254 del 2015, dep. 2016, Pezzato, ha ritenuto l'inoffensività in concreto della condotta in un’ipotesi in cui essa era di tale minima entità da rendere sostanzialmente irrilevante l'aumento di disponibilità di droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione di essa; nella fattispecie la S.C. ha escluso il reato per la coltivazione di due piante di canapa indiana e la detenzione di 20 foglie della medesima pianta, in presenza di una produzione che, pur raggiungendo la soglia drogante, è stata definita “assolutamente minima”.

     Quest’ultima pronuncia distingue tra inoffensività tout court di una condotta di coltivazione di piante stupefacenti e irrilevanza penale del fatto per “tenuità” ai sensi dell’art. 131-bis c.p., affermando che l'art. 131 bis c.p. ed il principio di inoffensività in concreto operano su piani distinti, presupponendo, il primo, un reato perfezionato in tutti i suoi elementi, compresa l'offensività, benché di consistenza talmente minima da ritenersi "irrilevante" ai fini della punibilità, ed attenendo, il secondo, al caso in cui l'offesa manchi del tutto, escludendo la tipicità normativa e la stessa sussistenza del reato. Analogamente, ha affermato Cass., sez. 3, n. 15449 del 2015, Mazzarotto, che l’art. 131-bis c.p. riguarda soltanto quei comportamenti non abituali che, sebbene non inoffensivi in presenza dei presupposti normativamente indicati, risultino di così modesto rilievo da non ritenersi meritevoli di ulteriore considerazione in sede penale. Nello stesso senso, anche se con riferimento al reato di guida in stato d’ebbrezza, si è pronunciata altresì Cass., sez. U., n. 135681 del 2016, Tushaj (e, nello stesso senso, Cass. sez. 6, n. 5254 del 2015, dep. 2016, Pezzato, cit.), la quale, nel richiamare la costituzionalizzazione del principio di offensività, ha evidenziato l’obbligo per l'interprete delle norme penali di adattarle alla Costituzione in via ermeneutica, rendendole applicabili solo ai fatti concretamente offensivi o offensivi in misura apprezzabile. In tale operazione ritengono le sezioni unite che i beni giuridici e la loro offesa costituiscano la chiave per una interpretazione teleologica dei fatti che renda visibile la specifica offesa già contenuta nel tipo legale del fatto. Sul piano ermeneutico e teorico viene così superato lo stacco tra tipicità ed offensività: i singoli tipi di reato vanno ricostruiti in conformità al principio di offensività, sicchè tra i molteplici significati eventualmente compatibili con la lettera della legge si dovrà operare una scelta con l'aiuto del criterio del bene giuridico, considerando fuori del tipo di fatto incriminato i comportamenti non offensivi dell'interesse protetto; è proprio il parametro valutativo di offensività che consente di individuare gli elementi fattuali dotati di tipicità e di dare contenuto tangibile alle espressioni vaghe che spesso compaiono nelle formule legali. Le sezioni unite sottolineano altresì che in questo modo si risponda alle preoccupazioni espresse da chi teme che la nuova figura della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p., consentendo di devitalizzare vicende marginali, finisca con il depotenziare il principio di offensività quale chiave per la congrua restrizione dell'area del penalmente rilevante: il nuovo istituto è infatti esplicitamente, indiscutibilmente definito e disciplinato come causa di non punibilità e costituisce dunque figura di diritto penale sostanziale; esso persegue finalità connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio; con effetti anche in tema di deflazione. Lo scopo primario del 131-bis c.p. è quello di espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo. Il giudizio sulla tenuità del fatto richiede, infatti, una valutazione complessa che ha ad oggetto le modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo valutate ai sensi dell’art. 133 c.p. percui non esiste un'offesa tenue o grave in astratto, ma è la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore, tanto che, secondo le sezioni unite, qualunque reato, anche l'omicidio, può essere tenue (ma si ricordi che l’art. 131-bis c.p. è applicabile solo per quei reati la cui pena edittale non supera nel massimo i cinque anni di reclusione), come quando la condotta illecita conduce ad abbreviare la vita solo di poco. Concludono quindi le sezioni unite affermando che la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto è configurabile quindi anche in relazione al reato di guida in stato di ebbrezza, non essendo, in astratto, incompatibile, con il giudizio di particolare tenuità, la presenza di soglie di punibilità all'interno della fattispecie tipica, rapportate ai valori di tassi alcolemici accertati, anche nel caso in cui, al di sotto della soglia di rilevanza penale, vi è una fattispecie che integra un illecito amministrativo[7].

     Si ritiene che, anche se il ragionamento delle sezioni unite è senz’altro in astratto più che condivisibile, la contemporanea sussistenza del principio di offensività e della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. non potranno non ingenerare confusione e creare in concreto gravi problemi di compatibilità con il principio di legalità e di certezza del diritto.

      Peraltro – se le sezioni unite sembrano preoccuparsi soprattutto della compatibilità dei due istituti in relazione a reati in cui sono presenti delle soglie di punibilità - problemi sembrano poter sorgere soprattutto proprio per fattispecie tipiche prive di esse. Le soglie di punibilità infatti hanno il vantaggio di attribuire certezza circa la distinzione tra condotte offensive e inoffensive: ad esempio nel caso esaminato dalle sezioni unite o in quello di omesso versamento di IVA (oggetto di Cass., sez. 3, n. 13218 del 2016, Reggiani Viani. in cui si è affermato che l’art. 131-bis è applicabile soltanto alla omissione per un ammontare vicinissimo alla soglia di punibilità, fissata a 250.000 euro dall'art. 10-ter D.Lgs. n. 74 del 2000, in considerazione del fatto che il grado di offensività che dà luogo a reato è già stato valutato dal legislatore nella determinazione della soglia di rilevanza penale: la Corte ha così ritenuto non particolarmente tenue, sul piano oggettivo, l'omesso versamento di 270.703 euro) l’interprete sa già che il confine tra offensività e inoffensività è stato già tracciato dal legislatore e dovrà collocare la causa di non punibiità di cui all’art. 131-bis c.p. poco sopra tale soglia, tenendo conto, in quest’ultima valutazione che tale istituto tiene conto non solo dell’offesa al bene giuridico protetto ma anche delle modalità della condotta e del grado di colpevolezza.

     Nel caso dei reati privi di soglia di punibilità (si pensi ad esempio al furto o alla coltivazione in casa di marijuana), l’interprete dovrà invece fissare due diverse asticelle: una tendenzialmente “fissa” e riguardante un’offesa al bene giuridico di entità così minima da non recare in concreto alcun danno e l’altra “mobile” (perché dovrà tener conto come detto anche delle modalità della condotta e del grado di colpevolezza) collocata subito al di sopra di quella dell’offensività e tale da comprendere tutte quelle condotte che, se pur offensive, sono però caratterizzate da una particolare tenuità del fatto, operazione che, già dalla semplice valutazione del significato delle parole usate, si mostra assai complessa e inevitabilmente opinabile. Prendiamo ad esempio il furto: potremmo forse dire che il furto di un chicco d’uva è inoffensivo, mentre quello di una mela è offensivo ma di particolare tenuità? E nel caso della coltivazione in casa di marijuana per uso personale? La coltivazione di una dose giornaliera probabilmente potrà ritenersi inoffensiva mentre quella di due offensiva ma di particolare tenuità? L’impressione è che, vista la difficoltà di discernere la differenza tra i due istituti, la giurisprudenza finirà, a seconda del reato, per utilizzare l’uno o l’altro soltanto per evitare di cadere in contraddizioni troppo esplicite. La verità è che si è creata una doppia soglia di valutazione della tenuità del fatto tipico in cui, con la sola eccezione dei rari reati in cui è presente una soglia di punibilità, l’interprete è tenuto discrezionalmente ad individuare un’offesa inesistente (o “piccolissima”?) ed un’altra “piccolissima” (o “piccola”?), con buona pace del principio della certezza del diritto il cui rilevo costituzionale quale principio fondamentale, diretta emanazione del principio di uguaglianza, non è mai stato posto in dubbio dalla Corte costituzionale (cfr ad esempio Corte cost. n. 219 del 2013).

      Senza considerare ulteriori complicazioni derivanti dalla presenza di ulteriori leggi che già riconoscevano rilevanza alla tenuità del fatto: attualmente vi è un contrasto in Cassazione circa l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. ai procedimenti davanti al giudice di pace: secondo Cass., sez. 4, n. 40699 del 2016, Colangelo, l’art. 131-bis c.p., è applicabile anche nei procedimenti relativi a reati di competenza del giudice di pace, atteso che, si tratta di una disciplina diversa e più favorevole a quella di improcedibilità prevista dall'art. 34 d. lgs. n. 274 del 2000 (il fatto è di particolare tenuità quando, rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonchè la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato.), mentre per Cass., sez. 5, n. 45996 del 2016, Tocci, deve invece applicarsi quest’ultima norma da considerarsi norma speciale (e quindi prevalente) rispetto alla prima.

     In altri casi la tenuità del fatto è rappresentata da una circostanza attenuante: secondo Cass., sez. 1, n.. 27246 del 2015, Singh, il mancato riconoscimento della circostanza attenuante della lieve entità relativa al porto di oggetti atti ad offendere (nella specie un'ascia ed alcuni bastoni in legno e ferro) di cui all'art. 4, comma 3, l. n. 110 del 1975 impedisce la declaratoria di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto; un ragionamento del tutto analogo può svolgersi, nei delitti contro il patrimonio, a proposito dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p., (danno patrimoniale di speciale tenuità). In questi casi, a meno di non voler pervenire ad una interpretatio abrogans o del principio di offensività o dell’art. 131-bis c.p., occorre fissare addirittura tre diversi livelli di tenuità: il primo che esclude il reato (furto di un chicco d’uva?), il secondo rappresentato da una causa di non punibilità (furto di una una mela?) e il terzo da una semplice circostanza attenuante (furto di due mele?): cfr. Cass., sez. 3, n. 17184 del 2015, dep. 2016, Coppo, secondo cui l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p. non può essere dichiarata, dal giudice dell'impugnazione, in presenza di una sentenza di condanna che si sia limitata ad operare una valutazione di lieve entità del reato, nemmeno se valorizzata dal giudice per quantificare la pena in modo da avvicinarla più ai valori minimi che a quelli massimi; in motivazione la Corte ha precisato che la natura esigua del danno, o del pericolo, concorre, ai sensi dell'art. 131-bis c.p., a rendere non punibile un fatto, sicchè non può essere confusa con le ipotesi di "speciale" o "particolare" o "lieve" entità del fatto che attenuano il reato, senza escluderne l' offensività).

     Il problema del “triplice livello” della tenuità dell’offesa è presente anche per il reato di coltivazione di marijuana: cfr. Cass. sez. 3, n. 31415 del 2016,  Ganzer, secondo cui il fatto di lieve entità previsto dall'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, si ha in presenza di indici concreti che denotino la “minima offensività della condotta”, in relazione alla qualità, quantità, mezzi, modalità e circostanze dell'azione.

     In effetti, secondo Corte cost. n. 109 del 2016, spetta al giudice comune il compito di allineare la figura criminosa della coltivazione in casa di marijuana al canone dell’offensività “in concreto”, nel momento interpretativo ed applicativo: compete cioé al giudice verificare se la singola condotta di coltivazione non autorizzata, contestata all’agente, risulti assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e, dunque, in concreto inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità, risultato, questo, conseguibile sia facendo leva sulla figura del reato impossibile (art. 49, comma 2, c.p.); sia tramite il riconoscimento del difetto di tipicità del comportamento oggetto di giudizio. Secondo la Cassazione, ai fini della configurabilità del reato impossibile, ai sensi dell'art. 49 c.p., comma 2, l’inidoneità dell'azione va valutata in rapporto alla condotta dell'agente, la quale per inefficienza strutturale o strumentale del mezzo usato ed indipendentemente da cause estranee o estrinseche, deve essere priva in modo assoluto di determinazione causale nella produzione dell'evento. L'accertamento di tale requisito, che non può prescindere dalla considerazione del caso concreto e dal riferimento alla fattispecie legale, deve, perciò, avere riguardo all'inizio dell'azione la cui inidoneità deve essere assoluta, nel senso che rispetto ad essa il verificarsi dell'evento si profili come impossibile e non soltanto come improbabile. (Cass. sez. 3,  n. 15449 del 2015, Mazzarotto, Cass., S.U. n. 6218 del 1983, Bandinelli).

     Se il principio di offensività deve essere modellato, secondo l’insegnamento della Consulta, sull’istituto del reato impossibile (in cui secondo la Cassazione l’inidoneità dell’azione deve essere “assoluta”) o su quello della tipicità legale (e quindi l’azione non corrisponde a quella descritta dalla fattispecie astratta di reato), non si vede però quale sarebbe il quid pluris di novità nell’escludere la sussistenza del reato, rispetto a reato impossibile e tipicità legale, offerto dal riferimento al principio di offensività (dovrebbe invece predicarsi in maniera più chiara e netta la necessità che per esservi un reato, oltre al fato tipico descritto dalla norma, il bene giuridico venga offeso in maniera non del tutto insignificante). In altre parole il rischio è quello, anche per “far spazio” all’art. 131-bis c.p., di “dimenticare” il principio di offensività, il quale o si appiattisce su difetto di tipicità legale e reato impossibile o viene inevitabilmente compresso, rappresentando un livello “intermedio” tra reato impossibile e difetto di tipicità legale da un lato e art. 131-bis c.p. dall’altro, individuabile solo in teoria: in entrambi i casi trovando ben poco spazio di applicazione. Nell’ipotesi ricostruttiva del livello intermedio, si verrebbero a determinare addirittura quattro livelli di offensività/tenuità del fatto: il difetto di tipicità legale/reato impossibile (la cassetta di frutta dove allunga la mano non contiene neppure un chicco d’uva), il difetto di offensività (si ruba un chicco d’uva), la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. (si ruba una mela) e la circostanza attenuante del fatto di lieve entità (si rubano due mele).

 

     5. Persistenza del reato e perdurante disvalore (sociale?) nei confronti del consumatore di marijuana (tossicodipendente?). - Sembra che a favore della perdurante vigenza del reato di coltivazione di marijuana ad uso personale e dell’estrema severità con il quale è individuato dalla giurisprudenza, militi ancora un forte e malcelato disvalore per il “drogato” o “tosscidipendente”. In effetti la Corte costituzionale, nella sentenza n. 109 del 2016 (quindi non in una sentenza degli anni sessanta, anni in cui ad esempio la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la perdurante vigenza del reato di adulterio - di cui all’epoca vigente art. 559 c.p. - solo se commesso dalla donna: cfr. Corte cost. n. 64 del 1961) così si esprime: “si deve scorgere, di norma, nella figura del tossicodipendente o del tossicofilo una manifestazione di disadattamento sociale, cui far fronte, se del caso, con interventi di tipo terapeutico e riabilitativo”… “la perdurante presenza di un apparato sanzionatorio amministrativo, composto da un ventaglio di misure non pecuniarie di significativo spessore” (sospensione della patente, del passaporto e del porto d’armi: cfr. art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990), “attesta come anche all’attività di assunzione di sostanze stupefacenti vengano annessi connotati di disvalore: ciò, pur tenendo conto della possibilità, offerta all’autore dell’illecito, di evitare l’applicazione delle sanzioni sottoponendosi, con esito positivo, ad un programma terapeutico e socio-riabilitativo”…. “tra le condotte depenalizzate non risulta inclusa – né mai lo è stata – la coltivazione non autorizzata di piante dalle quali possono estrarsi sostanze stupefacenti (quale la cannabis)”…. “…. pulsioni criminogene indotte dalla tossicodipendenza….“ …il legislatore, nell’ottica di prevenire i deleteri effetti connessi alla diffusione dell’abitudine al consumo delle droghe….”.

       Il rischio è di criminalizzare i tossicodipendenti i quali, proprio per la loro intrinseca debolezza caratteriale, corrono più rischi di altri nel transitare per il circuito carcerario. La legge attualmente in vigore, nella sua interpretazione dei due Supremi organi giudiziari italiani oltre a non tenere conto di queste (ormai banali) osservazioni e si muove oltretutto in aperto conflitto rispetto agli esiti referendari del 1993. La legge appare espressione di una concezione non del tutto liberale del diritto penale, utilizzato impropriamente quale strumento di regolamentazione e proibizione di comportamenti ritenuti pericolosi.

     A conferma di questa impressione di disfavore per i “drogati” (anche se consumatori della sola marijuana e anche se non dipendenti dal consumo di tale sostanza) vi è che nel 2006, con un emendamento inserito nel corso dei lavori per la conversione in legge del d.l. n. 272 del 2005 (peraltro riguardante tutt’altra disciplina, ossia le Olimpiadi invernali di Torino), convertito in l. n. 49 del 2006, si sono introdotte delle significative modifiche al d.P.R. n. 309 del 1990 non certo in linea con l’esito del referendum del 1993. In particolare, le novità apportate dal decreto-legge consistono nell’assimilazione, ai fini sanzionatori, delle «droghe leggere» a quelle «pesanti»: tutte le sostanze stupefacenti o psicotrope (dall'oppio, alla cocaina, alla cannabis alle anfetamine) sono cioè ricomprese in un'unica tabella, mentre in un'altra tabella si trovano i medicinali regolarmente registrati in Italia contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui la legge vieta (sebbene con pene minori rispetto a quelle previste per le sostanze "vietate") l'abuso o comunque il consumo, la produzione, l'acquisto, la cessione, ecc., senza autorizzazione o prescrizione medica. Per effetto di tali modifiche le sanzioni per i reati concernenti le cosiddette “droghe leggere” e, in particolare, i derivati dalla cannabis, precedentemente stabilite nell’intervallo edittale della pena della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 5.164 ad euro 77.468, sono state elevate, prevedendosi la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 26.000 ad euro 260.000. La sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disciplina, non però sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza per avere il legislatore assimilato il trattamento delle droghe leggere a quelle pesanti, ma, ex art. 77 Cost., per un vizio procedurale nella formazione della legge (disomogeneità delle disposizioni impugnate rispetto al decreto-legge da convertire); la Consulta non accenna infatti ad affermare anche la palese irragionevolezza di questa assimilazione (in ossequio al principio secondo cui occorre trattare in maniera adeguatamente diseguale situazioni diseguali) ma si limita ad osservare che una tale penetrante e incisiva riforma, coinvolgente delicate scelte di natura politica, giuridica e scientifica, avrebbe richiesto un adeguato dibattito parlamentare, possibile ove si fossero seguite le ordinarie procedure di formazione della legge.

      Sembra dunque che Legislatore e Corte costituzionale si siano sostituite alla volontà popolare giudicando socialmente disdicevole la condotta consistente nell’assumere marijuana, eludendo quello sforzo ermeneutico richiesto all’interprete consistente nel dovere di calarsi nella coscienza sociale e di farsene portavoce imparziale. L’idea di pericolosità presunta, che la rivoluzione illuminista avrebbe dovuto travolgere e lasciare alle spalle, sembra continuare invece a tenere il campo e a produrre effetti inquietanti: il coltivatore casalingo di marijuana per uso personale sembra accusato di “pulsioni criminogene” senza alcun accertamento in concreto dell’effettività di tale assunto, in contrasto con l’avvenuta abrogazione, ad opera dell’art. 31 della l. n. 663 del 1986, dell’art. 204 c.p. sulla pericolosità sociale presunta, sostituita dal principio secondo cui le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che chi ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa.

 

     6. Libertà di autoderminazione del consumatore di marijuana e perplessità circa l’effettiva lesione – reale o potenziale - dei beni giuridici protetti. – Afferma Corte cost. n. 139 del 2014, che l’offensività di una condotta va valutata «avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice».

      Secondo Corte cost. n. 109 del 2016, ratio dell’incriminazione delle condotte previste dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 è non solo «quello di combattere il mercato della droga, espellendolo dal circuito nazionale poiché, proprio attraverso la cessione al consumatore viene realizzata la circolazione della droga e viene alimentato il mercato di essa che mette in pericolo la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico nonché a tutela del normale sviluppo delle giovani generazioni» (come affermato dalle sezioni unite con Cass., sez. U, n. 9973 del 1998, Kremi, ampiamente ripresa dalla giurisprudenza di legittimità successiva) ma anche quello di salvaguardare la salute dei singoli, onde impedire le «…. pulsioni criminogene indotte dalla tossicodipendenza….e «prevenire i deleteri effetti connessi alla diffusione dell’abitudine al consumo delle droghe….”

      Per stabilire se una determinata condotta sia effettivamente offensiva e quindi integri il reato di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, il problema è dunque quello di stabilire se una coltivazione in casa per uso personale di marijuana leda o metta in pericolo effettivamente qualcuno di questi beni giuridici.

     Se la coltivazione della marijuana è per uso personale, e quindi non vi è destinazione al mercato della sostanza stupefacente, viene da sé che la salute pubblica e l’ordine e la sicurezza pubblica non corrono nessun pericolo, a meno di non presumere che al consumo, anche saltuario, di marijuana corrispondano delle pulsioni criminogene, circostanza che, oltre a non avere alcuna base scientifica è stata comunque criticata nel paragrafo precedente perché determinerebbe la creazione di una figura di pericolosità presunta estranea al nostro ordinamento.  

      Rimarrebbe dunque il bene giuridico rappresentato dalla salute dei singoli: secondo la Consulta, la fattispecie criminosa considerata poggerebbe su una presunzione di pericolo non irragionevole, inerendo a condotta «idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga»: afferma in particolare la sentenza n. 109 del 2016 che la coltivazione è «comportamento idoneo ad accrescere il quantitativo di stupefacenti presenti sul territorio nazionale».  (sentenze nn. 109 del 2016 e 360 del 1995). Tali affermazioni fanno riferimento alla coltivazione di marijuana che abbia per finalità la destinazione dela stessa al mercato: se però ci concentriamo su quello che a noi interessa, e cioè la coltivazione per uso personale, scopriamo che la Consulta afferma che la salute individuale dell’autore del fatto non «resta estranea agli obiettivi di protezione penale». Anche a voler ammettere che il consumo saltuario di marijuana autoprodotta rechi dei significativi danni alla propria salute (idea peraltro priva di basi scientifiche) tale affermazione si pone in deciso contrasto con un indirizzo generale dell’ordinamento diretto a non annettere rilevanza penale ai comportamenti «autolesivi», compreso quello estremo (il tentato suicidio: cfr. Cass. civ., S.U. n. 25767 del 2015, secondo la quale non è punibile il tentato suicidio, anche se, ex art. 580 c.p., costituisce reato l'istigazione o l'aiuto al suicidio). Del resto, se così non fosse, lo Stato dovrebbe allora farsi carico del compito di tutelare la salute del singolo in ogni momento, impedendogli ad esempio di vivere nelle inquinatissime città italiane.

     Sembra più in generale che tale orientamento della Corte costituzionale contrasti con il principio di autodeterminazione della persona umana, strettamente connesso al disposto dell’art. 2 Cost. e del comma 2 dell’art. 32 Cost., secondo cui nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Ogni persona ha infatti diritto al rispetto di sé e del più intimo ed inviolabile nucleo della propria personalità, derivante dalle convinzioni politiche, etiche, religiose, culturali e filosofiche maturate, dalle esperienze emozionali vissute e dalle conseguenti scelte e determinazioni esistenziali. Nel nostro ordinamento infatti, oltre, come detto, a non costituire reato il tentato suicidio (che certo è un attentato alla salute individuale mille volte più grave rispetto all’assunzione di marijuana), è altresì pienamente legittimo il rifiuto, da parte di ogni essere umano, di ricevere le cure necessarie per impedire la morte. Non integra infatti il reato di omicidio del consenziente il comportamento del medico che lascia morire di inedia un paziente affetto da una grave patologia invalidante, senza imporgli quella nutrizione ed idratazione da questi consapevolmente rifiutate; tale rifiuto è giuridicamente efficace, perché rientrante nell’art. 32, comma 2, cost., per il quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non nei casi previsti dalla legge. Pertanto, quando un paziente si oppone ad un determinato trattamento sanitario, la relativa omissione del medico non è tipica e non è penalmente rilevante: viene infatti meno l’obbligo giuridico ex art. 40, comma 2, c.p., anzi scatta per il medico il precipuo dovere di rispettare la volontà del paziente.

      Il diritto costituzionale di rifiutare le cure, riconosciuto in sede giurisdizionale di legittimità, è un diritto di libertà assoluto, efficace erga omnes e, quindi, nei confronti di chiunque intrattenga con l'ammalato, anche se in stato vegetativo e alimentato solo artificialmente, il rapporto di cura, sia nell'ambito di strutture sanitarie pubbliche che private. La manifestazione di tale consapevole rifiuto rende doverosa la sospensione dei mezzi terapeutici, il cui impiego non dia alcuna speranza di uscita dallo stato vegetativo in cui versa la paziente e non corrisponda alla sua volontà; tale obbligo sussiste anche ove sia sospeso il trattamento di sostegno vitale, con conseguente morte del paziente, giacché tale ipotesi non costituisce, secondo il nostro ordinamento, una forma di eutanasia, bensì la scelta insindacabile del malato di assecondare il decorso naturale della malattia sino alla morte[8].

    Diverso naturalmente se dalla mancata cura del singolo dipendesse un pericolo per la salute pubblica: la Consulta ha più volte ragionevolmente affermato (sentenze nn. 307 del 1990, 132 del 1992, 118 del 1996 e 107 del 2012) che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost. se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale». Ma così non è: chi fa uso di marijuana non pone in pericolo la salute degli altri come chi non si vaccina.

       Sembra dunque che nessuno dei beni giuridici tutelati dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 sia leso o posto in pericolo dalla condotta di chi coltivi in casa marijuana per uso personale.

      

      7. L’irrisarcibilità del danno non patrimoniale derivante da reato ma scarsamente offensivo e la ragionevole durata dei processi. – In tema di responsabilità contrattuale l’art. 1455 c.c. afferma che il contratto non si può sciogliere se l’inadempimento ha scarsa importanza: ma, sia in caso di responsabilità contrattuale che di extracontrattuale, anche un’offesa minima fa sorgere in capo a chi l’ha subita il diritto al risarcimento del danno.

       Una significativa eccezione a questi principi dettata dalla giurisprudenza si riscontra tuttavia in tema di danno non patrimoniale.

     Secondo la Cassazione civile, il danno non patrimoniale conseguente ad un reato è l’unico risarcibile in tutte le sue componenti (anche, per ipotesi, in quella del danno esistenziale: in questo senso la citata Cass. civ., S.U., n. 26972 del 2008, che pure, affermando che tale danno non deriva dalla lesione dei diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost., ne ha ridimensionato notevolmente l’ambito di applicazione). Il danno da reato appariva e appare pertanto come quello più grave e quindi come il più “meritevole” di un pieno ristoro, anche per la circostanza di essere il più “antico” (in quanto è riconosciuto fin dal 1942, epoca in cui l’unica ipotesi di riconoscimento legislativo o giurisprudenziale del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale era l’art. 185 c.p.; gli altri invece solo a seguito di leggi speciali successive, degli anni novanta o degli anni duemila) o in virtù dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., avvenuta nel 2003[9], ed erano pertanto sorti dubbi circa la possibilità di negare in tal caso il risarcimento del danno non patrimoniale di lieve entità, pur in presenza di un trend giurisprudenziale diretto, attraverso la massima valorizzazione del principio di solidarietà, a escludere il risarcimento nell’ipotesi di danno non patrimoniale la cui risarcibilità discende da una legge speciale o da una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.

     Rimaneva infatti non del tutto chiarito, in assenza di chiare affermazioni giurisprudenziali in un senso o nell’altro, se fosse risarcibile il danno non patrimoniale nell’ipotesi in cui da un lato fosse sì conseguenza di un reato ma dall’altro fosse di lieve entità, avesse cioè cagionato un pregiudizio alla vittima futile, non serio, futilità e non serietà da valutarsi secondo quanto ritenuto dalla coscienza sociale. La Cassazione civile a sezioni unite n. 3727 del 2016 fonda la propria decisione con la quale stabilisce la non risarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità che sia conseguenza del reato di cui all’art. 684 c.p. (pubblicazione arbitraria di atti processuali coperti da segreto investigativo), sulla base di varie argomentazioni.

      La prima è che il reato consistente nel trasgredire il divieto di pubblicare atti coperti dal segreto investigativo di cui all’art. 684 c.p. è monoffensivo, e cioè è diretto a tutelare soltanto interessi pubblici legati al buon funzionamento della giustizia e non anche diritti fondamentali quali la reputazione e la riservatezza (ma questa affermazione, se può essere condivisa quando la condotta criminosa sia commessa – come nel caso di specie - dopo la chiusura delle indagini, lascia invece forti perplessità se il reato sia perpetrato quando il segreto investigativo è ancora operante).

      Una seconda argomentazione si fonda sul rilievo che la condotta scarsamente offensiva in ragione della modesta entità della riproduzione, non si porrebbe in contrasto con il principio di necessaria offensività (ma su questa affermazione rimangono non pochi dubbi alla luce di quanto in precedenza illustrato circa l’applicazione assai scarsa e per condotte di consistenza veramente irrisoria che ha avuto il principio di offensività nel diritto penale, tanto che la sentenza della Consulta sul punto citata dalla Cassazione da ultimo citata per dimostrare l’esistenza di tale principio in penale[10] cita tale principio non all’interno di una concreta fattispecie criminosa ma in astratto – così come è compito della Corte costituzionale – ossia per discernere se una fattispecie criminosa abbia ragion d’essere alla luce di tale principio (e peraltro giungendo ala conclusione che il reato preso in esame – l’art. 612-bis c.p. – non fosse tacciabile di inoffensività).

      Infine, e questa è l’ultima argomentazione di Cass. civ. S.U. n. 3727 del 2016, “al principio della necessità offensività penalistico fa da pendant, nell’ordinamento privatistico e in virtù dell’art. 2 Cost., quello della irrisarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità”: per quanto detto circa la scarsa applicazione del principio di offensività, l’equazione “necessaria offensività” in penale uguale “non risarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità” in civile appare piuttosto forzata.

     Sfrondandola però dagli arditi e molto probabilmente imprecisi sconfinamenti nel diritto penale, è proprio quest’ultima l’affermazione della citata sentenza a sezioni unite che, per la circostanza di basarsi su un principio fondamentale quale è l’art. 2 Cost. e per non limitarsi a prendere in considerazione i danni provenienti dall’art. 684 c.p. ma tutti i danni provenienti in genere da reato, ha maggiore rilievo dal punto di vista civilistico, in quanto permette di estendere il principio della non risarcibilità del danno di lieve entità a tutti i danni non patrimoniali che siano conseguenza di un qualsiasi reato.

     Le sentenza della Cassazione n. 3727 del 2016 afferma infatti che, alla luce del principio costituzionale di solidarietà (che le sezioni unite accostano anche ad un dovere di tolleranza dell’agire altrui invasivo della propria sfera giuridica, e che – secondo quanto affermato dalla Cassazione[11] – costituisce il punto di mediazione che permette all'ordinamento di salvaguardare il diritto del singolo nell'ambito di una concreta comunità di persone che deve affrontare i costi di una esistenza collettiva), il danno non patrimoniale di lieve entità, che pure si ammette essere venuto ad esistenza, non possa però essere risarcito, in quanto non v'è diritto per cui non operi la regola del bilanciamento, in forza della quale, perché si abbia una lesione ingiustificabile e risarcibile dello stesso, non basta la mera violazione delle disposizioni che lo riconoscono, ma è necessaria una violazione che ne offenda in modo sensibile la portata effettiva. Più nel dettaglio, a partire dalla citata sentenza a sezioni unite n. 26972 del 2008, secondo la Cassazione il danno non patrimoniale è risarcibile soltanto se la lesione dell’interesse protetto sia grave e se il danno conseguenza non sia futile. Tale principio è affermato in virtù da un lato dell’esistenza del principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., che impone a tutti i consociati una certa tolleranza nei confronti dei danni non patrimoniali subiti dagli altri e dall’altro dalla constatazione dell’inesistenza di un principio della necessità di risarcire sempre e comunque il danno non patrimoniale (che anzi il 2059 c.c., almeno nella sua interpretazione antecedente quella costituzionalmente orientata del 2003, sembra esprimere proprio il concetto opposto)[12].

     Da una lettura delle citate sentenze civili a sezioni unite n. 26972 del 2008 e n. 3727 del 2016, sembra emergere che, nell’ipotesi di reato e negli altri casi di danno non patrimoniale la cui risarcibilità è prevista espressamente dalla legge, mentre il requisito della gravità dell’interesse protetto è implicito nella previsione legislativa (e in penale dovremmo parlare di offensività in astratto), occorre invece sempre comunque dimostrare la non futilità del danno subito (ossia che il danno non sia lieve: in penale saremmo nel campo dell’offensività in concreto), a prescindere dunque dal fatto che il danno derivi da reato o dalla lesione di un interesse costituzionalmente rilevante o che possa qualificarsi o meno come esistenziale.

      Coerentemente la Cassazione[13] aveva affermato che può ritenersi che il giudizio sulla gravità della lesione, ma non anche quello sulla serietà del danno, sia già definitivamente espresso dal legislatore nella stessa scelta di politica criminale di punire, per il particolare disvalore che lo caratterizza, un fatto come reato. Si pensi del resto all’esempio, offerto in motivazione dalla citata Cassazione a sezioni unite n. 26972 del 2008, quale danno non patrimoniale non risarcibile, di un “graffio superficiale dell’epidermide”. Tale danno non è considerato risarcibile, pur costituendo pacificamente sia lesione del diritto fondamentale alla salute di cui all’art. 32 Cost. sia conseguenza di un reato (se infatti il graffio non integrasse un reato in quanto conseguenza di una condotta né dolosa né colposa non si porrebbe proprio il problema dell’accertamento della futilità del danno, mancando a monte uno dei requisiti base dell’illecito civile, ossia l’elemento soggettivo). Sembra semmai che la sentenza voglia sottolineare da un lato che quando la lesione di un interesse costituzionalmente protetto sia lieve il relativo danno perda consistenza, ossia non venga più ritenuto meritevole di tutela dalla coscienza sociale e dall’altro che quanto maggiore sia la rilevanza dell’interesse leso tanto minore sarà la tolleranza che si deve avere in caso di sua lesione[14]. 

      Nel caso oggetto dell’attenzione delle Sezioni unite n. 3727 del 2016 sembra che, a prescindere dalla configurabilità o meno del reato di cui all’art. 684 c.p., possa individuarsi un diritto costituzionale leso di particolare importanza (violazione della riservatezza e/o della reputazione). Il problema semmai che si pone quindi è quello di accertare, anche a voler ammettere – diversamente dalle conclusioni cui perviene la sentenza da ultimo citata - che il reato di cui all’art. 684 c.p. sia plurioffensivo in quanto posto a tutela sia dell’interesse al buon funzionamento della giustizia sia (più o meno indirettamente) a tutela della riservatezza e della reputazione, se questa offensività nei confronti dei valori reputazione/riservatezza superi una certa soglia di tollerabilità, ossia se il danno possa considerarsi lieve ove alla limitatezza della riproduzione si accompagni la marginalità del loro contenuto, per il fatto di riferirsi a fatti storici non particolarmente significativi se non addirittura pacifici per il pubblico dei lettori.

      Si comprende allora quale diventa il problema creato da una soluzione pur in astratto più che condivisibile, problema per certi versi analogo a quello creato dall’istituto dell’abuso del diritto: il già citato sacrificio della certezza del diritto (che pure è riconducibile al principio di ragionevolezza e quindi all’art. 3 Cost.), in quanto è rimesso alla discrezionalità del giudice nell’interpretare la coscienza sociale lo stabilire quando un danno non patrimoniale sia di “lieve entità” (similmente a quanto avviene in campo contrattuale per l’abuso del diritto, ove il giudice deve decidere quando l’esercizio di un diritto determini uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte).

      Per venire incontro a queste esigenze di certezza, si ritiene che il legislatore potrebbe intervenire per fissare un limite pecuniario sotto il quale il danno non patrimoniale non possa essere risarcito, in tal modo consentendo anche al danneggiato di potersi meglio regolare circa le possibilità di ottenere un ristoro alla sua pretesa (che spesso, perlomeno in linea di massima, può già quantificarsi: si pensi in particolare alle tabelle di Milano, mediante le quali il danno biologico, ove si conoscano l’età del danneggiato e la percentuale di invalidità riconosciutagli, è già, a grandi linee, “patrimonializzato”), con conseguenti ricadute positive quindi anche in termini di riduzione delle cause sollevate inutilmente: analogamente potrebbe procedersi in campo penalistico per i reati privi di soglia di punibilità (quali la coltivazione casalinga di marijuana o il furto), sia per quanto riguarda l’offensività che per la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. (poiché in quest’ultimo caso occorre valutare anche altri parametri oltre a quello dell’offesa al bene giuridico protetto, potrebbero comunque individuarsi delle soglie sotto le quali la suddetta causa di non puniblità è comunque individuabile a prescindere dagli altri fattori)..

      In definitiva, il principio della non risarcibilità in ogni caso del danno non patrimoniale di lieve entità, trova un sicuro riferimento costituzionale nel principio di solidarietà e nella necessità di bilanciarlo con altri diritti che sarebbero sacrificati se tale danno non fosse recato (si pensi, nel caso dell’art. 684 c.p., al citato diritto ad essere informati della collettività), nonché con evidenti ragioni pratiche di impedire l’accesso alla giustizia a liti di scarso valore economico (che trovano un referente costituzionale nell’art. 111 Cost.); al contempo però questa impostazione si scontra inevitabilmente con il principio della certezza del diritto. In effetti, a voler essere coerenti con l’impostazione della sentenza n. 3727 del 2016, una volta riconosciuto che il danno non patrimoniale in genere è risarcibile ed è pure suscettibile di essere liquidato in denaro, ed è quindi assimilabile in concerto ad un danno patrimoniale, si dovrebbe coerentemente pervenire alla conclusione che anche il danno patrimoniale di lieve entità non possa essere risarcito, a meno di non violare il principio di uguaglianza volendo considerare i danni non patrimoniali come danni “di serie B”, ossia “meno meritevoli di risarcimento” di quelli patrimoniali.

       Le perplessità esposte in precedenza diventano inquietanti interrogativi ove si consideri che la sentenza n. 3727 del 2016 della Cassazione non ha operato alcun distinguo per l’ipotesi in cui il danno non patrimoniale sia cagionato volontariamente. Riprendendo l’esempio di danno non patrimoniale non risarcibile fatto dalla sentenza n. 26972 del 2008, relativo al graffio superficiale all’epidermide, non sembra infatti ragionevole che tale danno, pure oggettivamente esiguo e pur se compiuto una tantum, debba essere tollerato nel caso in cui esso sia effettuato intenzionalmente (quindi soprattutto non se a titolo di dolo eventuale ma diretto o intenzionale). Del resto l’art. 833 c.c. in tema di divieto di atti d’emulazione vieta persino l’esercizio di un proprio diritto quando esso abbia il solo scopo di nuocere o recare molestia ad altri. Soprattutto l’art. 131-bis, come già sottolineato in precedenza, non prende in considerazione come unico parametro di riferimento l’entità dell’offesa subita dal bene giuridico protetto dalla norma penale ma anche, mediante il rinvio all’art. 133 c.p., l’intensità del dolo o la gravità della colpa.

      Potrebbe però sostenersi che il principio di solidarietà debba essere più rettamente inteso non come obbligo nei confronti del danneggiante di tollerarne e sopportarne la maleducazione e l’invadenza, ma come dovere nei confronti dell’ordinamento giuridico, e quindi della collettività, di non proporre causa per una questione “bagatellare” che appesantirebbe il meccanismo della giustizia, visto che la collettività non può permettersi di sopportare il costo, economico e sociale, di un numero eccessivo di cause, anche alla luce dei principi costituzionali riguardanti la ragionevole durata del processo, dato che l’aumentare del numero delle cause farebbe inevitabilmente rallentare tutte le altre (oltretutto, nella maggior parte dei casi, aventi ad oggetto interessi ben più rilevanti). E’ infatti evidente, anche in una prospettiva di analisi economica del diritto, che il costo per la collettività di una causa “bagatellare” può raggiungere – e nella realtà spesso non solo raggiunge ma supera di gran lunga – il valore della causa stessa e sarebbe pertanto irragionevole che l’ordinamento possa consentire liti simili. In quest’ottica dunque, il principio di solidarietà sposterebbe la prospettiva su un piano più propriamente pubblicistico, mettendo in gioco valori estranei al rapporto prettamente privatistico[15].

      Tuttavia, anche in questa prospettiva “pubblicistica” rimane pur sempre aperto il problema della mancata sanzione nei confronti del danneggiante, a meno di non volerlo giustificare per il solo fatto che, in concreto, comportamenti di ordinaria maleducazione siano ormai oggi in Italia all’ordine del giorno e sono purtroppo socialmente ampiamente non solo diffusi ma anche e soprattutto tollerati (si pensi al posteggio di una autovettura in doppia fila per un lasso significativo di tempo o a rumori molesti emessi in ore notturne). Il problema della mancata sanzione del danneggiante potrebbe risolversi rilevando come la concezione della natura sanzionatoria della responsabilità civile sia ormai superata: si pensi alla sentenza della Cassazione a sezioni unite[16] in materia di danno tanatologico, secondo la quale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità iure hereditatis di tale pregiudizio.

      Nella prospettiva originaria, invece, il cuore del sistema della responsabilità civile era legato a un profilo di natura soggettiva e psicologica, che ha riguardo all'agire dell'autore dell'illecito e vede nel risarcimento una forma di sanzione analoga a quella penale, con funzione deterrente (sistema sintetizzato dal principio affermato dalla dottrina tedesca “nessuna responsabilità senza colpa” e corrispondente alle codificazioni ottocentesche, per giungere alle stesse impostazioni teoriche poste a base del codice del 1942).

      L’attuale impostazione, sia dottrinaria che giurisprudenziale, (che nelle sue manifestazioni più avanzate concepisce l'area della responsabilità civile come sistema di responsabilità sempre più spesso oggettiva, diretta a realizzare una tecnica di allocazione dei danni secondo i principi della teoria dell'analisi economica del diritto) evidenzia come risulti primaria l'esigenza (oltre che consolatoria) di riparazione (e redistribuzione tra i consociati, in attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.) dei pregiudizi delle vittime di atti illeciti, con la conseguenza che il momento centrale del sistema è rappresentato dal danno, inteso come “perdita cagionata da una lesione di una situazione giuridica soggettiva”[17].

      Occorre però sottolineare che nel caso del danno non patrimoniale di lieve entità tale danno (anche se appunto di lieve entità) si è realizzato effettivamente, e quindi, anche in una prospettiva non sanzionatoria ma riparatoria, non può non rilevarsi che così è il danneggiato – che non può chiederne il relativo risarcimento – e non il danneggiante, a doversene fare carico, il che, specie nel caso in cui tale danno sia cagionato con dolo, appare francamente del tutto irragionevole. Inoltre, non può dimenticarsi che, nel caso del danno da morte il danneggiante verrà comunque sanzionato dal codice penale, e dovrà inoltre molto probabilmente risarcire i parenti della vittima per i danni patrimoniali e non patrimoniali da loro subiti; nel caso invece del danno non patrimoniale di lieve entità, in relazione all’entrata in vigore della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto introdotta dal d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, che ha inserito all’interno del codice penale l’art. 131-bis c.p. secondo cui la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, l'offesa è di particolare tenuità, il danneggiante “rischia” la più completa impunità, ossia di non incorrere in nessuna sanzione, né penale né civile.

     Si ritiene dunque che, perlomeno per quanto riguarda quelli cagionati volontariamente, la Suprema Corte dovrebbe rimeditare l’attuale impostazione che impedisce al danneggiato di ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali di lieve entità.

     Tornando al reato di coltivazione in casa di marijuana per uso personale, esso è perseguibile d’ufficio e normalmente non pone problemi di individuazione della persona offesa e della risarcibilità del danno non patrimoniale. Tuttavia ragionamenti analoghi a quelli svolti in precedenza per l’irrisarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità potrebbero essere presi a prestito: il costo per la collettività – in un Paese dove ogni giorno si prescrivono reati di enorme gravità per carenza di risorse -  di un processo penale “bagatellare” quale quello in questione sembra superare l’interesse della collettività a punire il consumatore di marijuana e sembra pertanto irragionevole che l’ordinamento possa permettersi processi simili (che hanno oltretutto quasi sempre il costo della consulenza sul principio attivo effettivamente ricavabile dalle piante). Questo non significa naturalmente che il comportamento in questione non possa e non debba essere scoraggiato e adeguatamente sanzionato - come peraltro lo è anche tuttora (cfr. art. 75 d.P.R. n. 309 del 1990, cit.) - in via amministrativa, in quanto non possono dimenticarsi i costi, notevolissimi, per il servizio sanitario nazionale, determinati dalla cura e dalla riabilitazione dei tossicodipendenti. In questa prospettiva del resto vanno inquadrati e compresi altri limiti alla libertà di autodeterminazione, quali ad esempio l’obbligo di portare il casco in moto o allacciare le cinture in in auto, obblighi la cui violazione però non è sanzionata penalmente.

      In quest’ottica dunque, il principio di solidarietà potrebbe essere interpretato come dovere della collettività di sopportare (o meglio rinunciare alla sanzione penale) condotte che rivestono un disvalore (sociale?), con il vantaggio, rispetto al campo civilistico, che non si porrebbe il problema del mancato risarcimento del danno nei confronti del danneggiato. Sembra dunque che un’ultima chiave di lettura del problema dell’offensività della condotta del reato in questione debba essere proprio quello del giusto processo di cui all’art. 111 Cost.: la sentenza della Consulta n. 139 del 2014 ha esplicitamente accostato il principio di offensività alle esigenze di deflazionare la giustizia penale, e questo obiettivo, come si è cercato di evidenziare nell’ultimo paragrafo, è senz’altro stato un punto di riferimento anche per l’orientamento giurisprudenziale che nega la risarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità. Se poi si ragiona sul fatto che la sanzione penale, al contrario di quella civile, deve avere la caratteristica dell’extrema ratio e che per il reato in questione è, a tutto concedere, rinvenibile non un danno patrimoniale alla collettività ma non patrimoniale (consistente nel disvalore sociale di tale condotta?), non si vede perché tale danno dovrebbe essere ritenuto “risarcibile” (in termini di effettività dell’irrogazione della sanzione penale) quando un analogo danno non verrebbe risarcito in ambito civilistico.

 

                                                                                              



[1] Si pensi alla sentenza n. 189 del 1987 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del reato di esposizione non autorizzata di bandiera di stato estero, ovvero alla sentenza n. 519 del 1995, egualmente dichiarativa dell’illegittimità stavolta del reato di mendicità non invasiva (art. 670 c.p.); si veda altresì la sentenza n. 354 del 2002, sull’illegittimità costituzionale dell’art. 688, comma 2, c.p. (chiunque, già condannato per un delitto non colposo contro la vita o la libertà individuale, fosse colto in stato di manifesta ubriachezza in un luogo pubblico o aperto al pubblico), la cui motivazione faceva leva proprio sul fatto che la fattispecie esauriva il suo carico di lesività in condizioni e qualità individuali, come in una sorta di reato d’autore, “in aperta violazione del principio di offensività del reato, che nella sua accezione astratta costituisce un limite alla discrezionalità legislativa in materia penale”di contro, più recentemente la Corte ha ritenuto infondato il vaglio di costituzionalità per il reato di clandestinità (art. 10 bis del d.lgs. n 286 del 1998): cfr. sentenza n. 250 del 2010. La sentenza n. 249 del 2010, in materia di aggravante della clandestinità di cui all’art. 61, n. 11, c.p., ha invece ribadito il canone costituzionale della necessaria offensività per la costruzione di fattispecie penali e ha altresì precisato come l’art. 25, comma 2, Cost. costituisce ulteriore limite a tali tipologie di norme perché prescrive in modo rigoroso che un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali. Con la sentenza n. 172 del 2014 la Consulta ha ad esempio dichiarato non fondata la questione di legittimità dell’art. 612 bis c.p. (atti persecutori: c.d. stalking), sollevata in riferimento all’art. 25, comma 2, Cost., sottolineando sia alcuni caratteri normativi che concretizzano la fattispecie, sia ancora una volta il decisivo compito del giudice di ricostruire e circoscrivere l’area di tipicità della condotta penalmente rilevante sulla base dei consueti criteri ermeneutici, in particolare alla luce del principio di offensività.

[2] Secondo tale pronuncia non è fondata, in riferimento agli artt. 13, 25 e 27 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 nella parte in cui prevede la illiceità penale della condotta di coltivazione di piante da cui si estraggono sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all'uso personale, indipendentemente dalla percentuale di principio attivo contenuta nel prodotto della coltivazione stessa, sollevata sotto il profilo della violazione del principio della necessaria offensività della fattispecie penale nell'ipotesi in cui la coltivazione dia luogo a quantità (o qualità) di inflorescenze dalle quali non sia ricavabile il principio attivo in misura sufficiente a produrre l'effetto (stupefacente) potenzialmente lesivo nel caso di successiva assunzione. Infatti l'astratta fattispecie del delitto di coltivazione di sostanze stupefacenti implica una legittima valutazione di pericolosità presunta, in quanto inerente a condotta oggettivamente idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima, e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga, nonché di accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili. Si tratta quindi di reato di pericolo, connotato dalla necessaria offensività, non essendo irragionevole la valutazione prognostica di attentato al bene giuridico protetto. La configurazione di reati di pericolo presunto non è poi incompatibile con il principio di offensività; nè nella specie è irragionevole od arbitraria la valutazione, operata dal legislatore nella sua discrezionalità, della pericolosità connessa alla condotta di coltivazione. Il giudice ordinario è comunque tenuto a verifica in concreto la reale offensività della singola condotta accertata.

[3] Cass., sez. 5, n. 3562 del  2014, Lillia, secondo cui, ai fini dell'integrazione del delitto di violenza privata (art. 610 c.p.) è necessario che la violenza o la minaccia costitutive della fattispecie incriminatrice comportino la perdita o, comunque, la significativa riduzione della capacità di autodeterminazione del soggetto passivo, essendo, invece, penalmente irrilevanti, in virtù del principio di offensività, i comportamenti costituenti violazioni di regole deontologiche, etiche o sociali inidonei a limitarne la libertà di movimento o ad influenzarne significativamente il processo di formazione della volontà; Cass.. sez. 5, n. 48698 del 2014, Demofonti, secondo cui in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato; Cass.,  sez. 3, n. 42479 del 2013, Pieri, secondo cui il divieto di cui all'art. 96, lett. g), R.D. n. 523 del 1904 (T.U. delle leggi sulle opere idrauliche), relativo a "qualunque opera o fatto che possa alterare lo stato, la forma, le dimensioni, la resistenza e la convenienza all'uso, a cui sono destinati gli argini e loro accessori e manufatti pertinenti", deve essere inteso, come ogni precetto penale, nell'ottica della cosiddetta "concezione realistica" del reato, la quale espunge dalla fattispecie punibile - ancorché astrattamente rispondente alla figura edittale - la condotta che manchi di qualsiasi idoneità a recare pregiudizio o pericolo di pregiudizio all'interesse protetto. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso il requisito dell'offensività in relazione a opere edili consistite nella mera sostituzione degli elementi di un manufatto preesistente, realizzata in modo da non poter autonomamente incidere sulla sicurezza degli argini di un fiume); Cass., sez. 5, n. 49787 del 2013, Bellemans, secondo cui, in tema di reati fallimentari, la previsione di cui all'art. 2634 cod. civ. - che esclude, relativamente alla fattispecie incriminatrice dell'infedeltà patrimoniale degli amministratori, la rilevanza penale dell'atto depauperatorio in presenza dei c.d. vantaggi compensativi dei quali la società apparentemente danneggiata abbia fruito o sia in grado di fruire in ragione della sua appartenenza a un più ampio gruppo di società - conferisce valenza normativa a principi - già desumibili dal sistema, in punto di necessaria considerazione della reale offensività - applicabili anche alle condotte sanzionate dalle norme fallimentari e, segnatamente, a fatti di disposizione patrimoniale contestati come distrattivo dissipativi; Cass., sez. 3, n. 7820 del 2006, Boscolo, secondo cui, in materia di disciplina della pesca, per il principio di necessaria offensività non possono essere puniti comportamenti che non ledono o pongono in pericolo il bene giuridico tutelato, come avviene con la cattura di esigue quantità di novellame rispetto all'obiettivo del ripopolamento marino; Cass., sez. 4, n. 16894 del 2004, Tassone, secondo cui in tema di furto, alla luce del principio di offensività, non possono ritenersi configurare l'ipotesi delittuosa comportamenti solo minimamente incidenti sulla cosa - asporto di quantità irrilevanti di sabbia per attività ricreative - che non ledono il bene giuridico e non concretizzano l'illecito penalmente rilevante).

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[4] Per dei commenti critici a queste e ad altre pronunce in tema di coltivazione di piante stupefacenti cfr. E. Mazzanti, Punti fermi e questioni in sospeso nella recente evoluzione del diritto penale in materia di stupefacenti, in Dir. pen. proc., 2016, 528; C. BRAY, Coltivazione di marijuana e (in)offensività della condotta nella recente giurisprudenza di legittimità: necessità di fare chiarezza, in www.penalecontemporaneo.it del 23 maggio 2016; G. Toscano, L’irrequieta vicenda della disciplina in materia di stupefacenti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 280; A. Leopizzi, Stupefacenti: questioni attuali (e urgenti) in tema di fatto di lieve entità, in Giust. pen., 2014, 129; C. GUERRA, La coltivazione «domestica» di sostanze stupefacenti tra tipicità ed offesa: la portata applicativa (nota a Trib. Lucera-Rodi Garganico, 2 febbraio 2012), in Giur. merito, 2013, 1142; G. PAVONE, La coltivazione della cannabis indica alla luce delle ultime pronunce della corte di cassazione, in Riv. guardia di finanza, 2012, 246; S. Lo FORTE, Il principio di offensività in materia di stupefacenti: profili e limiti di punibilità nell’ipotesi di coltivazione domestica (nota a Cass., sez. IV, 17 febbraio 2011, Marino), in Riv. neldiritto, 2012, 438; D. GIANNELLI, La coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti ad «uso domestico» alla luce del principio di offensività, in Riv. pen., 2011, 125; G. PASQUALE, La coltivazione di stupefacenti alla stregua del principio dell’offensività specifica (nota a Cass., sez. IV, 28 giugno 2011, Marino), in <www.diritto.it>.

[5] Cfr. A. Fanelli, nota a Cass., sez. VI, n. 2618 del 2015, dep. 2016, Marongiu, in Foro it., 2016, II, 325, secondo cui ritenendo sussistente il reato solo ove le piante già contengano un apprezzabile quantitativo di principio attivo), si farebbe dipendere la punibilità di questa condotta dal momento, del tutto casuale, in cui viene effettuata la perquisizione da parte delle forze dell'ordine: quelle stesse piantine che al momento del controllo contenevano un quantitativo minimo di principio attivo, dopo qualche mese ne avrebbero posseduto un quantitativo assai maggiore, con idoneità a produrre numerose dosi di stupefacente: non si tratta di una conseguenza futura ed eventuale, ma ragionevolmente certa ove sia accertata la conformità delle piante al tipo botanico previsto dalla legge e la loro idoneità, anche in base alle concrete modalità di coltivazione, a raggiungere la maturazione. In altre parole, ciò che conta è che le piante siano capaci di produrre il principio attivo (cosa che non ricorre sempre, come per es. per le piante c.d. «maschio») e che le modalità di coltivazione siano idonee a far giungere le piante a maturazione. Una volta accertati tali elementi, il ciclo biologico della coltivazione della sostanza vietata è attivato: il fatto che, a voler così ritenere, si giungerebbe ad anticipare eccessivamente la soglia di punibilità (come paventato dalla sentenza in esame) costituisce secondo l’Autore citato un’evenienza già espressamente presa in considerazione dalle sezioni unite che, nella citata sentenza del 2008, Di Salvia, hanno affermato che «la condotta di coltivazione (punibile fino dal momento di messa a dimora dei semi) si caratterizza, rispetto agli altri delitti in materia di stupefacenti, quale fattispecie contraddistinta da una notevole “anticipazione” della tutela penale e dalla valutazione di un “pericolo del pericolo, cioè del pericolo, derivante dal possibile esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti».

[6] La giurisprudenza di legittimità  individua tali beni protetti nella salute (dei singoli individui e della collettività), nella sicurezza e nell’ordine pubblici: cfr. per tutte, Cass., sez. U, n. 9973 del 1998, Kremi.

[7] Per un commento ad alcune delle sentenze della Cassazione sull’art. 131-bis c.p. cfr; S. Farina, Analisi dell’istituto della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) e recenti approdi giurisprudenziali: la suprema Corte su reati urbanistici, reati con soglia di punibilità e rifiuto di sottoposizione all’alcooltest, in Dir. giur., 2016, 77.

[8] Cons. Stato, sez. 3, n. 4460 del 2014, in Foro amm., 2014, 2229; cfr. anche

Cassazione penale, sez. IV, 24/06/2008,  n. 37077, secondo cui il paziente può anche eventualmente rifiutare la terapia e decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale; in senso analogo Cassazione penale, sez. IV, 17/01/2014,  n. 17801.

[9] Cass., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828; Corte cost. 11 luglio 2003.

[10] Corte cost. n. 172 del 2014.

[11] Cfr., Cass., n. 16133 del 2014, cit.

[12] Cfr. Corte cost. 26 luglio 1979 n. 87.

[13] Cfr. Cass. 15 luglio 2014 n. 16133, cit.

[14] Cfr. Cass. n. 8709 del 2016, secondo cui il diritto all'immagine professionale del lavoratore rientra tra quelli fondamentali tutelati dall'art. 2 Cost. la cui risarcibilità va riconosciuta anche in presenza di lesioni di breve durata: nella specie la Cassazione ha confermato la decisione di merito che aveva riconosciuto il risarcimento del danno all'immagine professionale ad un lavoratore, privato della funzione di coordinamento, sebbene le mansioni dequalificanti fossero state esercitate per poco tempo, date anche le numerose assenze per malattia; apparentemente contraddittoria è Cass. n. 16133 del 2014, secondo cui il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 (cosiddetto codice della privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall'art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della “gravità della lesione” e della “serietà del danno” (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall'interessato), in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui il principio di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 del codice della privacy ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva. In applicazione di tale principio la Cassazione ha cassato la decisione di merito che, sulla base del mero disagio, aveva ritenuto risarcibile il danno alla privacy, caratterizzato dalla possibilità, per gli utenti del web, di rinvenire agevolmente su internet - attraverso l'uso di un comune motore di ricerca - generalità, codice fiscale, attività di studio, posizione lavorativa e retributiva della parte attrice. Si tratta di due sentenze che giungono a decisioni opposte (la prima riconosce la risarcibilità del danno, la seconda no) per due ipotesi di danni non patrimoniali di lieve entità: è evidente che il principio di certezza soffre inevitabilmente dell’ampia discrezionalità di cui gode il giudice nel riconoscere o meno la serietà del danno.

[15] A proposito del concetto di solidarietà, rileva peraltro la Consulta (Corte cost. 28 febbraio 1992 n. 75) che con l’art. 2 Cost. acquista rilevanza giuridica l’attività collettiva altruistica e disinteressata, con scopi di pura solidarietà…. la persona è chiamata ad agire non per calcolo utilitaristico o per imposizione di un’autorità, ma per libera e spontanea espressione della profonda socialità che caratterizza la persona stessa. Quindi né nella definizione della Corte costituzionale (né tanto meno nei lavori dell’assemblea costituente) si rinviene traccia di un principio di solidarietà da intendersi come dovere di tollerare l’altrui attività dolosamente illecita quando essa provochi soltanto danni di “lieve entità”. Sul concetto di solidarietà nel disegno originario del Costituente, si rinvia a E. Rossi, Commento all’art. 2 Cost., in Comm. Cost. a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, UTET, 2006, 38.

[16] Cfr. Cass. civ. S.U., n. 15350 del 2015.

[17] Cfr. Corte cost., 27 ottobre 1994 n. 372.

 

 
 
 
 
 
 

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