Sommario: 1. Premessa. - 2. La sentenza Grande Stevens della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. – 3. Le questioni sollevate dai giudici di merito innanzi alle Corti. – 4. La giurisprudenza della Corte di cassazione in materia. - 4.1 Le Sezioni semplici. – 4.2 Le Sezioni Unite.
1. Premessa.
Il rapporto tra giudice nazionale e giudice comunitario/convenzionale ha acquisito negli ultimi anni un rilievo sempre maggiore, destinato peraltro ad accrescere in ragione della via via più forte incidenza del diritto sovranazionale sulla produzione e sull’interpretazione della legislazione interna; al riguardo, non risulta casuale che questo corso si apra con due relazioni proprio su questo tema, così come non è casuale che presso la Corte di cassazione vengano organizzati sempre più numerosi incontri di studio ed approfondimento riguardanti - per l’appunto - il “dialogo” tra le Corti, che costituisce ormai non un’ipotesi di studio, da affrontare con approccio meramente accademico, ma una tematica oltremodo concreta, che si arricchisce costantemente di nuovi indirizzi e nuove questioni, con incidenza immediata sulle soluzioni che il giudice interno è chiamato a fornire nella decisione del caso concreto.
In questo contesto, i reati tributari rappresentano un ambito nel quale – soprattutto negli ultimissimi anni – è stata ripetutamente vagliata la compatibilità dell’ordinamento interno con quello comunitario e convenzionale[1], attraverso “sollecitazioni” che il giudice nazionale ha fornito alla Corte costituzionale (e – si vedrà - non solo), così come attraverso un dibattito dottrinario ancor più diffuso, attento e partecipe[2]; ciò, peraltro, a fronte di una giurisprudenza sovranazionale, per un verso, particolarmente abbondante e di continuo arricchita da nuove pronunce e, per altro verso, connotata da un tipico e rigoroso approccio pragmatico, che tende a scalfire – o, quantomeno, contrastare - talune costruzioni dogmatiche “astratte” di frequente ideazione ed applicazione nella giurisprudenza e nella dottrina interne al nostro sistema.
Nell’ambito dei reati tributari, poi, una delle questioni sulle quali risulta più viva l’attenzione è quella del ne bis in idem; questione originata dal cd. doppio binario (amministrativo e penale) che assiste l’imposizione tributaria nel nostro ordinamento, e due anni fa affrontata – come noto – dalla ormai celeberrima sentenza Grande Stevens c. Italia della Corte Edu del 4/3/2014; pronuncia che ha suscitato un acceso dibattito dottrinario e che ha spinto il giudice nazionale – e, a mio avviso, sempre più lo indurrà anche nei mesi a venire – ad interrogarsi sulla compatibilità, costituzionale o comunitaria/convenzionale, del doppio giudizio e della doppia sanzione che il nostro ordinamento ad oggi consentono.
Ebbene, ritengo che il tema possa esser affrontato – con un qualche profilo di utilità per chi mi legge – proprio attraverso una rapida rassegna degli ultimi e più rilevanti arresti giurisprudenziali, di merito e di legittimità, che hanno “messo a nudo” il difficile rapporto tra disciplina tributaria e principio del ne bis in idem; rapporto che, peraltro, aveva vissuto “sonni tranquilli” per molti anni, senza alcun brusco “risveglio”, quasi relegando la questione a momento marginale del dibattito, perché ormai cristallizzato su un giudizio di piena compatibilità della disciplina vigente.
2. La sentenza Grande Stevens della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Quale era la questione sottoposta alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo? E’ certamente ben nota, ma forse può esser opportuno ricordarla con poche battute.
I ricorrenti – l’Avv. Grande Stevens ed altri soggetti, comprese talune società – si erano visti irrogare dalla Consob sanzioni amministrative pecuniarie (di importo variabile) con riguardo alla violazione dell’articolo 187 ter punto 1 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, in materia di “manipolazione del mercato”[3]; sanzioni poi solo parzialmente ridotte in sede di appello e, in via definitiva, confermate dalla Corte di Cassazione. Successivamente, era stato iscritto un procedimento penale a carico dei medesimi soggetti e per le stesse violazioni (con riferimento all’art. 185, punto 1, d. lgs. n. 58 del 1998[4]), nel quale la citata Consob si era peraltro costituita parte civile; giudizio, anche questo, definito in Corte di appello e, di seguito, innanzi alla Corte di cassazione.
I ricorrenti avevano dunque contestato la violazione dell’art. 4, prot. 7 della Convenzione Edu - a mente del quale “Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato” - assumendo di aver subito una sanzione penale all’esito del procedimento dinanzi alla CONSOB, e di esser poi stati oggetto di un’azione penale per gli stessi fatti.
Orbene, quale la risposta fornita dalla Corte Edu?
La sentenza – richiamando sul punto la causa Sergey Zolotukhin[5] – ha affermato che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 citato deve essere inteso nel senso che esso vieta di perseguire o giudicare una persona per un secondo «illecito nella misura in cui alla base di quest’ultimo vi sono fatti che sono sostanzialmente gli stessi», e che, pertanto, «la Corte deve esaminare la causa dal punto di vista dei fatti descritti nelle suddette esposizioni, che costituiscono un insieme di circostanze fattuali concrete a carico dello stesso contravventore e indissolubilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio».
Un accertamento del tutto empirico, dunque, volto non a verificare se vi sia coincidenza tra gli elementi costitutivi degli illeciti, intesi come fattispecie positivamente definite (ma, allo stato, ancora “astratte”), ma se vi sia sovrapponibilità tra i fatti oggetto della prima e seconda contestazione, perché riconducibili alla medesima condotta.
Verifica all’esito della quale la Corte ha quindi concluso che «si tratta chiaramente di una unica e stessa condotta da parte delle stesse persone alla stessa data»[6] e che, pertanto, vi è stata violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7.
Con questa pronuncia, quindi, la Corte Edu ha ribadito la lettura ormai costantemente offerta della norma da ultimo citata, che si muove lungo due capisaldi:
a) da un lato, quello per cui il termine "reato" deve essere inteso con riguardo alla condotta - nei sui concreti elementi spaziali e temporali - che costituisce il presupposto della sanzione, e non già alla sua qualificazione normativa, che non assume carattere vincolante;
b) dall’altro, quello per cui l’espressione "assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale" dello Stato deve essere interpretata con riferimento non solo alle sentenze e agli altri provvedimenti definitivi resi nell'ambito di un procedimento qualificabile come penale secondo l'ordinamento nazionale, ma anche con riguardo a tutti quei provvedimenti che, statuendo sulla responsabilità dell'individuo ai fini della eventuale inflizione di una sanzione di carattere punitivo nei suoi confronti per il medesimo fatto storico, abbiano natura sostanzialmente penale, secondo l’autonomo apprezzamento della Corte di Strasburgo ed in base ai noti criteri elaborati a partire dalla storica sentenza Engel in poi[7].
Ossia, in forza del criterio formale della "qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale", ovvero di quelli sostanziali – tra loro alternativi - della "natura dell'illecito" e della "natura nonché nel grado di severità della sanzione in cui l’interessato rischia di incorrere”; ciò che permette di comprendere se si verta o meno in matière penale.
Un ambito di applicazione del ne bis in idem, dunque, molto più vasto e – mi si consenta - “concreto” di quello ammesso dall’art. 649 cod. proc. pen., a mente del quale, come a tutti voi noto, “L'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze”.
Orbene, proprio in forza di questi principi, e di questo precedente così rilevante, poi seguito da molti altri[8], il giudice interno italiano si è allora posto il dubbio se l’attuale disciplina tributaria – con il citato sistema del doppio binario – violi il canone del ne bis in idem come appena richiamato; dubbio che – come già accennato - negli ultimi mesi si è evidenziato come sempre più pressante[9] e che merita di esser brevemente richiamato nelle sue principali espressioni.
3. Le questioni sollevate dai giudici di merito innanzi alle Corti.
Tra i provvedimenti più interessanti al riguardo, occorre innanzitutto sottolineare quello del Tribunale di Bologna (ord. 21 aprile 2015), che ha sollevato questione di costituzionalità dell’art. 649 cod. proc. pen. per contrasto con l’art. 117, comma1 Cost., in riferimento all’art. 4 Prot. 7 CEDU citato.
Il Tribunale, in sintesi, ha chiesto lo scioglimento dell'antinomia tra il diritto nazionale - che non prevede alcun divieto di celebrare un processo penale per fatti già sanzionati in via definitiva nell'ambito di un procedimento formalmente qualificato come amministrativo (ancorché di natura sostanzialmente punitiva, secondo i summenzionati criteri elaborati dalla Corte EDU) - e l'art. 4 Prot. 7 CEDU, che – come sopra richiamato - sancisce invece a livello europeo il diritto al ne bis in idem in una estensione assai più vasta di quella riconosciuta dalla giurisprudenza nazionale in sede di interpretazione dell'art. 649 cod. proc. pen..[10]
Il caso in esame riguardava l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto da parte dell’imprenditore, dal quale erano originati due procedimenti distinti: l’uno in ambito tributario, per violazione dell’art. 13 d. lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, l’altro di carattere penale, ex art. 10-ter d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74. L’imputato - rinviato a giudizio con riguardo a quest’ultima violazione – aveva allora eccepito il divieto di proseguire l’azione, producendo prova – orale e documentale – dell’avvenuto versamento da parte sua della imposta evasa, degli interessi e delle soprattasse nella misura del 30% del dovuto (a fronte di un debito con l’erario di € 378.180,71, aveva infatti pagato, a chiusura di ogni pendenza con il fisco, € 450.797, 20).
Quali gli argomenti spesi dal Tribunale remittente?
Il Giudice, in prima battuta, ha preso atto della impossibilità di interpretare in maniera convenzionalmente orientata l’art. 649 cod. proc. pen., in quanto la disposizione riguarderebbe soltanto le sentenze del giudice penale; di seguito, ha richiamato la giurisprudenza della Corte costituzionale sul valore della CEDU nel sistema italiano quale fonte interposta, idonea a dar vita a questione di legittimità nell’ipotesi di contrasto insanabile tra la legge ordinaria e la Convenzione come interpretata dalla Corte di Strasburgo. Infine, applicando al caso l’indirizzo intrapreso dal giudice sovranazionale in materia di ne bis in idem, a partire dalla citata sentenza Grande Stevens, ha riconosciuto, da un lato, natura sostanzialmente penale alle sanzioni tributarie previste dall’art. 13 d. lgs. 471/1997, e, dall’altro, l’identità del fatto colpito dalla previsione tributaria e da quella incriminatrice ex art. 10-ter d. lgs. n. 74/2000. Dunque, «considerato come non sia possibile nelle previsioni del d. lgs. n. 74/2000 individuare soluzioni ermeneutiche tali da consentire di precludere la doppia punizione – in parte a causa della formulazione testuale delle singole disposizioni, in parte in ragione del diritto vivente formatosi nella materia – decide di rimettere al giudice delle leggi, per violazione dell’art. 117 comma 1 Cost., la questione sull’art. 649 c.p.p., nella parte in cui non preclude un secondo giudizio ex art. 10-ter d. lgs. n. 74/2000 ove l’imputato sia già stato condannato in sede tributaria in ragione dell’art. 13 d. lgs. 471/1997[11]».
In termini assai simili, ma con una sostanziale differenza “operativa”, si è poi orientato il Tribunale di Bergamo (ord. 16 settembre 2015), ancora con riguardo all’art. 10-ter, d. lgs. n. 74/2000; il caso risulta perfettamente sovrapponibile al precedente, con la presenza di un imputato che aveva già definito la pendenza tributaria in ordine alla medesima omissione, avendo versato il dovutum e l’aggravio del 30%. Caso che, peraltro, aveva ad oggetto la medesima persona fisica colpita dalla doppia sanzione – quale imputato nel procedimento penale ed imprenditore individuale innanzi all’amministrazione finanziaria – a differenza del caso di cui al Tribunale di Bologna, sopra accennato, nel quale il soggetto rispondeva in sede penale quale legale rappresentante di una persona giuridica (fattispecie, quest'ultima, che pone l'ulteriore questione – risolta negativamente dalla giurisprudenza di legittimità - se possa ravvisarsi il ne bis in idem nonostante la diversità dei soggetti colpiti, rispettivamente, dalla sanzione tributaria e dal procedimento penale[12]).
La “differenza operativa” cui si è accennato, di notevole rilievo pratico, risiede nel fatto che – contrariamente al Giudice bolognese – il Tribunale lombardo ha investito della questione non la Corte costituzionale, ma direttamente la Corte di Giustizia di Lussemburgo, attraverso lo strumento della questione pregiudiziale di interpretazione. Quel che è stato possibile alla luce della “rilevanza comunitaria” dell’i.v.a. (una parte del cui gettito entra nelle casse dell’Unione) e, soprattutto, della sua evasione, come più volte sostenuto dalla Corte di giustizia con le sentenze Fransson e, per l’appunto, Taricco; d’altronde, è noto che l’operatività della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione è subordinata proprio alla condizione che la materia in esame ricada nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione ai sensi dell'art. 51 CDFUE.
Una questione – quella sollevata dal Tribunale di Bergamo - che, all’evidenza, non ha dunque ad oggetto né l’art. 649 cod. proc. pen. (riferimento “naturale” in tema di ne bis in idem sostanziale) né il più volte citato art. 4 Prot. 7 CEDU (che – come noto - la Corte di giustizia non è competente a interpretare, non trattandosi di una norma di diritto dell'Unione), ma l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, “proclamata solennemente” – come recita l’intestazione – dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione; norma – si badi bene - direttamente applicabile nell'ordinamento nazionale, e destinata ipso iure a prevalere sul diritto interno contrastante in forza del principio del primato del diritto dell'Unione.
Ebbene, l’art. 50 CFDUE (Diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato) stabilisce che “Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”; di fatto, lo stesso testo di cui al citato art. 4 Prot. 7 CEDU.
“Vicinanza” testuale che, peraltro, diventa anche “aderenza interpretativa” in ragione del successivo art. 52, comma 3 della stessa CFDUE, a mente del quale “laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione (per come interpretata dalla Corte di Strasburgo, n.d.e.). La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa”.
Richiamo all’art. 52 che, dunque, deve essere inteso come richiamo anche alle norme dei suoi protocolli (tra cui dunque l’art. 4 Prot. 7), e che si estende anche all'interpretazione fornita a queste norme dalla Corte EDU (che è il giudice ultimo della Convenzione e dei suoi protocolli, ai sensi dell'art. 32 CEDU); ed ecco, dunque, che la copiosissima giurisprudenza di questa Corte in tema di interpretazione di diritti – compreso, per certo, quello al ne bis in idem – “entra in gioco” anche nel diverso, ma in tal caso non troppo distante, ambito del diritto dell’Unione[13].
Di certo, come affermato da autorevole dottrina[14], «la giurisprudenza di Strasburgo in materia di ne bis in idem, cresciuta esponenzialmente negli ultimissimi anni, rappresenta un’autentica spina nel fianco per la Corte di giustizia, preoccupata di imporre agli Stati membri obblighi di tutela non solo (genericamente) efficace, proporzionata e dissuasiva degli interessi finanziari dell'Unione, ma anche obblighi di tutela specificamente penale, quanto meno nei casi più gravi di frodi o altri illeciti lesivi del bilancio dell'Unione: come quelli, per l'appunto, che derivano dall'evasione dell'IVA. La Grande Sezione della Corte di giustizia lo ha ribadito proprio nella sentenza Taricco sopra citata[15]: dall'art. 325 TFUE, letto alla luce del principio di leale cooperazione tra Unione e Stati membri di cui all'art. 4 § 3 TFUE, deriva un preciso obbligo di prevedere (e concretamente applicare!) anche sanzioni penali contro gli autori di reati gravi che si traducano in pregiudizio agli interessi finanziari dell'Unione»[16].
Ciò premesso, e proprio in ragione di questo “legame” in materia tra le Corti sovranazionali, il Tribunale di Bergamo ha ripercorso la giurisprudenza della Corte EDU sul punto, costante nel riconoscere natura punitiva a tutti quei provvedimenti, pur irrogati dal potere esecutivo, con i quali si infligge al contribuente una sanzione ulteriore rispetto al recupero dei tributi evasi e ai relativi interessi, anche laddove gli importi della sovrattassa siano nel caso concreto modesti; ne deriva – a parere del remittente - che non risulta dunque revocabile in dubbio la natura di misura “sostanzialmente penale” di una sanzione, pur inflitta dall'amministrazione tributaria in esito a un procedimento formalmente amministrativo, pari al 30% dell'importo IVA evaso.
Ancora, il Tribunale ha evidenziato (e tra poco si evidenzierà il motivo di tale precisazione) il diverso momento di perfezionamento dell'illecito tra le due previsioni normative (scadenza del termine mensile o trimestrale scelto dal contribuente per il versamento dell'IVA, quanto all’art. 13; termine annuale per il versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta successiva, quanto all’art. 10-ter). Diverso termine che, all’evidenza, comporta che non coincidano gli importi dovuti alle singole scadenze mensili o trimestrali e quello dovuto globalmente l'anno successivo per evitare la realizzazione del delitto di cui all'art. 10-ter. Orbene, ciò non è stato ritenuto decisivo ai fini dell'operatività della garanzia del ne bis in idem convenzionale, nel senso di escluderlo: la condotta costitutiva dell'illecito penale – si è sostenuto - ha infatti ad oggetto il mancato pagamento - entro un termine, per così dire, 'di grazia' concepito dal legislatore per dare un'ultima opportunità al contribuente - di un importo che risulta, puramente e semplicemente, dalla somma degli importi dovuti alle singole scadenze relative all'anno fiscale precedente[17].
Dal che il quesito posto alla Corte di Giustizia, ossia «se la previsione dell'art. 50 CDFUE, interpretato alla luce dell'art. 4 Prot. n. 7 CEDU e della relativa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, osti alla possibilità di celebrare un procedimento penale avente ad oggetto un fatto (omesso versamento IVA) per cui il soggetto imputato abbia riportato sanzione amministrativa irrevocabile».
Quale risposta è stata fornita dalle Corti in tal modo sollecitate?
Quanto alla Corte costituzionale, con riguardo alla questione sollevata dal Tribunale di Bologna il 21/4/2015, è stata disposta la restituzione degli atti alla luce delle novità introdotte dal d lgs. 24 settembre 2015, n. 158; in particolare - in ordine agli artt. 10-ter e 13 del d.lgs. n. 74 del 2000 – novità consistenti nell’introduzione di una causa di non punibilità per il caso del pagamento dell’imposta dovuta e delle sanzioni amministrative, sicché «spetta al Giudice rimettente valutarne le complesse ricadute nel giudizio a quo, specie in termini di rilevanza» (Ordinanza n. 112 del 20/5/2016).
Quanto alla Corte di Giustizia, invece, ancora nulla è dato conoscere.
4. La giurisprudenza della Corte di cassazione in materia.
Appare utile, a questo punto dell’esposizione, esaminare brevemente lo stato della giurisprudenza di legittimità, per valutare se e come la Corte di cassazione abbia affrontato il tema del ne bis in idem in materia tributaria.
Quattro, a mio avviso, risultano le sentenze di maggior rilievo, tutte recentissime, che danno conto dell’orientamento fino ad oggi seguito e delle risposte che sono state fornite.
4.1 Le Sezioni semplici.
La prima[18] riguarda un’imputazione ex art. 10-bis, d. lgs. n. 74 del 2000, a fronte della quale il ricorrente aveva eccepito la violazione del ne bis in idem poiché già amministrativamente sanzionato ai sensi del d. lgs. n. 471 del 1997, art. 13, (con sanzione pari al 30% della somma), negli stessi termini già sopra descritti.
Orbene, la Terza sezione della Corte ha innanzitutto affermato un principio di carattere processuale, di rilievo perché di frequente applicazione nel caso che occupa. Mi limito ad accennarlo: il Collegio ha aderito all'orientamento giurisprudenziale – definito “più avveduto” - secondo cui non è deducibile dinanzi alla Corte di cassazione la violazione del divieto del "ne bis in idem", in quanto è precluso, in sede di legittimità, l'accertamento del fatto, necessario per verificare la preclusione derivante dalla coesistenza di procedimenti iniziati per lo stesso (per l’appunto) fatto e nei confronti della stessa persona, e non potendo la parte produrre documenti concernenti elementi “fattuali”, la cui valutazione è rimessa esclusivamente al giudice di merito[19]. Orientamento non isolato[20], ma sul quale esiste in sede di legittimità anche un difforme indirizzo[21], del quale la sentenza dà conto.
Di seguito - e comunque verificata, anche a prescindere da quanto premesso, l’inapplicabilità dell’istituto del ne bis in idem in ragione della mancanza di prova circa la definitività dell’irrogazione della sanzione amministrativa – la Corte ha però “aperto un varco” sulla questione, affermando che si deve «riconoscere che, in subiecta materia, il tema sia indubbiamente rilevante, emergendo invero non irrilevanti dubbi di compatibilità con la normativa Eurounitaria (v. da ultimo, anche C. eur. dir. uomo, Quarta Sezione, sentenza 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia), che l'illecito amministrativo di cui al citato art. 13 e quello penale possano avere ad oggetto sostanzialmente il medesimo fatto, rendendo ingiustificata la duplicità di sanzioni in caso di ritenute che superino la soglia»[22].
Più in particolare, e come sopra già ricordato, la sentenza ha evidenziato che a partire dal rèvirement giurisprudenziale del 2009, con la pronuncia Zolotukhin c. Russia, la Corte, per valutare se le due sanzioni di natura penale abbiano ad oggetto il medesimo fatto, ha abbandonato ogni riferimento alla fattispecie incriminatrice. «Non è il tipo legale a guidare il giudizio sul principio del ne bis in idem di cui all'art. 4 prot. n. 7 della Convenzione, bensì l'identicità materiale e naturalistica del fatto. Poco importa, dunque, che le fattispecie (penal-amministrativa e penale) si differenzino sul piano della tipicità. Ciò che conta, per ritenere violato il divieto, è che l'effetto si risolva nella doppia punizione del medesimo fatto concreto».
La Corte, però, ha ritenuto di non poter procedere oltre sul tema, ed anzi, ha espresso perplessità – con riferimento alla fattispecie in esame – in ordine all’utilizzo dello strumento della pregiudiziale interpretativa alla Corte di Giustizia. In sintesi, la Terza sezione ha affermato che se è vero che il principio del ne bis in idem trova riconoscimento anche nel diritto dell'Unione Europea, sulla base della espressa previsione dell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea; se è altrettanto vero - come già ricordato - che, ai sensi dell'art. 52 CDFUE, il contenuto del suddetto art. 50 deve essere ricostruito sulla base del corrispondente principio convenzionale, e quindi anche in forza della giurisprudenza della Corte Europea sull'art. 4 Prot. 7 CEDU; se è ciò vero, «può tuttavia convenirsi con chi ragionevolmente dubita che la specifica fattispecie oggetto del giudizio rientri nell'ambito applicativo del diritto dell'Unione e, conseguentemente, che la Corte di Giustizia sia competente a pronunciarsi sul caso (rammentandosi, infatti, che ai sensi dell'art. 51 CDFUE, la Carta può trovare applicazione solo quando gli Stati membri "agiscono nell'ambito di attuazione del diritto dell'Unione": cfr. CGUE, 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni)». Ad eccezione, infatti, della particolare normativa in tema di IVA, che rientra nel campo attuativo del diritto UE - come precisato dalla citata sentenza Fransson della Corte di Lussemburgo - la materia erariale, ha infatti una dimensione esclusivamente nazionale, che la sottrae all'applicazione del sistema "Eurounitario" di tutela dei diritti fondamentali.
Sì da affermare, conclusivamente, il principio di diritto per cui «non è esperibile il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione europea per stabilire se sia conforme al diritto "eurounitario" la disposizione di cui all'art. 10-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000 - nella parte in cui consente di procedere alla valutazione della responsabilità penale di un soggetto che, per lo stesso fatto, sia stato destinatario della sanzione amministrativa irrevocabile di cui all'art. 13 del d. lgs. n. 471 del 1997, deducendosene la natura "sostanzialmente penale" - in quanto la materia erariale, in cui rientra l'illecito amministrativo in oggetto, non ricade, fatta eccezione per la particolare normativa in materia di Iva, nell'ambito applicativo del diritto dell'Unione».
Questa conclusione, peraltro, è poi risulta realmente “profetica” di quanto in effetti è accaduto – di lì a qualche settimana – con l’ordinanza del 15 aprile 2015 della Corte di giustizia, che si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale disposto dal Tribunale di Torino nel 2014[23], in un caso identico a quello sul quale si è pronunciata la Corte di cassazione; provvedimento con il quale il Giudice comunitario ha dichiarato di essere manifestamente incompetente a rispondere alla questione. Quale il motivo? Per l’appunto, la Corte di Lussemburgo ha affermato che «si deve constatare che il procedimento principale concerne l’applicazione di disposizioni di diritto italiano in discussione nel procedimento principale in un contesto che non presenta alcun nesso con il diritto dell’Unione». La Corte ha rilevato che nell’ordinanza di rimessione non vi era alcun cenno all’art. 51, par. 1, della Carta, sopra richiamato, e che la normativa nazionale posta alla sua attenzione «non rientra nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, (sicché, n.d.r.) la Corte non è competente in merito». Con la conseguenza che «in tali circostanze la Corte non è nemmeno competente ad interpretare l’articolo 4 del protocollo n. 7».
Quanto precede, poi, è stato ripreso da un’altra sentenza – sempre emessa dalla Terza sezione penale[24] – questa volta proprio in materia di Iva; nell’occasione, infatti, è stato nuovamente affermato il principio della non deducibilità – innanzi alla Corte di cassazione – della questione del bis in idem in sé, per le stesse ragioni appena sopra menzionate.
Con questa pronuncia, però, la Corte ha sviluppato anche un ulteriore ragionamento, di particolare interesse, peraltro oggi solo in parte ripetibile in ragione della riforma di cui al d. lgs. 24 settembre 2015, n. 158, successiva alla pronuncia stessa.
In sintesi, quale l’argomento? La Terza sezione ha sostenuto che non deve esser trascurato che dalla sentenza Nykanen c. Finlandia, sopra richiamata, emerge che «si ha violazione del ne bis in idem sostanziale quando i procedimenti (anche se nominalmente non coincidenti) accertino gli stessi fatti, ma siano anche indipendenti tra loro e si sviluppino in successione, ovvero in modo che uno dei due prosegua o inizi quando l'altro è divenuto definitivo».
Il che – ha affermato la Corte - non accade, normalmente, nel nostro ordinamento, dove i due procedimenti sono paralleli e, soprattutto, “interagiscono” tra loro, condizionando l'avvenuto pagamento del debito tributario l'entità della sanzione penale.
In particolare, è stato sottolineato che la normativa tributaria (all’epoca) vigente «prende espressamente in considerazione i rapporti tra pagamento del debito tributario e reato di natura tributaria prevedendo, all'art. 13, la speciale circostanza attenuante per cui le pene previste per i delitti ivi contemplati sono diminuite fino alla metà, e non si applicano le pene accessorie indicate nell'art. 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono stati estinti mediante pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie».
A conferma, quindi, di una notevole interdipendenza, tale da “allontanare” la problematica in questione.
Tale argomento – si diceva – risulta oggi solo in parte ripetibile, e non con riguardo ai delitti di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, atteso che l’art. 13, comma 1 citato è stato modificato dal citato d. lgs. n. 158 del 2015; in forza del quale “i reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso”[25].
Quel che può costituire – in termini meramente “empirici” – la soluzione della questione che qui ci occupa; se l’effetto reale cui la sanzione tende - ovvero recuperare all’erario quanto dovuto, compresi interessi e sanzioni - è stato comunque raggiunto, non vi è più ragione di perseguire il medesimo soggetto; non già, dunque, perché così si verificherebbe una formale violazione del ne bis in idem, ma perché si avrebbe una sostanziale – e non consentita – ripetizione alle casse dello Stato di quanto ab origine dovuto, e già recuperato.
La terza sentenza di interesse è stata pronunciata – ancora dalla Terza sezione penale[26] - con riguardo non al d. lgs. n. 74 del 2000, ma all’art. 2, comma 1-bis, d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 1983, n. 638, che sanziona l’omesso versamento all’I.n.p.s. delle ritenute assistenziali e previdenziali operate sulle retribuzioni dei dipendenti (oggi – giusta d. lgs. 16 gennaio 2016, n. 8 – costituente reato soltanto se il versamento omesso supera i diecimila euro annui); in questo caso, il possibile bis in idem si poneva nel rapporto con l’art. 116, comma 8, lett. a), l. n. 388 del 2000, a mente della quale "I soggetti che non provvedono entro il termine stabilito al pagamento dei contributi o premi dovuti alle gestioni previdenziali ed assistenziali, ovvero vi provvedono in misura inferiore a quella dovuta, sono tenuti: a) nel caso di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi, il cui ammontare è rilevabile dalle denunce e/o registrazioni obbligatorie, al pagamento di una sanzione civile, in ragione d'anno, pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti; la sanzione civile non può essere superiore al 40 per cento dell'importo dei contributi o premi non corrisposti entro la scadenza di legge".
Orbene, la Corte di cassazione – richiamata la giurisprudenza convenzionale già sopra citata – ha innanzitutto inteso verificare, in coerenza con i principi esposti nella sentenza Grande Stevens ed al di là del nomen iuris attribuito alla sanzione prevista dal ricordato art. 116, comma 8, se essa assuma una natura intrinsecamente penale o meno: orbene, la risposta fornita dal Collegio è stata negativa, in quanto – si è affermato – «mentre la sanzione prevista dalla l. n. 683 del 1938 mira a tutelare il diritto del lavoratore in danno del quale il datore di lavoro si è appropriato delle somme a lui riservate (tanto che comunemente il delitto previsto dalla legge sopra ricordata viene accostato alla figura dell'appropriazione indebita), la sanzione contemplata nell'art. 116, citato ha effetti ristoratori verso l'INPS e dunque assume caratteri sostanzialmente, e non solo formalmente, civilistici».
In forza di ciò, dunque, è stata esclusa in radice la possibilità di considerare l'identità del fatto, in quanto - per integrare queste ipotesi – «non basta certo la medesimezza dell'avvenimento storico, ma occorre che siano identici tutti i tratti caratteristici». Ed ancora – con particolare riferimento ai “parametri di Engel” sopra richiamati - la Corte ha sottolineato che «non può certo attribuirsi carattere di particolare afflittività alla sanzione civile, tale da farla assimilare ad una sanzione penale, tenuto conto anche dei limiti massimi insuperabili ai quali parametrare la sanzione irrogabile».
Nessuna matière penale, dunque.
4.2 Le Sezioni Unite.
La quarta ed ultima sentenza di legittimità che merita di essere richiamata è stata pronunciata dalle Sezioni unite[27], con riguardo all’art. 19, d. lgs. n. 74 del 2000, a mente della quale “quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale”; norma che, all’origine, è stata ritenuta da molti - anche in dottrina - un possibile strumento di risoluzione della questione che ci occupa, tradotto in diritto positivo, ma che poi – ancora a giudizio di tanti – ha “tradito” le aspettative[28].
E’ la più risalente delle pronunce e, probabilmente, “risente un po’ del tempo” e dell’”accelerazione” che la materia ha subito nel corso di pochi mesi.
La questione, rimessa alle Sezioni unite ancora dalla Terza sezione, riguardava ancora il rapporto tra l’art. 10-ter, d lgs. n. 74 del 2000 e l’art. 13, d. lgs. n. 471 del 1997, ovvero proprio l’oggetto delle questioni – di costituzionalità e pregiudiziale – sollevate dal Tribunale di Bologna e da quello di Bergamo, e sopra richiamate.
Rimandando alla lettura della sentenza – particolarmente motivata – per l’individuazione dei singoli passaggi argomentativi, giova qui sottolineare soltanto quelli più importanti.
Innanzitutto, le Sezioni unite si sono poste la domanda centrale che regge l’intero interrogativo, ossia se le norme sanzionatorie concorrenti riguardino o meno lo "stesso fatto". Orbene, la risposta fornita è stata negativa, rilevandosi che – nella fattispecie di cui all’art. 13, comma 1 - il presupposto è costituito dal compimento di operazioni imponibili comportanti l’obbligo del versamento periodico dell’Iva, con condotta omissiva che si concretizza nel mancato versamento periodico dell'IVA, e il termine per l'adempimento è fissato al giorno sedici del mese (o trimestre) successivo a quello di maturazione del debito IVA (art. 1, comma 4, d.P.R. 23 marzo 1998, n. 100). Nell'illecito penale di cui all'art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, invece, il presupposto è costituito sia dal compimento delle medesime operazioni imponibili, sia dalla necessaria presentazione della dichiarazione annuale IVA relativa all'anno precedente; la condotta omissiva si concretizza nel mancato versamento, per un ammontare superiore a cinquantamila Euro, dell'IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale; il termine per l'adempimento è individuato in quello previsto per il versamento dell'acconto IVA relativo al periodo di imposta successivo.
Il Supremo Collegio ha quindi affermato che, «come si vede, pur nella comunanza di una parte dei presupposti (compimento di operazioni imponibili comportanti l'obbligo di effettuare il versamento periodico dell'IVA) e della condotta (omissione di uno o più dei versamenti periodici dovuti), gli elementi costitutivi dei due illeciti divergono in alcune componenti essenziali, rappresentate in particolare: dalla presentazione della dichiarazione annuale IVA, richiesta per il solo illecito penale; dalla soglia minima dell'omissione, richiesta per il solo illecito penale; dal termine di riferimento per l'assunzione di rilevanza dell'omissione, fissato, per l'illecito amministrativo, al giorno sedici del mese successivo a quella di maturazione del debito mensile IVA, e coincidente, per l'illecito penale, con quello previsto per il versamento dell'acconto IVA relativo al periodo di imposta successivo».
Alla luce di quanto precede, le Sezioni Unite hanno allora concluso che «le illustrate divergenze inducono a ricostruire il rapporto fra i due illeciti in termini, non di specialità, ma piuttosto di "progressione": la fattispecie penale - secondo l'indirizzo di politica criminale adottato in generale dal d.lgs. 74 del 2000 (su cui v. in particolare Corte cost., sent. n. 49 del 2002) - costituisce in sostanza una violazione molto più grave di quella amministrativa e, pur contenendo necessariamente quest'ultima (senza almeno una violazione del termine periodico non si possono evidentemente determinare i presupposti del reato), la arricchisce di elementi essenziali (dichiarazione annuale, soglia, termine allungato) che non sono complessivamente riconducibili al paradigma della specialità (che, ove operante, comporterebbe ovviamente l'applicazione del solo illecito penale), in quanto recano decisivi segmenti comportamentali (in riferimento alla presentazione della dichiarazione annuale IVA e al protrarsi della condotta omissiva), che si collocano temporalmente in un momento successivo al compimento dell'illecito amministrativo (…). Da quanto sopra discende che la presenza della previsione dell'illecito amministrativo di cui al comma 1 dell'art. 13 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, e la consumazione in concreto di esso, non sono di ostacolo all'applicazione, in riferimento allo stesso periodo d'imposta e nella ricorrenza di tutti gli specifici presupposti, della statuizione relativa all'illecito penale di cui all'art. 10-ter d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74».
Nell’occasione, peraltro, le Sezioni Unite non hanno eluso il profilo della compatibilità convenzionale ed “eurounitaria” di quanto appena richiamato, sostenendo, al riguardo, che nessun contrasto con l’art. 4, Prot. 7 e con l’art. 50 CFDUE può esser ravvisato nella lettura così offerta. In particolare – con argomento invero piuttosto sintetico – la sentenza ha rilevato che «anzitutto nella specie, come si è visto, non si può parlare di identità del fatto; in ogni caso, poi, il principio suddetto si riferisce solo ai procedimenti penali e non può, quindi, riguardare l'ipotesi dell'applicazione congiunta di sanzione penale e sanzione amministrativa tributaria (in tal senso, espressamente, Corte di giustizia U.E., 26/02/2013, Aklagaren c. Fransson)».
Una lettura che ha suscitato molte perplessità in dottrina - ampiamente motivate nel senso della sostanziale irrilevanza così attribuita all’art. 19, d. lgs. n. 74 del 2000 ed al principio di specialità che contiene[29] - ma che, allo stato, costituisce un approdo non superato del Supremo Collegio della nostra Corte di legittimità.
Rispetto al quale, tuttavia, e con riguardo all’intera materia in esame, si sono successivamente manifestati i significativi tentativi di rivisitazione critica, come quelli delle Sezioni semplici e di alcuni Tribunali, nei termini sopra richiamati, senza che però questo si sia ancora tradotto in una risposta; quel che, a mio avviso, non potrà sostenersi ancora a lungo, atteso il sempre maggiore interesse sulla materia da parte degli organismi comunitari e le sempre maggiori istanze di giustizia “sostanziale” che i giudici ricevono ed intendono accogliere.
Enrico Mengoni
Consigliere della Corte di Cassazione
G.M. FLICK, Reati fiscali, principio di legalità e ne bis in idem: variazioni italiane su un tema europeo, in Dir. Pen. cont., parla di «un terreno elettivo di applicazione del regime del cumulo tra sanzioni penali e sanzioni amministrative per il medesimo fatto».
M. DOVA, Ne bis in idem e reati tributari: a che punto siamo?, in Diritto penale contemporaneo, sostiene che «Il settore tributario, accanto a quello degli abusi di mercato, rappresenta quindi una sorta di laboratorio sperimentale dal quale potrebbe emergere una razionalizzazione dell’intero sistema repressivo fondata su un elementare principio di giustizia ed equità», ossia il ne bis in idem.
[3] “Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 20.000 a euro 5.000.000 chiunque, tramite mezzi di informazione, compreso internet o ogni altro mezzo, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari”.
[4] “Chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, e' punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro ventimila a euro cinque milioni”.
[5] Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sent. 10 febbraio 2009. A partire da questa sentenza, la Corte di Strasburgo ha elaborato un'interpretazione uniforme del concetto di "same offence": se il confronto tra norme fosse di tipo logico-formale come avviene per il principio di specialità, in relazione al quale si pone l'accento sulla struttura legale astratta della fattispecie (legal characterisation), ciò rischierebbe di indebolire la garanzia di cui all'art. 4, prot. n. 7 della Convenzione. Per questo motivo, secondo la Corte, il metro di valutazione del principio del ne bis in idem non può essere l'astratta previsione legislativa, bensì il fatto nella sua concreta materialità.
[6] Con la precisazione, peraltro, che «la stessa corte d’appello di Torino, nelle sentenze del 23 gennaio 2008, ha ammesso che gli articoli 187 ter e 185 punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998 avevano ad oggetto la stessa condotta, ossia la diffusione di false informazioni. Di conseguenza, la nuova azione penale riguardava un secondo «illecito», basato su fatti identici a quelli che avevano motivato la prima condanna definitiva».
[7] Cedu, sent. 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi. Negli stessi termini, si vedano anche, tra le altre, Cedu, sent. 20 maggio 2014, Nykämen c. Finalandia e Cedu, sent. 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia. In dottrina, tra i molti, F. VIGANO’, Ne bis in idem e omesso versamento dell'IVA: la parola alla Corte di giustizia, in Diritto penale contemporaneo del 28 settembre 2015.
[8] Tra le numerosissime, tutte costanti, si richiama la causa Lucky Dev c. Svezia, conclusa con sentenza del 27/11/2014; nell’occasione, la Corte europea, risolto il problema preliminare relativo alla natura sostanzialmente penale della sanzione amministrativa comminata alla ricorrente per evasione dell’IVA, ha affrontato la questione relativa alla violazione dell’art. 4 Prot. 7 CEDU e, richiamando la precedente pronuncia della Grande Camera nella causa Sergey Zolotukhin c. Russia, ha affermato che il criterio discretivo da applicare ai fini del vaglio del rispetto del principio del ne bis in idem è la “sostanziale identità dei fatti contestati”, avuto riguardo alla “inestricabilità nel tempo e nello spazio” delle “concrete circostanze” che coinvolgono il medesimo imputato, sottoposto a secondo procedimento penale (paragrafo 58), quando il primo è già concluso con pronuncia irrevocabile (paragrafo 56).
[9] Ciò, peraltro, anche con riguardo alla medesima materia di cui alla “Grande Stevens”, oggetto di due questioni di costituzionalità sollevate dalla Corte di cassazione, sezione Tributaria, con ordinanza del 6/11/2014, e dalla quinta sezione, con ordinanza del 15/1/2015, entrambe dichiarate inammissibili con sentenza n. 102 depositata il 12/5/2016; la Consulta, infatti, ha ravvisato, nell’un caso, una questione formulata in maniera dubitativa e perplessa e, nell’altro caso, un’analoga perplessità in punto di non manifesta infondatezza dell’eccezione.
[10] F. VIGANO’, loc. ult. cit.
[11] Negli stessi termini, e con la medesima conclusione, Trib. Torino, ord. 24 luglio 2015, in relazione al processo cd. “Eternit-bis”. Sviluppa gli stessi argomenti, ma giunge ad una diretta applicazione dell’art. 4, Prot. 7 in esame, provvedendo a prosciogliere ai sensi dell’art. 649 cod. proc. pen., Trib. Asti, sent. 10 aprile 2014; nel caso in esame, l’imputazione aveva ad oggetto l’art. 5, d. lgs. n. 74 del 2000, posto “a raffronto” con il d. lgs. n. 471 del 1997. In termini analoghi, Trib. Terni, sent. 12 giugno 2015, che – a fronte di un’imputazione ex art. 10-ter, d. lgs. n. 74 del 2000 – ha prosciolto l’imputato sul presupposto che «il principio del ne bis in idem costituisce ormai un diritto fondamentale e comune ad ogni cittadino europeo, avendo la forza di dispiegare i suoi effetti nel territorio di tutti gli Stati-membro dell’UE, attesa la natura di fonte primaria sia della Convenzione Europea per i Diritti dell’uomo, che dei suoi Protocolli, che dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali». A parere di chi scrive, però, attraverso l'art. 117 Cost., le norme della CEDU si collocano, nella gerarchia delle fonti, tra la Costituzione e la legge ordinaria, come fonti convenzionali interposte, integratrici del parametro costituzionale: con le celeberrime sentenze “gemelle” nn. 348 e 349 del 2007, la Corte Costituzionale ha precisato che le disposizioni della CEDU, nell'interpretazione che ad esse attribuisce la Corte europea, non sono direttamente applicabili negli Stati contraenti ma integrano uno degli obblighi internazionali cui si riferisce il precetto costituzionale. Ne consegue che il ritenuto contrasto tra la norma nazionale e la norma della CEDU, che non sia risolvibile in via ermeneutica, non può essere risolto dal giudice nazionale disapplicando la norma interna, ma deve essere fatto oggetto di una questione di legittimità costituzionale.
[12] Sez. 3, n. 9224 del 27/5/2015, Saldimpianti Costruzioni Mechanical Assembly s.r.l., non massimata, a mente della quale tale disposizione trova applicazione solo nella ipotesi in cui del medesimo fatto sia chiamato a rispondere lo stesso autore, nel senso, cioè, che occorre anche una identità soggettiva passiva del destinatario della sanzione; in termini analoghi, Sez. 3, 24/10/2014 n. 43809, Gabbana e altri, Rv. 265118, ha affermato che «non sussiste la preclusione all'esercizio dell'azione penale di cui all'art. 649 cod. proc. pen., quale conseguenza della già avvenuta irrogazione, per lo stesso fatto, di una sanzione formalmente amministrativa ma avente carattere sostanzialmente "penale" ai sensi dell'art. 7 CEDU, allorquando non vi sia coincidenza fra la persona chiamata a rispondere in sede penale e quella sanzionata in via amministrativa».
[13] Sintetizzando, secondo F. VIGANO’, Ne bis in idem e contrasto agli abusi di mercato: una sfida per il legislatore e per i giudici italiani, in Diritto penale contemporaneo: il diritto riconosciuto dall’art. 50 CDFUE deve essere letto in conformità alla giurisprudenza di Strasburgo formatasi in materia di art. 4 Prot. 7 CEDU; e dunque come preclusivo di un secondo giudizio, ogniqualvolta il medesimo fatto storico sia già stato sanzionato in via definitiva in esito a un procedimento che, pur formalmente qualificato come amministrativo, abbia nella sostanza natura penale. L’A., peraltro, evidenzia che «l’individuazione nell’art. 50 CDFUE di una nuova, e distinta, base giuridica per l’ipotesi di ne bis in idem che viene qui in considerazione non risponde, d’altra parte, ad una mera logica analitico-classificatoria. A seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, infatti, la Carta è divenuta parte integrante del diritto primario dell’Unione, avendo acquisito – come recita l’art. 6 § 1 TUE – “lo stesso valore giuridico dei trattati”: con conseguente assunzione dei caratteri di primazia sullo stesso diritto nazionale caratteristico della normativa dell’Unione, che ne comporta il possibile effetto diretto nelle controversie pendenti avanti il giudice nazionale, eventualmente previa disapplicazione di eventuali norme interne contrastanti. E l’art. 50 CDFUE – si noti – possiede tutte le caratteristiche per produrre un tale effetto, trattandosi di norma precisa, a contenuto negativo, incondizionata, che non presuppone necessariamente atti di implementazione da parte dello Stato membro».
[14] F. VIGANO’, Ne bis in idem, cit.
[15] Afferma la “Taricco”, ai §§ 39-40: «Se è pur vero che gli Stati membri dispongono di una libertà di scelta delle sanzioni applicabili, che possono assumere la forma di sanzioni amministrative, di sanzioni penali o di una combinazione delle due, al fine di assicurare la riscossione di tutte le entrate provenienti dall’IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione conformemente alle disposizioni della direttiva 2006/112 e all’articolo 325 TFUE (v., in tal senso, sentenza Åkerberg Fransson, C‑617/10, EU:C:2013:105, punto 34 e giurisprudenza ivi citata), possono tuttavia essere indispensabili sanzioni penali per combattere in modo effettivo e dissuasivo determinate ipotesi di gravi frodi in materia di IVA. Occorre del resto ricordare che, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, della Convenzione PIF, gli Stati membri devono prendere le misure necessarie affinché le condotte che integrano una frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno nei casi di frode grave, pene privative della libertà».
[16] Proprio in ragione della particolare ottica attraverso la quale si muove la Corte di Giustizia, e tenuto presente che non tutti gli Stati dell’Unione hanno ratificato il Prot. 7 della Cedu, è possibile comprendere perché la Corte di giustizia abbia adottato nella citata sentenza Fransson una linea cauta e, sinceramente, non del tutto chiara: da un lato, ha affermato che l'art. 50 CDFUE è norma di diritto primario dell'Unione, idonea a essere direttamente applicata dal giudice nazionale nella controversia pendente avanti a sé senza necessità (né possibilità) di alcun coinvolgimento della rispettiva corte costituzionale; ma, dall'altro, ha stabilito l'ambiguo principio secondo cui l'art. 50 CDFUE «non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di imposta sul valore aggiunto, una sanzione tributaria e successivamente una sanzione penale, qualora la prima sanzione non sia di natura penale, circostanza che dev'essere verificata dal giudice nazionale". Nel caso in cui, infatti, la “sovrattassa” amministrativa sia di natura penale, ai sensi dell’articolo 50 della Carta, e sia divenuta definitiva, tale disposizione osta a che procedimenti penali per gli stessi fatti siano avviati nei confronti di una stessa persona».
[17] Come ben evidenziato, peraltro, dal fatto che la somma contestata ai sensi dell’art. 10-ter citato, pari a 280.000 euro, si è tradotta – in sede amministrativa – in una sovrattassa di 84.000 euro, che del primo importo costituisce proprio il 30% di cui all’art. 13, d. lgs. n. 471 del 1997.
[18] Sez. 3, n. 19334 dell’11/2/2015, Andreatta, Rv. 264810.
[19] In motivazione, la Corte ha affermato che «Il principio del ne bis in idem sostanziale di cui all'art. 649 c.p.p. (che non va confuso con il principio del ne bis in idem processuale previsto dall'art. 669 c.p.p.) non trova una copertura testuale nella Costituzione italiana, bensì nelle fonti internazionali di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali dell'uomo (in particolare: art. 4 1, VII Protocollo, della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e l'art. 14, 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici). Infatti, due sono le principali e più dirette conseguenze della irrevocabilità della sentenza: 1) una negativa, ed è il divieto di un secondo giudizio per lo stesso fatto quando una persona è stata, in relazione ad esso, già condannata o prosciolta; 2) l'altra, positiva, è la forza esecutiva della decisione. Il disposto di cui all'art. 649 c.p.p., ha un'efficacia preclusiva, impedisce cioè la celebrazione di un nuovo processo per il medesimo fatto che sia già oggetto di una decisione irrevocabile ed impone al giudice di pronunciare in ogni stato e grado del processo sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere ex art. 129 c.p.p.. È evidente, dunque, che al fine di poter dichiarare come esistente un divieto di secondo giudizio è necessario il soddisfacimento di ambedue i requisiti sopra descritti. Ed è altrettanto evidente che, soprattutto al fine di accertare la esistenza del primo di essi (ossia che si tratti del "medesimo fatto"), è necessario lo svolgimento di apprezzamenti fattuali che esulano dalle possibilità di accertamento "fattuale" consentite alla Suprema Corte di Cassazione nei casi indicati dall'art. 606 c.p.p., lett. c). Il principio, sostenuto dall'orientamento disatteso da questo Collegio, per cui il divieto del ne bis in idem può essere rilevato anche in sede di legittimità, infatti, deve essere raccordato alla norma che limita la cognizione della Corte di cassazione, oltre i confini del devolutum, alle sole questioni di puro diritto, sganciate da ogni accertamento sul fatto (art. 609 c.p.p., comma 2. Nel giudizio di legittimità, infatti, è consentito, ex art. 609 c.p.p., comma 2, superare i limiti del devolutum e della ordinaria progressione dell'impugnazione, oltre che di quelli di ammissibilità dei motivi nuovi da proporre nel ristretto ambito dei capi e dei punti oggetto del gravame, soltanto per violazioni di legge che non sarebbe stato possibile dedurre in grado d'appello e per questioni di puro diritto, sganciate da ogni accertamento del fatto, rilevabili in ogni stato e grado del giudizio. Ne consegue, dunque, a differenza della possibilità di apprezzamento "fattuale" richiesta per il sindacato del ne bis in idem processuale di cui all'art. 669 c.p.p., non possono diversamente essere proposte, nel giudizio di legittimità, questioni attinenti al sindacato della violazione del divieto del ne bis in idem sostanziale dettato dall'art. 649 c.p.p., la cui valutazione richiede accertamenti di merito (ossia l'apprezzamento che si tratti del medesimo "fatto", inteso in senso non processuale, ma sostanziale, ossia come coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta, facendo riferimento tale espressione all'"identità storico- naturalistica del reato, in tutti i suoi elementi costitutivi identificati nella condotta, nell'evento e nel rapporto di causalità, in riferimento alle stesse condizioni di tempo, di luogo e di persona": Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005 - dep. 28/09/2005, P.G. in proc. Donati ed altro, Rv. 231799) che, come tali, devono essere necessariamente svolti nel giudizio di merito, salva la possibilità di sindacare i relativi provvedimenti, mediante un successivo ricorso per cassazione, nei limiti segnati dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e).» Il principio è stato ribadito in seguito, tra le altre e sempre in materia tributaria, da Sez. 3, nn. 6113 e 6114 del 7/1/2016, Salustri e Ventura, non massimate.
[20] Tra le numerose, Sez. 3, n. 20887 del 15/4/2015, Aumenta, Rv. 263407; Sez. 5, n. 43485 del 7/4/2014, Bandu, Rv. 260828; Sez. 4, n. 4958 dell’8/10/2013, De Bernardi, Rv. 258611; Sez. 5, n. 9825 del 10/1/2013, Di Martino, Rv. 255219
[21] Tra le altre, Sez. 5, n. 44854 del 23/09/2014, Gentile e altro, Rv. 261311; Sez. 2, n. 33720 del 08/07/2014, Nerini, Rv. 260346; Sez. 6, n. 44632 del 31/10/2013, Pironti, Rv. 257809.
[22] Concetto che la sentenza, di lì a poche righe, avverte peraltro il bisogno di ribadire, specificando che, «come è già stato puntualmente rilevato in dottrina, il sistema sanzionatorio in esame - assestato sul cumulo tra sanzioni tributarie e penali - pone effettivamente più che ragionevoli dubbi di compatibilità con la dimensione Europea del principio di ne bis in idem, non solo alla luce della sentenza Grande Stevens, ma anche, più specificamente, della sentenza Nykanen c. Finlandia, che ha riconosciuto la qualifica "sostanzialmente penale" - quale presupposto per l'operatività del diritto fondamentale a non essere giudicato e punito due volte per il medesimo fatto - anche al procedimento tributario e alle relative sanzioni (v. Corte EDU, 20 maggio 2014, Nykanen c. Finlandia)».
[23] Ordinanza 27 ottobre 2014, con la quale è stato chiesto alla Corte di giustizia se, «ai sensi degli artt. 4 Prot. n. 7 CEDU e 50 CDFUE, sia conforme al diritto comunitario la disposizione di cui all'art. 10-bis d.lgs. 74 del 2000 nella parte in cui consente di procedere alla valutazione della responsabilità penale di un soggetto il quale, per lo stesso fatto (omissione versamento delle ritenute), sia già stato destinatario della sanzione amministrativa irrevocabile di cui all'art. 13 d.lgs. 471/97 (con l'applicazione di una sovrattassa)».
[24] Sez. 3, n. 20887 del 15 aprile 2015, Aumenta, Rv. 263407.
[25] In termini analoghi, inoltre, giusta il comma 2 del medesimo articolo, i reati di cui agli articoli 4 e 5 non sono punibili se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l'autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell'inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.
[26] Sez. 3, n. 31378 del 14/1/2015, Ghidini, Rv. 264332
[27] Sez. U, n. 37424 del 28/3/2013, Romano, Rv. 255757, in Corr. Trib., 2013, p. 3487 ss. , con nota di A. TRAVERSI; Sez. U, n. 37425 del 28/3/2013, Favellato, Rv. 255760. Negli stessi termini, successivamente, Sez. 3, n. 20266 dell’8/4/2014, Zanchi, Rv. 259190; Sez. 3, n. 40526 dell’8/4/2014, Gagliardi, Rv. 260090.
[28] G. M. FLICK, Reati fiscali, cit., p. 15, afferma che nell’ordinamento tributario italiano «in teoria il pericolo di frizioni con la garanzia convenzionale del ne bis in idem dovrebbe essere scongiurato, perché il principio di specialità tra disposizioni sanzionatorie penali e disposizioni sanzionatorie amministrative è stato esteso anche alla materia tributaria dall’art. 19 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74».
[29] M. DOVA, Ne bis in idem e reati tributari, cit., afferma che «In tal modo, la giurisprudenza ha avallato la duplicazione punitiva. E lo ha fatto con particolare riguardo ai reati di omesso versamento: fatti che, nell'originario disegno riformatore del 2000, non rientravano neppure nel catalogo dei comportamenti meritevoli di pena. Infatti, è solo qualche anno più tardi, precisamente nel 2004 e nel 2006, che il legislatore, tornando sui propri passi, ha attribuito rilevanza penale, rispettivamente, all'omesso versamento di ritenute certificate e all'omesso versamento di IVA (artt. 10-bis e ter, d.lgs. 74/2000). Ciò ha prodotto una sovrapposizione tra reati e illeciti amministrativi di omesso versamento, che avrebbe dovuto essere risolta attraverso il principio di specialità».