Sommario: 1. La libertà d’iniziativa economica e il limite del rispetto dell’ambiente tra lavori preparatori e proposte di riforma. – 2. La tutela dell’ambiente e l’utilità sociale nella giurisprudenza costituzionale del ventunesimo secolo: uno strumento di protezione dei diritti fondamentali della collettività. - 3. L’art. 41 Cost. come norma che, unitariamente considerata, esprime l’esigenza di un bilanciamento di valori, alla luce dei principi di ragionevolezza e solidarietà sociale, e con il limite del rispetto del nucleo essenziale dei diritti fondamentali. – 4. La CEDU e la rinnovata attenzione per l’ambiente e i diritti fondamentali da parte della Corte costituzionale. – 5. Liberalizzazioni, posizione dominante e barriere all’entrata su di un mercato. - 6. Liberalizzazioni e servizi di interesse generale. - 7. Liberalizzazioni, concorrenza e Corte costituzionale. - 8. – Conclusioni.
1. La libertà d’iniziativa economica e il limite del rispetto dell’ambiente tra lavori preparatori e proposte di riforma. -- Scopo di questo studio è il tentativo di spiegare il paradosso consistente nella contemporanea prepotente e recente affermazione di principi apparentemente opposti, ossia da un lato l’esaltazione del valore della tutela dell’ambiente di cui all’art. 9, comma 2, Cost. (“la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”) e 117, comma 2, lett. s), Cost., (la “tutela dell’ambiente” è materia di competenza esclusiva statale{C}[1]), nonché dell’utilità sociale di cui al comma 2 dell’art. 41 Cost. e dei diritti fondamentali in genere; dall’altro l’emersione di un valore e un obiettivo allo stesso tempo, quello delle liberalizzazioni (che possono essere ricondotte al comma 1 dell’art. 41 Cost.), che fino a pochi anni fa incontrava freddezza e diffidenza. Tutela dell’ambiente, utilità sociale e diritti fondamentali sono il simbolo di uno Stato interventista in economia; le liberalizzazioni, al contrario, sono la tipica espressione di uno Stato liberista.
Occorre dunque necessariamente partire dall’art. 41 Cost., che è il frutto dell’accordo (“compromesso” è la parola che usa Togliatti) tra le tre anime presenti in sede di Assemblea Costituente, quella liberale (si pensi a Luigi Einaudi), di cui è espressione il co. 1 (libertà d’iniziativa economica), quella cattolica (si pensi a Alcìde De Gasperi), di cui è espressione il co. 2 (l’utilità sociale e i c.d. limiti “negativi” alla libertà d’iniziativa economica), quella comunista/socialista (si pensi a Palmiro Togliatti) di cui è espressione il co. 3 (c.d. limiti “positivi” alla libertà d’iniziativa economica).
La scelta dei Costituenti è stata nel senso di considerare l’iniziativa economica come libera, ma al contrario di molte libertà civili essa non è qualificata come inviolabile[2]{C} (si vedano invece gli artt. 13, 14, 15 Cost., in tema rispettivamente di libertà personale, domicilio, corrispondenza); sono inoltre apprestati vincoli assai più rigidi e penetranti (cfr. co 2 e 3 dell’art. 41 Cost.) di quelli previsti per le libertà civili; infine la Corte costituzionale non ha mai qualificato l’iniziativa economica come diritto fondamentale. Questi dati hanno fornito il fondamento giustificativo di quelle ricostruzioni che hanno assegnato alla predetta libertà uno status di libertà “dimidiata”, di un rango diverso ed inferiore rispetto alle libertà civili, non configurabile come diritto fondamentale{C}[3].
Fin dall’inizio l’art. 41 Cost., soprattutto per quanto riguarda il limite dell’“utilità sociale” ha avuto numerose critiche{C}[4]{C}, per la sua formulazione “pericolosamente generica, troppo ampia, inconoscibile, indeterminata e indeterminabile: una norma che non ha significato è una norma per definizione anticostituzionale e arbitraria. Qualunque interpretazione darà il legislatore futuro alla norma essa sarà valida. Nessuna Corte giudiziaria potrà negarle validità, perché tutte le leggi saranno conformi a ciò”{C}[5]{C}.
Proprio sull’onda di queste critiche mai sopite alla norma, cominciate già durante i lavori della Costituente e arrivate ai giorni nostri, nella scorsa legislatura è stato oggetto di esame presso la Commissione Affari costituzionali un disegno di legge costituzionale del Governo, presentato il 7 marzo 2011 (A.C. 4144), che recava la modifica dell’art. 41 Cost., finalizzato a rafforzare la garanzia costituzionale della libertà economica (il nuovo comma 1 dell’art. 41 così avrebbe recitato: “L'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”: le parti in corsivo costituiscono le modifiche). Sono però mancati i tempi tecnici per approvare la riforma in quella legislatura{C}[6]{C}.
Peraltro l’obiettivo perseguito con quei progetti di riforma è stato in parte già raggiunto mediante una serie di decreti legge recenti, poi convertiti in legge[7]{C}, che hanno affermato, quanto ai limiti alla libertà di iniziativa economica privata, il principio della riserva di legge (è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge). Peraltro, già dal 1964 (sentenza n. 40) la Corte costituzionale si era espressa nel senso che la riserva di legge nell’art. 41 Cost., pur senza che si possa negare una sua certa modulazione, rappresenta una costante, se non altro per l’espressione utilità sociale, la cui indubitabile indeterminatezza ne rende quanto meno complessa l’immediata operatività, implicando l’opportunità, se non la necessità, dell’intermediazione del legislatore. La novità di questa recente disciplina sta dunque nell’ancorare i limiti imponibili all’iniziativa economica alla protezione di ben definiti valori costituzionali, quali il lavoro, l’ambiente e la salute: non è sufficiente una qualsiasi legge dunque per porre un freno all’attività economica, occorre anche che quella legge abbia il chiaro obiettivo di tutelare i predetti valori.
2. La tutela dell’ambiente e l’utilità sociale nella giurisprudenza costituzionale e della Casssazione: uno strumento di protezione dei diritti fondamentali della collettività. -- L’esame della giurisprudenza costituzionale evidenzia innanzitutto un dato statistico incontrovertibile, ossia la circostanza che negli ultimi anni sono notevolmente incrementate le questioni poste alla Corte costituzionale nelle quali la tutela dell’ambiente e l’utilità sociale sono indicati quali parametri alla luce dei quali valutare la legittimità costituzionale di una norma. Più limitato invece è l’uso che della tutela dell’ambiente e dell’utilità sociale fa la Cassazione, per lo più proprio solo nel richiamare il contenuto di sentenze della Corte costituzionale{C}[8].
D’altro canto non va sottovalutato il fatto che anche la libertà di iniziativa economica ha avuto un notevole aumento di citazioni, sia nella legislazione che nelle sentenze della Consulta, pur confermandosi della stessa sempre la stessa definizione: “il legislatore costituzionale ha opportunamente costruito tale libertà non come assoluta (ma del resto tutti i diritti fondamentali sono suscettibili di essere oggetto di bilanciamento con altri diritti fondamentali), ma l’ha subordinata, fra l’altro, al vincolo costituito dal mancato contrasto con l’utilità sociale” (es. sentenza n. 289 del 2010).
La Costituzione non definisce né l’ambiente né l’utilità sociale; anche la Corte costituzionale evita di farlo, si limita volta per volta a affermare cosa vi rientri e cosa no, affermando che un certo interesse costituzionalmente riconosciuto ha una valenza ambientale e di utilità sociale e come tale deve essere adeguatamente tutelato. E i confini dei concetti di tutela dell’ambiente e di utilità sociale sembrano ai nostri giorni diventati così ampi che si corre concretamente il rischio di tendere ad identificare il concetto di utilità sociale con quello generico di interesse pubblico, della collettività, degli altri, siano essi singoli, una collettività più o meno grande o un gruppo di persone portatrici di un interesse omogeneo: sono gli interessi di tutti coloro che, direttamente o indirettamente, vengono colpiti dall’iniziativa economica altrui: ad es. i lavoratori, i consumatori, i cittadini che abitano vicino ad un’industria e ne respirano i fumi velenosi. Potrebbe ben affermarsi che così facendo tali espressioni perdono probabilmente un reale contenuto precettivo. Ma forse questo rischio vale la pena di essere corso, perché con il riferimento alla tutela dell’ambiente e all’utilità sociale nella Costituzione si è proprio voluto attribuire dignità costituzionale al concetto – sicuramente generico e vago ma non per questo non importante - degli interessi della collettività che, volente o nolente, si trova ad interagire con colui che esercita un’attività economica.
Fatto sta che nel ventunesimo secolo la Corte costituzionale parla di utilità sociale non solo a proposito di ambiente, ma anche di salute, lavoro, autonomia contrattuale, proprietà: con riferimento in particolare all’ambiente, a proposito di condono edilizio, esigenze di finanza pubblica e tutela dell’ambiente{C}[9]{C}; limiti all’iniziativa economica in nome della tutela dell’ambiente{C}[10]{C}; limiti al commercio itinerante e tutela dei centri storici delle città d’arte{C}[11]{C}; limitazioni al diritto di proprietà in nome di esigenze di rilievo pubblico{C}[12]{C}.
L’utilità sociale è un concetto che racchiude altresì la tutela di “diritti sociali” “ritenuti di fondamentale importanza sul piano della dignità umana”, quali quello all’abitazione (cfr. in questo senso la citata giurisprudenza costituzionale in tema di condono edilizio), il diritto al lavoro (cfr. sentenza 200 del 2012 e n. 270 del 2010, 50 del 2005: quest’ultima parla di “diritto sociale al lavoro”)[13]{C}, il diritto allo studio (sentenza n. 219 del 2002){C}[14]{C} e soprattutto il diritto alla tutela dell’ambiente. Si tratta a ben vedere più che di diritti soggettivi, ossia della singola persona, di interessi della collettività considerata nel suo insieme e che per essere concretamente realizzati hanno bisogno di molto denaro, che molto spesso però lo Stato non ha o non si può permettere{C}[15]{C}. Ecco dunque che la tuela dell’ambiente e l’utilità sociale ritornano per ricordare che nel necessario e inevitabilmente “crudele” bilanciamento tra esigenze dei singoli (a pagare meno imposte possibili) e diritti della collettività, questi ultimi non possono passare in secondo piano. La tutela dell’ambiente e dell’utilità sociale appaiono dunque lo strumento che consentono una protezione dei diritti fondamentali in una fase per così dire collettiva della loro esistenza, quando cioè sono messi in pericolo non tanto in quanto riferiti a un singolo individuo, ma in un orizzonte più ampio, con riguardo ad una collettività più o meno ampia e definita di persone. Ed in effetti vi sono diritti fondamentali che, senza neppure dover far riferimento all’utilità sociale, vivono in una dimensione individuale e in una collettiva allo stesso tempo. Così, ad esempio, a proposito del diritto fondamentale alla salute di cui all’art. 32 Cost., la sentenza n. 107 del 2012, in tema di vaccinazioni{C}[16]{C}, ha affermato che la salute è al contempo un diritto fondamentale dell’individuo (lato «individuale e soggettivo») e un interesse della intera collettività (lato «sociale e oggettivo»).
La dimensione collettiva dell’ambiente è fatta propria anche dalla Suprema Corte, secondo cui l'ambiente, bene unitario ma anche immateriale, è espressione di un autonomo valore collettivo, ed è oggetto, come tale, di tutela da parte dell'ordinamento, che non si è realizzata soltanto a partire dalla legge n. 349 del 1986, il cui art. 18, sebbene sia norma non retroattiva, ha avuto soltanto una funzione ricognitiva di un assetto che già trovava radice nella Carta costituzionale (artt. 2, 3, 9, 32, 41 e 42 Cost.) e, ai fini di una tutela piena ed organica, nell'art. 2043 c.c.{C}[17]{C}, là dove il citato art. 18 è intervenuto a definire e tipizzare l'illecito ambientale, richiedendo, quale elemento costitutivo, una condotta dolosa o colposa che sia violatrice "di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge, che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte". Pertanto, ai fini dell'integrazione della responsabilità civile per danno ambientale in relazione a fatti anteriori alla legge n. 349 del 1986 - e, dunque, ai sensi dell'art. 2043 c.c. - il danno ingiusto (ossia l'evento lesivo della modificazione, alterazione o distruzione dell'ambiente naturale considerate da un mero punto di vista obiettivo, nella sua materialità) deve essere determinato da una condotta, attiva od omissiva, sorretta dall'elemento soggettivo intenzionale e cioè dal dolo o dalla colpa{C}[18]{C}; La Cassazione si mostra altresì consapevole da un lato sia del particolare valore riconosciuto all’ambiente, relativamente al quale è esclusa la risarcibilità per equivalente{C}[19]{C} e la responsabilità di tutti gli autori dell’illecito per l’intero evento causato in caso di azioni od omissioni concorrenti alla concretizzazione di un'unitaria condotta di danneggiamento dell'ambiente{C}[20]{C}, sia lo stretto e inevitabile collegamento tra tutela dell’ambiente e tutela della salute{C}[21].
3. L’art. 41 Cost. come norma che, unitariamente considerata, esprime l’esigenza di un bilanciamento di valori, alla luce dei principi di ragionevolezza e solidarietà sociale, e con il limite del rispetto del nucleo essenziale dei diritti fondamentali. -- La giurisprudenza costituzionale così succintamente esaminata ci spiega che ha ben poco senso - o forse non ne ha per nulla - considerare isolatamente le singole disposizioni dell’art. 41 Cost. Esse invece acquistano un significato tutto nuovo e per nulla contraddittorio se lette unitariamente: esprimono una esigenza di bilanciamento tra diversi valori.
Emerge poi un continuo passaggio e rinvio dalla sfera individuale a quella collettiva e viceversa, dai diritti fondamentali all’utilità sociale, dai diritti inviolabili della persona, all’interesse della collettività. Il “tramite” tra la sfera individuale e quella collettiva dei diritti, il metro per decidere in merito a come effettuare il necessario bilanciamento di valori, è offerto da due principi fondamentali: quello della solidarietà sociale{C}[22]{C} (oltre agli artt. 41, 42, 43 e 44 Cost.{C}[23]{C}, si pensi anche agli artt. della Cost. 2, 3, co. 2, e 53 – progressività dell’imposizione fiscale: cfr. la già citata sentenza n. 107 del 2012 in tema di vaccinazioni e la n. 223 del 2012 sulle retribuzioni dei magistrati){C}[24]{C} e quello della ragionevolezza{C}[25]{C} (corollario del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.){C}[26].
Afferma infatti la sentenza 107 del 2012 che, in tema di indennizzi in ipotesi di profilassi delle malattie infettive (art. 1, legge n. 210 del 1992), sul piano dei valori garantiti dall’art. 2 Cost., in un contesto di irrinunciabile solidarietà, la misura indennitaria appare destinata a compensare il sacrificio individuale ritenuto corrispondente a un vantaggio collettivo: sarebbe infatti irragionevole che la collettività possa, tramite gli organi competenti, imporre o anche solo sollecitare comportamenti diretti alla protezione della salute pubblica senza che essa poi non debba reciprocamente rispondere delle conseguenze pregiudizievoli per la salute di coloro che si sono uniformati[27]. La solidarietà sociale agisce dunque non solo dal singolo a favore della collettività (come nel caso della funzionalizzazione della proprietà a ragioni di utilità sociale) ma anche, come appunto nel caso delle vaccinazioni obbligatorie, dalla collettività a favore del singolo.
Venendo poi al rapporto tra le varie fonti che riconoscono i diritti fondamentali, mi sembra che ormai sempre meno senso abbia impostare il problema in termini di rapporto di gerarchia tra le fonti: appare infatti che la distinzione tra diritti costituzionalmente riconosciuti, diritti fondamentali, diritti riconosciuti dalla Carta di Nizza e quindi facenti parte dell’Unione europea e diritti riconosciuti dalla CEDU sia ormai di fatto se non superata comunque sempre meno decisiva, in virtù di una giurisprudenza costituzionale che in presenza di una pluralità di interessi costituzionalmente riconosciuti tende a ragionare in termini di necessario bilanciamento tra gli interessi stessi, pur nella convinzione che esista un nucleo essenziale o irrinunciabile dei diritti fondamentali insuscettibile di essere compresso e nella consapevolezza che esiste una reciproca integrazione fra le fonti, fra le quali tende a prevalere quella che offre una maggiore tutela del diritto fondamentale[28].
La (possibile) prevalenza (o perlomeno il necessario bilanciamento) dei diritti fondamentali sulla disciplina dell’Unione europea è così affermata nella sentenza Alitalia (n. 270 del 2010, in cui la Corte costituzionale dichiara infondata la questione di costituzionalità della norma che, consentendo la fusione tra Alitalia e Air One, deroga alla disciplina antitrust delle concentrazioni tra imprese): la dovuta coerenza con l’ordinamento comunitario, in particolare con il principio che «il mercato interno ai sensi dell’art. 3 del Trattato sull’Unione europea comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata» (Protocollo n. 27 sul mercato interno e la concorrenza, allegato al Trattato di Lisbona entrato in vigore il 1° dicembre 2009, che conferma l’art. 3, lett. g, del Trattato sull’Unione europea), comporta il carattere derogatorio e per ciò stesso eccezionale di questa regolazione. In altri termini, occorre che siffatto intervento del legislatore costituisca la sola misura in grado di garantire la tutela di quegli interessi{C}[29].
Appare dunque un vuoto esercizio di retorica sostenere che i diritti fondamentali e la tutela dell’ambiente in particolare si pongano su un piano superiore e non comunicante rispetto ai diritti del mercato e che non possano mai essere sacrificati a favore di altri valori; tale atteggiamento potrebbe anzi essere non solo infruttuoso ma anche rischioso, qualora, facendosi forza di questa affermazione, si comprima lo spazio dei diritti dell’uomo a favore del mercato con il pretesto che tanto si tratta di mondi che non possono interferire tra di loro{C}[30]{C}. Sembra invece assai più utile prendere atto della reciproca interferenza fra gli stessi e concentrarsi sul procedimento più appropriato per realizzare un bilanciamento tra valori che tenga in dovuto conto la sussistenza dei diritti fondamentali senza al contempo “umiliare”, frustrare eccessivamente i valori del mercato{C}[31]{C}. In questa direzione è fondamentale un uso sapiente delle clausole generali, e in particolare della ragionevolezza{C}[32]{C} e della solidarietà sociale, pur nella consapevolezza degli inevitabili pericoli di genericità e arbitrarietà che esse comportano ({C}[33]{C}). Per ridurre tali rischi risulterebbe fondamentale innanzitutto poter fare affidamento su giudici altamente specializzati in materie economiche ({C}[34]{C}) e procedere al bilanciamento dei diritti fondamentali tenendo conto, a livello macroeconomico, della dimensione collettiva degli interessi coinvolti: quanto più alto sarà il numero delle persone coinvolte dai sacrifici richiesti dalle esigenze del mercato (ad es. l’inquinamento prodotto da una nuova industria, l’aumento dei prezzi determinato da un’intesa anticoncorrenziale) tanto più energica dovrà essere la reazione dell’ordinamento nel riaffermare le esigenze della collettività valorizzando al massimo l’utilità sociale, che può essere considerata l’anello di collegamento tra diritti fondamentali e mercato. Nell’applicazione del principio di solidarietà economica e sociale di cui all’art. 2 Cost. dovrà dunque tenere presente quello che è uno dei corollari del principio di uguaglianza, ossia il principio secondo cui devono essere trattate in maniera adeguatamente diseguale situazioni diseguali. Pertanto, da una parte il giudice dovrà procedere alla correzione del contratto eventualmente squilibrato non mediante sue personali e incontrollabili concezioni dell’equità bensì prendendo come solido punto di riferimento i valori oggettivamente espressi dal mercato (così ad esempio potrà ridurre secondo equità una clausola penale perché eccessivamente gravosa solo se tale onerosità viene uniformemente riconosciuta nell’ambito del mercato in cui è stata stipulata) e dall’altro dovrà ritenere di intervenire non in tutte le ipotesi di contratto squilibrato (pena altrimenti la mortificazione del principio dell’autonomia contrattuale di cui va rivendicata la persistente attualità) ma solo quando esigenze di inesperienza e carenza di informazioni del consumatore o di assenza di alternative dell’imprenditore debole lo esigano.
E soprattutto occorre sottolineare che i diritti fondamentali sono sì suscettibili di essere bilanciati con altri valori, ma solo se questo sacrificio sia dettato da esigenze particolarmente meritevoli di tutela – ossia dalla necessità di contemperare tali diritti con altri (tra i quali sicuramente rientrano quelli espressi dal mercato) – e purché non sia mai intaccato il nucleo irrinunciabile (cfr. la sentenza n. 119 del 2012[35]{C} , secondo cui è compito della Corte costituzionale vigilare sul rispetto del nucleo essenziale dei diritti fondamentali, per cui le esigenze di bilancio possono comprimere il diritto fondamentale alla previdenza di cui all’art. 38, il diritto alla salute di cui all’art. 32, ma non il loro nucleo essenziale), lo “zoccolo duro” dei diritti fondamentali{C}[36]{C}. Seguendo questa impostazione, può ad esempio comprendersi quanto affermato dalla Corte costituzionale in tema di diritto alla salute: esso, nel suo aspetto di pretesa all’erogazione di prestazioni (interesse pretensivo), “non può non subire i condizionamenti che lo stesso legislatore incontra nel distribuire le risorse finanziarie delle quali dispone”, per altro verso però “le esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana” (interesse oppositivo){C}[37].
Come già rilevato dunque la prepotente affermazione della teoria del bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti e della conservazione del nucleo indissolubile dei diritti induce dunque a riflettere sul se abbia un senso distinguere, nell’ambito dei diritti costituzionalmente protetti, tra diritti fondamentali – che nella gerarchia delle fonti andrebbero collocati per la teoria dei contro limiti al di sopra delle norme dell’Unione europea – e diritti che fondamentali non sono (ad esempio probabilmente il diritto di iniziativa economica)[38]. Infatti tutti i diritti costituzionalmente rilevanti sono in grado di farsi sentire, di entrare in bilanciamento con diritti di sicura qualificabilità come diritti fondamentali, in un contesto di reciproca interferenza tra le fonti e fra i vari interessi che delle stesse sono espressione.
Il diritto comunitario ha indubbiamente condizionato l’interprete nella lettura dell’art. 41 Cost.{C}[39]{C}, dapprima ritenendosi che la centralità del mercato e della concorrenza nel diritto europeo dovessero far pendere la bilancia a favore del co. 1 dell’art. 41{C}[40]{C}, per poi “riscoprire” l’utilità sociale alla luce del maggior risalto attribuito di recente ai diritti fondamentali (si pensi solo al recepimento della Carta di Nizza ad opera dell’art. 6 TUE). Tutto ciò ha in realtà esaltato la valenza di clausola generale che riveste oggi l’art. 41 Cost., e che a mio avviso aveva e continua tuttora ad avere attualità e rilievo in quanto prima di tutto esprime l’esigenza che si proceda ad un bilanciamento tra i valori in esso espressi. Quello che l’art. 41 Cost. non dice sono le misure, i rapporti di forza tra questi valori, ma questa è una caratteristica tipica delle clausole generali ed in questo non può negarsi l’influenza del diritto dell’Unione europea che, con la “scoperta” dei diritti fondamentali, ha contribuito non poco ad attribuire oggi un peso maggiore all’utilità sociale, e dunque ad una sua “riscoperta”{C}[41].
4. La CEDU e la rinnovata attenzione per i diritti fondamentali da parte della Corte costituzionale. -- La “promozione” delle norme della CEDU al rango di norme “sub costituzionali” (a partire dalle sentenze della Corte cost. n. 348 e 349 del 2007 in poi) evidenzia la rinnovata attenzione della Corte costituzionale italiana per i diritti fondamentali, i quali appunto costituiscono l’oggetto della tutela della CEDU{C}[42].
Quando però si vuole passare da affermazioni di principio a proposizioni più puntuali ci si scontra con delle gravi difficoltà: la mancata elencazione dei diritti fondamentali una volta per tutte da parte della Corte costituzionale; l’inevitabile necessità di dover comunque “bilanciare” tale diritti con altri costituzionalmente riconosciuti e dunque l’ammissione – mai esplicita – che tali diritti possono, sia pure non nel loro nucleo essenziale, essere “violati”.
Quanto all’individuazione dei diritti fondamentali della persona, essi sembrano tutti emanazione del generalissimo diritto alla dignità della persona umana, oggetto dell’art. 1 della carta di Nizza[43]{C}. In effetti, secondo le sentenze della Corte costituzionale n. 92 del 2002 e n. 293 del 2000, la tutela della dignità della persona umana non solo è un valore costituzionale fondamentale, ma altresì anima l’art. 2 Cost. e permea di sé l’intero diritto positivo. Ha poi affermato la sentenza n. 219 del 2008 che «il fine ultimo dell’organizzazione sociale» è «lo sviluppo di ogni persona umana», il cui valore si pone al centro dell'ordinamento costituzionale: compete al legislatore approntare il più efficace dei sistemi di tutela, affinché esso non venga compromesso. La Costituzione italiana, approvata il 22 dicembre 1947, fa esplicito riferimento ad esso negli articoli 3, 36 e 41, e lo richiama in particolare nell’art. 32. Un anno dopo, il 10 dicembre 1948, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il cui articolo 1 integra in modo significativo l’antica formula settecentesca della Dichiarazione francese (“gli uomini nascono e rimangono liberi e eguali nei diritti”) affermando che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”{C}[44].
Secondo la Consulta, quando si tratta di effettuare un bilanciamento tra vari interessi alla luce del principio di ragionevolezza, questo deve consistere in un “ragionevole e proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale, implicati dalle scelte legislative, specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali {C}[45]{C}, (cfr. le sentenze nn. 172 del 2012 {C}[46]{C}, 245 del 2011; “la prima della serie” è invece la sentenza 139 del 1982). E’ significativo però che è solo dal 2010 che la Corte costituzionale ha introdotto, nelle sue motivazioni riguardanti la violazioni da parte di una legge del principio di ragionevolezza, l’inciso “specie quando limitano un diritto fondamentale della persona”. La Corte non approfondisce ulteriormente il concetto, ma sembra evidentemente di capire che tutti i diritti possono essere compressi, ma quelli che meno possono tollerare una deminutio sono i diritti fondamentali quale ad esempio il diritto alla libertà personale.
Deve ritenersi che in questa accentuata sensibilità della Consulta verso i diritti fondamentali abbia contribuito l’equiparazione al diritto comunitario da parte del Trattato di Lisbona del 1° dicembre 2009 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea approvata a Nizza[47]{C}, in precedenza non formalmente entrata in vigore{C}[48]{C}, ma che aveva assunto, sin dalla sua proclamazione, una valenza declaratoria e simbolica quale momento rilevante nel cammino verso un’Europa dei diritti{C}[49].
Altro fattore significativo di sviluppo di una maggiore attenzione per i diritti fondamentali è, come si è detto, l’introduzione, nel primo comma dell’art. 117 Cost., del limite, anche per il legislatore statale, del rispetto degli obblighi internazionali, così che si è potuto sviluppare – a partire dalle già citate fondamentali sentenze nn. 348 e 349 del 2007 – un orientamento della giurisprudenza costituzionale volto a subordinare non solo la validità delle norme interne al rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma anche l’interpretazione di questa agli orientamenti della Corte di Strasburgo. In questo quadro si inserisce il Trattato di Lisbona del dicembre 2009, che ha ampliato la prospettiva della protezione dei diritti fondamentali: con l’attribuire significato valoriale fondante al rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, del pluralismo, della non discriminazione, della tolleranza, della giustizia e della solidarietà; con l’impegnare le istituzioni comunitarie a promuovere questo insieme di valori nell’adozione dei loro atti e nella formulazione delle politiche europee; con l’adesione da parte dell’Unione europea alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali[50].
Inoltre, pur rendendosi sempre più disponibile ad accogliere fonti di diritto di provenienza non autoctona, la Corte costituzionale non ha ad oggi ancora mai smentito l’affermazione contenuta nella sentenza n. 170 del 1984 (sempre confermata: cfr. ad esempio la sentenza n. 288 del 2010), con la quale ha dato sì ingresso al diritto comunitario in posizione di preminenza rispetto al diritto interno, ma ha anche ritenuto che “ciò non implicava che l’intero settore dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno fosse sottratto alla propria competenza, potendo il diritto comunitario essere soggetto al suo sindacato in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili delle persona umana”. Si tratta della cosiddetta teoria dei controlimiti{C}[51]{C}, che pone al vertice della gerarchia delle fonti i diritti fondamentali, collocati su un gradino ancora più alto rispetto al diritto comunitario, che pure a sua volta si pone su un piano superiore rispetto alle norme avente rango costituzionale{C}[52]{C}.
5. Liberalizzazioni, posizione dominante e barriere all’entrata su di un mercato. -- Oltre al rinnovato vigore che ha acquisito l’art. 41 Cost. nel suo insieme (e quindi anche nella parte in cui afferma la libertà di intrapresa economica), anche la crisi economica ha indubbiamente avuto un ruolo propulsivo per il processo di liberalizzazioni.
Con il termine “liberalizzazione” si intende la possibilità di svolgere attività economiche prima non accessibili a causa dell'esistenza di “barriere all’entrata” ({C}[53]{C}) sul corrispondente mercato. Si tratta di un procedimento complesso perché vi è innanzitutto un provvedimento legislativo che elimina la barriera o le barriere; il più delle volte inoltre trasforma il vecchio monopolista (o, ma più raramente, i vecchi oligopolisti) da ente pubblico o da azienda pubblica in società per azioni: da qui la possibilità per le imprese private di entrare nel relativo mercato e la possibilità per i privati di acquistare le azioni della novella società. È per questo che il processo di liberalizzazione è strettamente legato al processo di privatizzazione. Con il termine “regolazione” si intende invece ogni specie di ingerenza pubblica nell'economia{C}[54]{C}.
Liberalizzare significa dunque abbattere le barriere che impediscono alle imprese di entrare sul mercato sul quale agiscono una o più imprese che della “non liberalizzazione” approfittano: esse infatti godono di una posizione dominante, che perderanno con l’avvenuta liberalizzazione. Il concetto di posizione dominante è a sua volta decisivo nelle leggi poste a tutela della concorrenza: per stabilire se un qualunque comportamento posto in essere da una o più imprese possa definirsi abusivo e assumere così giuridica rilevanza ai sensi della legge n. 287 del 1990 (c.d. legge antitrust) e del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, è sempre condizione necessaria la verifica dell'esistenza di una posizione dominante ([55]), la quale, come detto, dipende dal possesso, in capo all’impresa o alle imprese, di una barriera - posta a protezione del mercato in cui esse agiscono – che le difenda dagli “attacchi” delle imprese potenzialmente concorrenti.
La posizione dominante può essere definita come una situazione che, pur non coincidendo necessariamente con il monopolio, ad esso si avvicina, in modo da consentire a chi la detiene di tenere un comportamento significativamente indipendente nei confronti delle imprese concorrenti e dei consumatori ({C}[56]{C}): non è dunque necessario che un'impresa abbia eliminato ogni possibilità di concorrenza. In altre parole la posizione dominante è quella situazione che permette all’impresa o alle imprese che la detengano di abusarne, provocando così una limitazione della concorrenza all’interno del mercato in cui operino. Per barriera all’entrata su di un determinato mercato - cercando di offrirne una definizione, cosa tutt’altro che semplice - può intendersi qualsiasi ostacolo, di carattere economico{C}[57]{C}, amministrativo{C}[58]{C} o tecnico{C}[59]{C}, che impedisca o renda significativamente più difficoltoso alle altre imprese l’ingresso sul mercato su cui agisca l’impresa che della barriera stessa usufruisce, oppure qualsiasi fattore (la qualità del prodotto, un marchio celebre, un brevetto, il know-how) che, pur non ostacolando l’ingresso di altre imprese sul mercato, sia in grado di differenziare in maniera significativa il prodotto dell’impresa che disponga della barriera (tanto da attribuire all'impresa una posizione di monopolio). In altre parole, per barriera può intendersi qualsiasi ostacolo che impedisca o renda significativamente più difficoltosa la produzione o la vendita di beni merceologicamente simili a quelli dell’impresa protetta dalla barriera o la vendita di beni negli stessi luoghi nei quali agisce l’impresa che gode della barriera ({C}[60]). L’impresa che disponga della barriera ha dunque la possibilità di usufruire di una determinata zona, geograficamente e/o merceologicamente delimitata in maniera più o meno netta dalla barriera, entro cui il gioco della concorrenza non esiste oppure è fortemente limitato. In questa zona l’impresa che detenga una posizione dominante potrà svolgere efficacemente un’azione restrittiva della concorrenza, riuscendo a conseguire sovrapprofitti di carattere monopolistico; fuori di questa zona si ristabiliscono invece le condizioni di concorrenza e ogni comportamento, pure astrattamente anticoncorrenziale risulterà essere del tutto improduttivo.
6. Liberalizzazioni e servizi di interesse generale. -- Dalla lettura congiunta degli artt. 41 e 43 Cost. si evince che coesiste la libertà di iniziativa economica con la possibilità di riservare ai pubblici poteri taluni ambiti di attività economica{C}[61]{C}: infatti, la libertà di iniziativa economica, garantita dall'art. 41, sussiste negli ambiti nei quali non opera la riserva pubblica, ammessa dall'art. 43: le attività economiche sono normalmente aperte alla libera iniziativa, mentre la riserva pubblica dà origine ad un regime speciale, che richiede una base legale e una specifica giustificazione{C}[62]{C}.
Il regime di pubblico servizio è informato da criteri che non attengono al buon andamento del mercato, giacché risponde piuttosto ad esigenze che non potrebbero essere soddisfatte dal libero mercato.
La riserva di attività nei confronti dei poteri pubblici può dirsi costituzionalmente legittima solo ove involga servizi pubblici essenziali, ossia volti al soddisfacimento di bisogni essenziali per la collettività, per lo più a fronte di un corrispettivo che, normalmente, non corrisponde a quello che sarebbe chiesto dal mercato{C}[63]{C}. Inoltre, per effetto dell'influenza del diritto europeo sul nostro ordinamento interno, si è affermata l'idea che il ruolo dello Stato deve essere quello del regolatore (non già dell’imprenditore) che si limita a identificare deficienze del sistema e provvede a colmarle{C}[64].
Le norme che hanno disposto delle liberalizzazioni hanno ad oggetto soprattutto imprese che gestiscono servizi di interesse economico generale (si è visto ad esempio il caso del gas). Tali norme sono pertanto dirette a conciliare da un lato la necessità (connotata da forti implicazioni pubblicistiche: si pensi soltanto all’utilità sociale) di assicurare comunque la prestazione di servizi ritenuti essenziali, anche in ipotesi in cui ciò non sia conveniente per l’impresa in termini di economicità{C}[65]{C} (si pensi ad esempio al servizio telefonico in alcune aree montuose particolarmente accidentate, al servizio di traghetto nei mesi invernali verso isole a forte vocazione turistica estiva e in genere ai trasporti{C}[66]{C} e al ruolo regolatore e di controllo delle varie Authorities di settore) e dall’altro il rispetto, per quanto possibile, delle norme a tutela della concorrenza per quanto riguarda l’accesso al mercato in questione sia di potenziali imprese concorrenti (esiste cioè realmente la necessità di mantenere un regime di monopolio legale - come si riteneva ad esempio nel 1942 al momento dell’emanazione del codice civile - per le ferrovie?){C}[67] sia dei consumatori (l’impresa che agisca in condizioni di monopolio legale non deve negare l’erogazione del servizio o prestarlo a condizioni particolarmente onerose).
Vengono dunque in considerazione a questo proposito, oltre ai già citati artt. 41 e 43 Cost., gli artt. 2597 e 1679 c.c., l’art. 8 della l. n. 287 del 1990 e gli artt. 106 e 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Afferma l’art. 2597 c.c. che chi esercita un’impresa in condizioni di monopolio legale ha l’obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa osservando parità di trattamento{C}[68]{C}. Sottolinea altresì Alpa che nella Relazione al Re del Libro V del codice civile (n. 238), a proposito dell’art. 2597 c.c., che sancisce l’obbligo da parte di tutte le imprese che si trovino in condizioni di monopolio legale di contrattare con chiunque si afferma parità di trattamento, aggiungendosi che un tale principio si impone a difesa del consumatore come necessario temperamento della soppressione della concorrenza, tenuto conto che il regime di monopolio legale va estendendosi molto al di là di quei particolari settori (come i trasporti ferroviari) nei quali tradizionalmente si soleva considerare tale fenomeno. Secondo la Corte costituzionale tale norma va altresì interpretata alla luce dell'art. 41, co. 2, Cost., come disposizione intesa alla tutela del consumatore nei confronti dell'esercizio abusivo del proprio potere da parte del soggetto monopolista (sentenza n. 241 del 1990). Inoltre, secondo l’art. 8 della l. n. 287 del 1990, le norme a tutela della concorrenza non si applicano alle imprese che, per disposizioni di legge, esercitano la gestione di servizi di interesse economico generale, solo per quanto strettamente connesso all’adempimento degli specifici compiti loro affidati. Quindi, il fatto che l’impresa eserciti la gestione di servizi di interesse generale non basta ai fini dell'esenzione dall'osservanza delle leggi antitrust, e tale norma è stata interpretata dalla Cassazione con severità nei confronti delle imprese{C}[69]{C}. Coerentemente, l’art. 106 TFUE stabilisce che le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Tale norma è lo strumento principale attraverso il quale la Commissione europea, soprattutto negli anni 90, ha potuto progressivamente procedere allo smantellamento dei grandi monopoli pubblici statali presenti nel mercato unico{C}[70]{C}.
7. Liberalizzazioni, concorrenza e Corte costituzionale. -- La tutela della concorrenza ha un fondamento costituzionale nell’art. 41 unitariamente considerato{C}[71]{C}; l’introduzione della parola concorrenza dell’art. 117 Cost. ha riguardo solo al riparto delle competenze fra Stato e Regioni. La Corte costituzionale ha affermato che la disciplina delle liberalizzazioni rientra nella materia “concorrenza”, di competenza esclusiva statale (art. 117, co. 2, lett. e, Cost.), materia che coinvolge norme: 1) antitrust; 2) volte a liberalizzare (concorrenza nel mercato); 3) volte a disciplinare il procedimento di aggiudicazione degli appalti (concorrenza per il mercato). Ha affermato infatti ad esempio la sentenza n. 325 del 2010 che la «nozione comunitaria di concorrenza» si riflette su quella di cui all’art. 117, co. 2, lett. e), Cost., anche per il tramite del primo comma dello stesso art. 117 e dell’art. 11 Cost. Secondo tale nozione, la concorrenza presuppone «la più ampia apertura al mercato a tutti gli operatori economici del settore in ossequio ai principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi».
Il valore del principio della concorrenza è poi soprattutto presente nelle norme dell’Unione europea (che nella gerarchia delle fonti stilata dalla Corte costituzionale si collocano ad un livello superiore rispetto alla Costituzione), che considera il raggiungimento e il mantenimento di una situazione di concorrenza sui mercati un obiettivo prioritario (cfr. artt. 101, 102 e 106 del Trattato di Roma del 25 marzo 1957 sul funzionamento dell’Unione europea).
La sentenza n. 200 del 2012, nel confermare sostanzialmente la validità dell’impianto del D.L. n. 138 del 2011, ha affermato che “la liberalizzazione, intesa come razionalizzazione della regolazione, costituisce uno degli strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico. Una politica di “ri-regolazione” tende ad aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze. D’altra parte, l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale” ({C}[72]{C}). Quelli che la Corte costituzionale chiama “inutili oneri regolamentari” sono dunque quelle che, dal punto di vista degli economisti, abbiamo definito “barriere all’entrata sul mercato” (peraltro oramai questa espressione è da tempo utilizzata anche nel linguaggio giuridico: cfr. ad esempio Corte cost. n. 274 del 2012) e che invece, da un punto di vista della legge antitrust, possono tradursi – qualora la loro presenza impedisca il regolare dispiegarsi della concorrenza sull’intero territorio nazionale o in una sua parte significativa - in una posizione dominante (cfr. gli artt. 2, 3, e 6 della legge n. 287 del 1990, in tema rispettivamente di intese, abuso di posizione dominante e concentrazioni).
Sempre nella sentenza n. 200 del 2012, afferma ancora la Corte costituzionale che con la normativa censurata il legislatore ha inteso stabilire alcuni principi in materia economica orientati allo sviluppo della concorrenza, mantenendosi all’interno della cornice delineata dai principi costituzionali. Così, dopo l’affermazione di principio secondo cui in ambito economico «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», segue l’indicazione che il legislatore statale o regionale può e deve mantenere forme di regolazione dell’attività economica volte a garantire, tra l’altro – oltre che il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari e la piena osservanza dei principi costituzionali legati alla tutela della salute, dell’ambiente, del patrimonio culturale e della finanza pubblica – in particolare la tutela della sicurezza, della libertà, della dignità umana, a presidio dell’utilità sociale di ogni attività economica, come l’art. 41 Cost. richiede. La disposizione impugnata afferma il principio generale della liberalizzazione delle attività economiche, richiedendo che eventuali restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa economica debbano trovare puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale o negli ulteriori interessi che il legislatore statale ha elencato all’art. 3, co. 1. Complessivamente considerata, essa non rivela elementi di incoerenza con il quadro costituzionale, in quanto il principio della liberalizzazione prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell’attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall’altro, mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale[73]{C}. Infatti, per quanto l’autoqualificazione offerta dal legislatore non sia mai di per sé risolutiva in questo caso appare corretto inquadrare il principio della liberalizzazione delle attività economiche nell’ambito della competenza statale in tema di «tutela della concorrenza».
La sentenza si inserisce dunque in maniera perfettamente coerente nella lettura data dalla Corte costituzionale all’art. 41 Cost. e precedentemente illustrata: il bilanciamento di valori tra utilità sociale e iniziativa economica privata va effettuato solo nel caso in cui esistano effettivamente delle ragioni di utilità sociale (ossia come detto valori del rango di lavoro, salute, ambiente) che si contrappongano al diritto di iniziativa economica, perché altrimenti vale il principio secondo il quale quest’ultimo diritto non incontra limitazioni di sorta. Le liberalizzazioni pertanto, costituendo a pieno titolo uno strumento fondamentale per garantire l’effettivo svolgimento di questo diritto, non possono incontrare limiti diversi da quelli costituiti dall’utilità sociale. Quest’ultima, rappresentando gli interesse di una collettività che, direttamente o indirettamente possa essere danneggiata ingiustamente - ossia contra ius - dall’altrui iniziativa economica non può certo essere invocata da coloro che vogliano difendere una posizione dominante, di monopolio, di privilegio la quale, non essendo stata conquistata per meriti imprenditoriali, ma in virtù di “inutili oneri regolamentari” o di analoghe limitazioni del co. 1 dell’art. 41 Cost. per interessi che non hanno la dignità di valori costituzionalmente protetti, non potrà certo dirsi che sia eliminata “ingiustamente” dal legislatore{C}[74].
8. Conclusioni. -- Le liberalizzazioni, consistendo nell’abbattimento delle barriere di accesso al mercato da parte dei potenziali concorrenti, costituiscono una branca fondamentale della materia concorrenza e contribuiscono così in maniera rilevante all’aumento del benessere collettivo, permettendo dunque di utilizzare maggiori risorse per la tutela dei diritti fondamentali. Infatti per un verso queste risorse, nel periodo storico di forte crisi economica in cui versa il nostro Paese, si sono drasticamente ridotte; per altro verso proprio la giurisprudenza costituzionale sul nucleo irrinunciabile dei diritti fondamentali, nell’ammettere la possibilità di una loro compressione, suggerisce al contempo al legislatore che una loro eventuale protezione più ampia, non limitata cioè al solo nucleo essenziale, sarebbe assai apprezzata, e che per poter ampliare tale tutela è giocoforza doversi confrontare con le limitate risorse finanziarie dello Stato[75].
Una politica seria, rigorosa e coerente di liberalizzazioni, lungi dal porsi in contrasto con i diritti fondamentali, è in grado al contrario di favorire, valorizzare tali diritti. Ecco dunque che viene a sciogliersi quell’interrogativo che ci era posti nel paragrafo introduttivo: il perseguimento delle liberalizzazioni (ossia la possibilità di far esplicare a tutti la propria libertà di iniziativa economica) non va a scapito dell’utilità sociale (ossia dei diritti fondamentali della collettività) ma al contrario, come era nell’idea del Costituente, la rafforza, e quest’ultima fornisce nuovo vigore ad una politica di liberalizzazioni.
Gli ostacoli alle liberalizzazioni non consistono peraltro soltanto in interessi corporativi molto forti e che spesso trovano ascolto in Parlamento, ma anche (e forse soprattutto) nella politica legislativa in campo economico fin qui attuata dal dopo Costituzione in poi, ove l’art. 41 Cost. è stato troppo spesso – negligentemente (magari scambiandosi l’adempimento di un qualche inutile adempimento burocratico quale fondamentale ossequio ad un valore costituzionale) o volontariamente (magari con il pretesto che si trattava di norma meramente programmatica o di impossibile attuazione data la sua presunta genericità) - ignorato. E che non sarà facile porre rimedio ai guasti del passato lo dimostra, forse meglio di ogni altra affermazione, quanto sostenuto dalla Consulta con la già citata sentenza n. 200 del 2012, la quale da un lato ha affrontato la questione di legittimità costituzionale del co. 1 dell’art. 3 del d.l. n. 138 del 2011 – che sancisce, come ricordato, il principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge – e l’ha dichiarata non fondata perché tale principio è perfettamente coerente con l’art. 41 Cost. unitariamente considerato, ma dall’altro ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del successivo co. 3, il quale disponeva l’automatica «soppressione» di tutte le normative incompatibili con il principio della liberalizzazione delle attività economiche di cui al citato co. 1. La soppressione generalizzata delle normative statali in contrasto con il principio di cui sopra è apparsa infatti alla Consulta eccessivamente indeterminata, incompatibile con un principio così ampio e generale, risultando così tal soppressione irragionevole perché impraticabile in concreto, perché avrebbe posto l’interprete e gli operatori economici in una condizione di obiettiva incertezza, che anziché favorire la tutela della concorrenza, avrebbe finito per ostacolarla. Con il risultato che ad oggi – a fronte ad una affermazione di principio che è del tutto inutile perché meramente ripetitiva rispetto ad una corretta lettura dell’art. 41 Cost. – non vi sono stati, se non in minima parte, dei provvedimenti legislativi – che, come si è visto, non possono essere improvvisati e generici ma richiedono una delicata opera di bilanciamento e ponderazione e quindi uno studio caso per caso della compatibilità di ogni singola norma vigente con i principi di cui all’art. 41 Cost. - che abbiano contribuito a sfoltire le tanti leggi che oggi sono di ostacolo ad una piena ed effettiva attuazione dell’art. 41 Cost.
Un esempio della strettissimo legame tra liberalizzazioni e ambiente e della necessità di pervenire ad un contemperamento tra opposte esigenze è offerto dalla sentenza n. 267 del 2016 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’incostituzionalità di una norma regionale che imponeva alle imprese che volessero costruire ed esercitare un impianto di produzione di energia elettrica da fonte eolica un’autorizzazione regionale che si aggiungeva rispetto a quella statale (valutazione di impatto ambientale, cd. VIA). Secondo la Consulta, in un sistema informato al principio della libertà dell’iniziativa economica, i limiti consentiti dovrebbero essere funzionali alla tutela dell’utilità sociale e della libertà, sicurezza e dignità umana; in altri termini, i condizionamenti all’iniziativa economica dovrebbero essere articolati in modo da permettere il raggiungimento di finalità sociali e di benessere collettivo, dovendosi incoraggiare sia le esigenze di tutela ambientale che riguardano il reperimento di fonti energetiche alternative sia il coinvolgimento dell’iniziativa privata per la realizzazione di tale interesse di natura strategica. Le disposizioni legislative che determinano tale coinvolgimento (decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale) sono, infatti, il risultato di una scelta di politica programmatoria nella quale l’obiettivo di interesse generale, la realizzazione di impianti energetici alternativi, anziché essere affidato esclusivamente alla mano pubblica, viene ritenuto perseguibile attraverso l’iniziativa economica privata, quando non ostino altri interessi di carattere generale. L’attività di sfruttamento dell’energia eolica costituisce iniziativa economica comportante la destinazione di capitali privati ad un processo produttivo, il quale implica la creazione di risorse materiali di interesse pubblico strategico. Il fatto che lo scopo del privato sia diretto a fini lucrativi è aspetto che non può inficiare la rilevanza del citato profilo strategico. Pertanto, deve essere considerata costituzionalmente illegittima l’imposizione di condizionamenti e vincoli non collegati funzionalmente alla cura di interessi ambientali. Infatti, l’assenza di un nesso teleologico con la salvaguardia di detti interessi finisce per costituire una grave interferenza con l’iniziativa dell’imprenditore{C}[76]. Peraltro, la disciplina dello sfruttamento dell’energia eolica è caratterizzata da una valutazione frammentata e parcellizzata dei vari interessi pubblici, la quale si manifesta nell’espletamento di procedimenti minori, la cui definizione è tuttavia necessaria per ottenere l’autorizzazione unica finale. Questa soluzione adottata dal legislatore statale, se da un lato è giustificata dalla complessità e dalla dialettica degli interessi in gioco nel pur unitario scenario della tutela ambientale, dall’altro determina obiettivamente effetti dilatori sull’iniziativa di sfruttamento dell’energia eolica, favorendo indirettamente tipologie di impianti connotati da minori barriere amministrative. Tutto ciò pesa inevitabilmente sugli indirizzi imprenditoriali in ordine alla scelta delle singole fonti di energia rinnovabile, determinando una tendenziale preferenza per iniziative alla cui realizzazione si frappongono in misura minore ostacoli burocratici. Tale fenomeno di obiettiva penalizzazione normativa (sotto il profilo dei maggiori ma doverosi adempimenti istruttori) di questa fonte energetica, connotata da criticità soprattutto estetiche ma anche da aspetti evolutivi in termini di efficienza produttiva e di vantaggi per l’ambiente, non può essere accentuato da ulteriori incombenze amministrative che non siano giustificate dall’esigenza di coordinare e rendere compatibili e congruenti i subprocedimenti propedeutici al provvedimento finale di autorizzazione unica. Sotto tale profilo, dunque, la Corte costituzionale ha ritenuto la norma regionale impugnata in contrasto sia con l’art. 41 Cost. – in quanto frappone un ostacolo alla libera iniziativa privata nonostante sia “funzionalizzata” alla cura di interessi ambientali dalla specifica normativa statale – sia con l’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., in quanto invasiva della competenza statale in materia ambientale.
La Consulta afferma altresì che non possa richiamarsi nella fattispecie in esame la sua giurisprudenza secondo cui le Regioni hanno facoltà di adottare livelli di tutela ambientale più elevati rispetto a quelli previsti dalla legislazione statale{C}[77].
Fermo restando che la disciplina statale relativa alla tutela dell’ambiente «viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza» (sentenza n. 67 del 2010) e che «le Regioni stesse, purché restino nell’ambito dell’esercizio delle loro competenze, possono pervenire a livelli di tutela più elevati (sentenze n. 104 del 2008, n. 12, n. 30 e n. 61 del 2009), così incidendo, in modo indiretto sulla tutela dell’ambiente» (sentenza n. 225 del 2009), nel caso in esame risulta impossibile ipotizzare un miglioramento della tutela statale ad opera della norma regionale impugnata per l’obiettiva assenza di una scala di valori idonea a consentire una comparazione, in termini qualitativi e quantitativi, tra la protezione ambientale assicurata dallo Stato e quella aggiunta dalla Regione. È utile osservare come per lo sfruttamento dell’energia eolica la legge statale disciplini una sorta di “procedimento dei procedimenti”, determinando la forma, il tipo degli atti e la tempistica amministrativa che regolano l’autorizzazione e lo svolgimento dell’attività imprenditoriale coinvolta nella realizzazione delle finalità ambientali di settore. Quest’ultima rimane pur sempre attività economica, la cui rilevanza sociale ed ambientale non è compatibile con ulteriori vincoli imposti dal legislatore regionale al di fuori della competenza legislativa costituzionalmente assegnata. In tale prospettiva la norma regionale impugnata non costituisce livello di tutela ambientale superiore a quello fissato dallo Stato, bensì addizione normativa priva di coordinamento con le finalità in concreto perseguite dal legislatore statale. La dimensione dei valori e degli interessi che lo Stato ha assunto come primari nel disciplinare lo sfruttamento dell’energia eolica (tra i quali spiccano appunto la tutela dell’ambiente, del paesaggio e della salute ed il coinvolgimento dell’iniziativa economica privata) comporta infatti un elevato grado di complessità nella regolazione dei rapporti giuridici chiamati in causa dai procedimenti a carattere autorizzatorio. Tale complessità della scala di interessi rende la norma regionale impugnata davanti alla Consulta incostituzionale perché inevitabilmente perde l’orizzonte del complessivo e complesso assetto di interessi da bilanciare e contemperare. Ciò anche in considerazione del fatto che, nel caso dell’energia eolica, la tutela degli interessi ambientali non è una tutela meramente statica, ma si concreta in una serie di attività che devono essere compatibili con gli altri profili di garanzia interni alla stessa materia ambientale (tra cui, appunto, la tutela del paesaggio). In altre parole, nella tutela ambientale sono oggetto di dialettica e di bilanciamento legislativo vari interessi, per lo più interni alla materia. Detto carattere si riflette specularmente sulla forma di tutela parcellizzata introdotta dal legislatore statale per consentire in sede amministrativa un bilanciamento dei vari interessi coinvolti nello sfruttamento dell’energia eolica: ciò avviene attraverso l’incrocio di diverse tipologie di verifica, il cui coordinamento e la cui acquisizione sincronica, essendo necessari per l’autorizzazione unica finale, non tollerano ulteriori differenziazioni su base regionale.
Non è indifferente, nella scelta legislativa dello Stato di concentrare l’autorizzazione in un’unica disciplina procedimentale, il fatto che la dialettica degli interessi concretamente in gioco deve essere oggetto di bilanciamento, non solo in sede normativa, ma anche in quella amministrativa. È, infatti, necessario che i valori costituzionali in tensione siano ponderati nella misura strettamente necessaria ad evitare il completo sacrificio di uno di essi nell’ottica di un tendenziale principio di integrazione. Operazione quest’ultima che è stata realizzata dal legislatore statale attraverso una rete di subprocedimenti, dal cui esito positivo dipende appunto l’autorizzazione unica. Ulteriormente esemplificando, emerge come – a livello di legislazione statale – il bilanciamento sia intervenuto, attraverso distinti subprocedimenti, tra l’intrinseca utilità degli impianti eolici, che producono energia senza inquinare l’ambiente, ed il principio di precauzione attuato mediante la separata verifica che detti impianti non danneggino il paesaggio, in particolare sotto il profilo dell’impatto visivo.
In definitiva – in un sistema articolato su una ponderazione tra una tutela tendenzialmente statica come quella del paesaggio ed una dinamica consistente nella produzione energetica da parte di impianti eolici (i quali devono inserirsi nel modo meno invasivo in ambito paesaggistico) – il legislatore regionale aveva inserito una norma non coordinata, sotto il profilo logico e temporale, con l’esigenza di concentrare tempi e definitività degli accertamenti confluenti nell’autorizzazione finale. Il risultato di tale operazione, non conforme al dettato costituzionale, è stato quello – secondo la Consulta - di penalizzare, attraverso non ordinati “schermi burocratici”, quali il termine di efficacia dell’esclusione dalla procedura di VIA, le strategie industriali di settore, che non possono prescindere dal fattore tempo e dal grado di certezza degli esiti delle procedure amministrative. In conclusione, mentre la scelta legislativa dello Stato (di concentrare in una autorizzazione finale la tempistica e gli esiti delle procedure autorizzatorie in un settore di particolare complessità) supera il test di ragionevolezza in ordine alla congruità tra mezzi e fini – poiché risulta contemporaneamente idonea a sorreggere scelte strategiche in campo economico-ambientale ed a garantire le situazioni soggettive degli imprenditori di settore, sottraendole alla mutevole facoltà dell’amministrazione di parcellizzare e rendere incostanti le proprie determinazioni – la norma regionale impugnata è stata dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione sia della competenza legislativa esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., sia dell’art. 41 Cost.
La strada da percorrere verso un effettivo abbattimento di tutte le barriere all’accesso al mercato è dunque ancora lunga, e forse è soltanto iniziata; non può però negarsi che si assiste oggi da un lato ad una valorizzazione del comma 1 dell’art. 41 Cost. per quanto riguarda la necessità di effettuare le liberalizzazioni e di sciogliere le imprese dai lacci burocratici e amministrativi, lacci che il più delle volte nulla hanno a che fare con i valori tutelati dagli artt. 9, comma 2 e 41 comma 2, e dall’altro, e non contraddittoriamente, ad una esaltazione anche del co. 2 dell’art. 41 Cost., in qualità di concetto valvola in grado di dare voce ai diritti fondamentali che si contrappongono all’iniziativa economica privata. In effetti, una politica seria, rigorosa e coerente di liberalizzazioni, lungi dal porsi in contrasto con l’ambiente o dal doversi intendere come mera deregulation, ossia come semplice abolizione di regole, è in grado al contrario di favorire e valorizzare sia la concorrenza che i diritti fondamentali.
Ma soprattutto quello che oggi più viene valorizzato è l’esigenza che queste diverse istanze debbano trovare una loro composizione equilibrata, un armonico contemperamento, allo scopo di porre in essere un bilanciamento ragionevole e solidale fra i vari interessi in gioco, in coerenza con quell’economia sociale di mercato individuata dall’art. 3, co. 3, del Trattato sull’Unione europea del 7 febbraio 1992 (secondo cui l'Unione europea si basa “su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva”)[78], con il vincolo dell’intangibilità del nucleo essenziale dei diritti fondamentali, sempre più minacciati dalla ormai endemica carenza di risorse che possono essere destinate alla tutela di valori quali l’ambiente e la salute, sintetizzati nella formula “utilità sociale”.
Maria Francesca Russo
[1]{C} Cfr. però le sentenze n. 210 del 2016 e 207 del 2002 della Corte costituzionale secondo cui l’ambiente non può identificarsi con una materia in senso stretto, dovendosi piuttosto intendere come un valore costituzionalmente protetto.
[2]{C} Non può poi non citarsi la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (c.d. CEDU che, pur essendo subordinata alla Costituzione, ha comunque un valore superiore rispetto agli atti avente forza di legge: cfr. Corte Cost. nn. 348 e 349 del 2007), il cui art. 16 stabilisce che “è riconosciuta la libertà d'impresa, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”: nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo quest’ultimo inciso determina la possibilità di una severa e significativa limitazione della libertà d’impresa in nome di una migliore protezione dei diritti fondamentali dell’uomo. Così, ad esempio, riguardo alle incapacità personali connesse allo stato di fallito, con specifico riferimento agli artt. 50 e 143 della legge fallimentare all’epoca vigente, la Corte di Strasburgo (sentenza 23 marzo 2006, Vitiello c. Italia, ric. n. 77962/01), ha ritenuto le disposizioni della legge fallimentare lesive dei diritti della persona, perché incidenti sulla possibilità di sviluppare le relazioni col mondo esteriore e foriere, quindi, di un'ingerenza «non necessaria in una società democratica». La Corte di Strasburgo ha affermato, in particolare, che «a causa della natura automatica dell'iscrizione del nome del fallito nel registro e dell'assenza di una valutazione e di un controllo giurisdizionali sull'applicazione delle incapacità discendenti dalla suddetta iscrizione e del lasso di tempo previsto per ottenere la riabilitazione, l'ingerenza prevista dall’art. 50 L.F. nel diritto al rispetto della vita privata dei ricorrenti non è necessaria in una società democratica, ai sensi dell'art. 8, § 2, della Convenzione». Cfr. Delli Priscoli, La rilevanza dello status nella protezione dei soggetti deboli nel quadro dei principi europei di rango costituzionale, in Riv. dir. comm., 2012, 322.
[3]{C} Cfr. in questo senso Luciani, La produzione economica privata nel sistema costituzionale, Padova, 1983, 582.
[4]{C} Cfr. Cheli, Libertà e limiti dell’iniziativa economica privata, in Rass. dir. pubbl., 1960, I, 300, che definisce la norma “indeterminata nel suo nucleo politico centrale” e “anfibologica”, suscettibile cioè di essere sviluppata in opposte direzioni.
[5] Cfr. Einaudi e il suo intervento nella seduta del 13 maggio 1947, in A.C., II, 39337-38. Egli affermava che le libertà civili e le libertà economiche sono reciprocamente dipendenti: ciascuna forma di libertà emerge solo in presenza delle altre e che una eccessiva compressione delle libertà economiche avrebbe inevitabilmente compromesso le altre.
[6]{C} Non sono peraltro mancate le critiche – più che condivisibili – al tentativo di modifica della Costituzione, in quanto già l’attuale testo costituzionale permette una piena esplicazione della libertà d’impresa, con il solo limite del rispetto dei valori di rango costituzionale. Cfr. ad esempio Libertini, I fini sociali come limite eccezionale alla tutela della concorrenza: il caso del «Decreto Alitalia», in Giur. cost., 2010, 3296, il quale parla esplicitamente di “superficialità dell’effimero dibattito” che si era aperto di recente.
[7]{C} Cfr. l’art. 1 del D.L. n. 1del 2012, conv. in legge n. 27 del 2012: il cui art. 1 (Liberalizzazione delle attività economiche e riduzione degli oneri amministrativi sulle imprese) afferma che “… in attuazione del principio di libertà di iniziativa economica sancito dall'art. 41 Cost. e del principio di concorrenza sancito dal Trattato dell'Unione europea, sono abrogate….: a) le norme che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi atti di assenso dell'amministrazione comunque denominati per l'avvio di un'attività economica non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l'ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità; [omissis] 2. Le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all'accesso ed all'esercizio delle attività economiche sono in ogni caso interpretate ed applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale, alla stregua dei principi costituzionali per i quali l'iniziativa economica privata è libera secondo condizioni di piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti, presenti e futuri, ed ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all'ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l'utilità sociale, con l'ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica. L’art. 3 del D.L. n. 138 del 2011 conv. in legge n. 148 del 2011 (Abrogazione delle indebite restrizioni all'accesso e all'esercizio delle professioni e delle attività economiche ) – norma che ricorda l’art.4 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, secondo cui “La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri” – afferma che 1. Comuni, Province, Regioni e Stato, entro il 30 settembre 2012, adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge nei soli casi di: a) vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali; b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione; c) danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e contrasto con l'utilità sociale; d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; e) disposizioni relative alle attività di raccolta di giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti sulla finanza pubblica.
[8]{C} Cfr. ad es. Cass. S.U. 20 giugno 2012 n. 10130, che a proposito dell’indennità di espropriazione richiama la sentenza n. 348 del 2007 e conseguentemente il «ragionevole legame» con il valore di mercato; Cass. 1° giugno 2012 n. 8834, che a proposito del contratto di autotrasporto di cose e del relativo sistema di tabelle tariffarie (c.d. "a forcella", ossia con limiti massimi e minimi), richiama la sentenza n. 386 del 1996). Deve però citarsi Cass. 3 giugno 2011 n. 12131, secondo cui in tema di collocamento obbligatorio di centralinisti telefonici non vedenti della Regione Sicilia e con riferimento al rifiuto di assunzione da parte del datore di lavoro, afferma che il rapporto tra l'art. 10 della legge Regione Sicilia n. 12 del 1991 e la legge statale n. 68 del 1999, deve essere risolto alla luce del principio di cedevolezza delle disposizioni regionali che non siano compatibili con i principi ed interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato contenuti nella legislazione statale sopravvenuta, improntata ad una serie di controlli, pienamente compatibili con l'art. 41, co. 2, Cost., posto che si coniugano con l'utilità sociale, come rettamente intesa dal legislatore costituzionale, attento ai valori della libertà, anche dal bisogno, e della dignità umana dei concittadini, nella specie, non vedenti. La Cassazione qui propone un criterio di lettura del rapporto tra norme di principio dello Stato e norme di dettaglio della Regione di cui all’art. 117, co. 3, Cost. (tutela e sicurezza del lavoro) ispirato dalla ricerca della normativa più rispondente a valori costituzionali quali l’utilità sociale.
[9]{C} Sentenze n. 9 del 2008, n. 196 del 2004, secondo cui il bilanciamento che nel caso di specie verrebbe in considerazione è quello tra i valori tutelati in base all'art. 9 Cost. e le esigenze di finanza pubblica; in realtà, la Corte, nella sua copiosa giurisprudenza in tema di condono edilizio, ha più volte riconosciuto - in particolare nella sentenza n. 85 del 1998 - come in un settore del genere vengano in rilievo una pluralità di interessi pubblici, che devono necessariamente trovare un punto di equilibrio, poiché il fine di questa legislazione è quello di realizzare un contemperamento dei valori in gioco: quelli del paesaggio, della cultura, della salute, della conformità dell'iniziativa economica privata all’utilità sociale, della funzione sociale della proprietà da una parte, e quelli, pure di fondamentale rilevanza sul piano della dignità umana, dell'abitazione e del lavoro, dall'altra.
[10]{C} Cfr. sentenze n. 190 del 2001 e 196 del 1998, secondo cui al limite della utilità sociale, a cui soggiace l'iniziativa economica privata in forza dell'art. 41 Cost., non possono dirsi estranei gli interventi legislativi che risultino non irragionevolmente intesi alla tutela dell'ambiente. Ebbene, la disposizione censurata, contrariamente a quanto ritenuto dal remittente, lungi dal sopprimere la libertà di iniziativa economica in relazione all'attività di acquacoltura, si limita a regolarne l'esercizio, ponendo condizioni che, finalizzate come sono alla tutela dell'ambiente, non appaiono irragionevoli.
[11]{C} Sentenza n. 247 del 2010.
[12]{C} Sentenza 200 del 2010 (oneri amministrativi per il fascicolo del fabbricato per ragioni di utilità sociale); sentenza 167 del 2009 (bilanciamento tra diritto di proprietà e l’utilità sociale correlata alla libera raccolta dei tartufi); sentenza n. 167 del 1999 (servitù coattiva a favore di disabili e diritto di proprietà).
[13]{C} Secondo la sentenza n. 200 del 2012 una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale.
[14]{C} Il diritto allo studio comporta non solo il diritto di tutti di accedere gratuitamente alla istruzione inferiore, ma altresì quello - in un sistema in cui “la scuola è aperta a tutti” (art. 34, co. 1, Cost.) - di accedere, in base alle proprie capacità e ai propri meriti, ai “gradi più alti degli studi” (art. 34, co. 3): espressione, quest'ultima, in cui deve ritenersi incluso ogni livello e ogni ambito di formazione previsti dall'ordinamento. Il legislatore, se può regolare l'accesso agli studi, anche orientandolo e variamente incentivandolo o limitandolo in relazione a requisiti di capacità e di merito, sempre in condizioni di eguaglianza, e anche in vista di obiettivi di utilità sociale, non può, invece, puramente e semplicemente impedire tale accesso sulla base di situazioni degli aspiranti che - come il possesso di precedenti titoli di studio o professionali - non siano in alcun modo riconducibili a requisiti negativi di capacità o di merito. A tale diritto si ricollega altresì quello di aspirare a svolgere, sulla base del possesso di requisiti di idoneità, qualsiasi lavoro o professione, in un sistema che non solo assicuri la “tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35, co. 1, Cost.), ma consenta a tutti i cittadini di svolgere, appunto “secondo le proprie possibilità e la propria scelta”, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società (art. 4, co. 2, Cost.): ciò che a sua volta comporta, quando l'accesso alla professione sia condizionato al superamento di un curriculum formativo, il diritto di accedere a quest'ultimo in condizioni di eguaglianza. Il diritto di studiare, nelle strutture a ciò deputate, al fine di acquisire o di arricchire competenze anche in funzione di una mobilità sociale e professionale, è d'altra parte strumento essenziale perché sia assicurata a ciascuno, in una società aperta, la possibilità di sviluppare la propria personalità, secondo i principi espressi negli artt. 2, 3 e 4 Cost.
[15] Sentenza n. 223 del 2012: la Costituzione non impone affatto una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria; ma esige invece un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 Cost.). Pertanto, il controllo della Corte in ordine alla lesione dei principi di cui all’art. 53 Cost., come specificazione del fondamentale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., consiste in un «giudizio sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione» (sentenza n. 111 del 1997). L’eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare è, infatti, suscettibile senza dubbio di consentire al legislatore anche il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano. Tuttavia, è compito dello Stato garantire, anche in queste condizioni, il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il quale, certo, non è indifferente alla realtà economica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non può consentire deroghe al principio di uguaglianza, sul quale è fondato l’ordinamento costituzionale.
[16]{C} Cfr. sentenza n. 307 del 1990: la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost. se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri
[17]{C} Cfr., tra le altre, Cass., 3 febbraio 1998, n. 1087; ma, analogamente, per l'affermazione che l'art. 18 cit. non ha introdotto nel nostro ordinamento una nozione di danno ambientale, Cass., 10 ottobre 2008, n. 25010 e Cass., 7 marzo 2013, n. 5705.
[18] Cass., 19 febbraio 2016, n. 3259, relativa ad una fattispecie in tema di inquinamento.
[19]{C} Cfr. Cass. 13 agosto 2015, n. 16806, secondo cui ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge n. 97 del 2013, anche se riferiti a fatti anteriori alla data di applicabilità della direttiva comunitaria recepita da tale legge, è applicabile l'art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo modificato, da ultimo, dall'art. 25 della legge n. 97 cit., ai sensi del quale resta esclusa la risarcibilità per equivalente, dovendo ora il giudice individuare le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa ivi prescritte e, per il caso di loro omessa o incompleta esecuzione, determinarne il costo, in quanto solo quest'ultimo (ovvero il suo rimborso) potrà essere oggetto di condanna nei confronti dei danneggianti. Ne consegue che non residua alcun danno ambientale risarcibile ogniqualvolta, avutasi la riduzione al pristino stato, non persista la necessità di ulteriori misure sul territorio, da verificarsi alla stregua della nuova normativa.
[20]{C} Sez. 3, Sentenza n. 9012 del 06/05/2015 (Rv. 635218 - 01)
Cfr. Cass., 6 maggio 2015, n. 9012, che ha affermato che la regola di cui all'art. 311, comma 3, penultimo periodo, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, nel testo modificato, da ultimo, dall'art. 25 della legge 6 agosto 2013, n. 97 - per la quale "nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale" - mira ad evitare la responsabilità anche per fatti altrui, sicché opera nei casi di plurime condotte indipendenti e non anche in quelli di azioni od omissioni concorrenti in senso stretto alla concretizzazione di un'unitaria condotta di danneggiamento dell'ambiente, che restino tutte tra loro avvinte quali indispensabili antefatti causali di questa. Ne consegue che, in tale ultima ipotesi, non soffre limitazione la regola di cui all'art. 2055 cod. civ. in tema di responsabilità di ciascun coautore della condotta per l'intero evento causato.
[21]{C} Cass., 28 luglio 2015, n. 15853, secondo cui, in tema di immissione di onde elettromagnetiche, il principio di precauzione - sancito dall'ordinamento comunitario come cardine della politica ambientale - è assicurato dallo stesso legislatore statale attraverso la disciplina contenuta nella legge 22 febbraio 2001, n. 36, e nel DPCM 8 luglio 2003, che ha fissato i parametri relativi ai limiti di esposizione, ai valori di attenzione e agli obiettivi di qualità, i quali non sono modificabili, neppure in senso restrittivo, dalla normativa delle singole Regioni (Corte cost., sentenza n. 307 del 2003), ed il cui mancato superamento osta alla possibilità di avvalersi della tutela giudiziaria preventiva del diritto alla salute, che è ipotizzabile solo in caso di accertata sussistenza del pericolo della sua compromissione, da ritenersi presuntivamente esclusa quando siano stati rispettati i limiti posti dalla disciplina di settore.
[22]{C} Cfr. l’art. 2 del Trattato sull’Unione europea del 7 febbraio 1992, secondo cui l'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.
Cfr. anche Cons. Stato, Ad. Plen. n. 3 del 2011, secondo cui nel tempo si è dilatato, in sede interpretativa, la portata ed i confini dell'impegno cooperativo gravante sul creditore vittima di un altrui comportamento illecito. Risulta così superato il tradizionale indirizzo restrittivo secondo il quale il canone della "diligenza" di cui all'art. 1227, co. 2, imporrebbe il mero obbligo (negativo) del creditore di astenersi da comportamenti volti ad aggravare il danno, mentre esulerebbe dallo spettro degli sforzi esigibili la tenuta di condotte di tipo positivo sostanziantisi in un facere. La giurisprudenza più recente ha, infatti, adottato un'interpretazione estensiva ed evolutiva del co. 2 dell'art. 1227, secondo cui il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo (astenersi dall'aggravare il danno), ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno). Tale orientamento si fonda su una lettura dell'art. 1227, co. 2, alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà sociale sancito dall'art. 2 Cost. Detto approccio ermeneutico è, quindi, ispirato da una lettura della struttura del rapporto obbligatorio in forza della quale, anche nella fase patologica dell'inadempimento, il creditore, ancorché vittima dell'illecito, è tenuto ad una condotta positiva tesa ad evitare o a ridurre il danno.
Un limite all'obbligazione cooperativa e mitigatrice del creditore e agli sforzi in capo allo stesso esigibili è, peraltro, rappresentato dalla soglia del c.d. apprezzabile sacrificio: secondo la celebre Cass. S.U. 11 novembre 2008 n. 26972 in tema di danno esistenziale “Il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile - sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. - anche quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a condizione: (a) che l'interesse leso abbia rilevanza costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via interpretativa dell'art. 2059 c.c., giacché qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile); (b) che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all'art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza)”: Nello stesso senso Cass., sez. un., 25 febbraio 2016, n. 3727, che ha riconosciuto la non risarcibilità dei danni non patrimoniali derivanti da reato, valendosi dell’argomentazione secondo la quale non v'è diritto per il quale non operi la regola del bilanciamento con il principio di solidarietà, con la conseguenza che, perché si abbia una lesione ingiustificabile e risarcibile dello stesso, non basta la mera violazione delle disposizioni che lo riconoscono, ma è necessaria una violazione che ne offenda in modo sensibile la portata effettiva.
{C}[23]{C} Cfr. Corte cost. n. 40 del 1964, secondo cui esiste una regola costituzionale comune a tutta una materia ordinata nella Carta fondamentale in sistema unitario, per quanto distribuita in più articoli, come è appunto il caso per la regola della riserva di legge nel campo delle private libertà nella materia economica, comprensive della libertà di iniziativa e di quella di disporre e godere della proprietà. Tali libertà sono infatti disciplinate negli artt. 41-44 Cost. secondo una chiara ispirazione unitaria, della quale la regola della riserva di legge, pur senza che si possa negare una certa sua varia modulazione, rappresenta sicuramente una costante.
{C}[24]{C} Oppo sottolinea lo stretto collegamento tra il dovere di solidarietà imposto dall'art. 2 Cost. e il canone dell' utilità sociale. «Al precetto dell'art. 2 Cost. in particolare nella specificazione solidarietà economica e solidarietà sociale possono riportarsi gli imperativi e del co. 2 e 3 dell'art. 41 Cost.: non solo quelli che si richiamano all' utilità sociale e ai fini sociali ma quelli che vogliono il rispetto della sicurezza, libertà e dignità umana e che sono stati considerati espressivi anche dell'ordine pubblico economico» (Oppo, Diritto dell'impresa e morale sociale, in Oppo, Scritti giuridici, I, Padova, 1991, 260, ripreso da Olivieri, Iniziativa economica e mercato nel pensiero di Giorgio Oppo, 2012, 509).
[25] Di “ragionevole e proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi di rango costituzionale” parlano ad esempio Corte cost. n. 172 del 2012 e n. 245 del 2011.
[26]{C} Cfr. sentenza n. 270 del 2010: la necessità che le misure in tema di concorrenza siano ragionevoli e non realizzino una ingiustificata disparità di trattamento rende chiara la correlazione, ancora una volta, tra gli artt. 3 e 41 Cost.
[27]{C} In tema di vaccinazioni obbligatorie o raccomandate, e di diritto all’indennizzo per danni alla salute a seguito del trattamento praticato, la Corte ha avuto modo di affermare, sin dalla sentenza n. 307 del 1990 − pronunciata in materia di vaccinazione antipoliomielitica per i bambini entro il primo anno di vita, all’epoca prevista come obbligatoria − che «la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost. se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale». Ma se «il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività» − si soggiunse − esige che, «in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico», tuttavia esso «non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri». Ne deriva che «un corretto bilanciamento fra le due suindicate dimensioni del valore della salute − e lo stesso spirito di solidarietà (da ritenere ovviamente reciproca) fra individuo e collettività che sta a base dell’imposizione del trattamento sanitario − implica il riconoscimento, per il caso che il rischio si avveri, di una protezione ulteriore a favore del soggetto passivo del trattamento. In particolare finirebbe con l’essere sacrificato il contenuto minimale proprio del diritto alla salute a lui garantito, se non gli fosse comunque assicurato, a carico della collettività, e per essa dello Stato che dispone il trattamento obbligatorio, il rimedio di un equo ristoro del danno patito».
[28]{C} In effetti, a costo di voler sembrare troppo schematici, rozzi e semplicisti, di attirarsi più di una critica e di fare qualche forzatura (in particolare quanto alla necessità di distinguere tra fonti nazionali e quelle dell’Unione europea in termini non di gerarchia ma di rispettive sfere di competenza: cfr. Cass., S.U. 20 giugno 2012 n. 10130, secondo cui la disposizione di cui all'art. 80 l. n. 219 del 1981, nella parte in cui richiama l'art. 13 della legge n. 2892 del 1885, non può essere disapplicata per contrasto con l'art. 17, par. 1, della Carta di Nizza del 7 dicembre 2000, adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2000, che prevede il diritto alla percezione di una "giusta indennità" da parte del soggetto privato della proprietà per "causa di pubblico interesse", poiché l'applicabilità diretta di detto atto è praticabile solo quando la fattispecie sia disciplinata dal diritto europeo ed attenga a materia di interesse comunitario, secondo l’insegnamento di Corte cost. n. 303 e 80 del 2011), può riassuntivamente affermarsi che allo stato, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, nel nostro ordinamento esisterebbe teoricamente una gerarchia delle fonti per cui al primo posto troviamo i diritti fondamentali (sentenza n. 170 del 1984), al secondo le norme dell’Unione europea, al terzo le norme della Costituzione che non rivestono il rango di di diritti fondamentali, al quarto le norme della CEDU (sentenze nn. 348 e 349 del 2007) e al quinto gli atti aventi forza di legge (leggi, decreti legge, decreti legislativi).
[29]{C} Il riferimento è a quanto detto in precedenza, ossia che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con «l’utilità sociale» ed in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana, e prevedendo che l’attività economica pubblica e privata può essere indirizzata e coordinata a «fini sociali», consente una regolazione strumentale a garantire la tutela anche di interessi diversi rispetto a quelli correlati all’assetto concorrenziale del mercato garantito
[30]{C} Cfr. in questo senso Lipari, Persona e mercato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 766, secondo cui la sensibilità dei giuristi ha a lungo collocato il terreno dei diritti fondamentali e quello dello scambio mercantile su piani del tutto paralleli.
[31]{C} Sull’irragionevolezza delle norme che impongono gerarchie interpretative cfr. Calvo, L’equità nel diritto privato, Milano, 2010, 16.
[32]{C} Così Del Prato, Ragionevolezza e bilanciamento, in Riv. dir. civ., 2010, I, 29. Occorre ancora una volta ricordare che la libertà d’iniziativa economica privata, riconosciuta dal co. 1 dell’art. 41 Cost., è da una parte bilanciata dal limite dell’utilità sociale e dal rispetto della sicurezza, libertà, dignità umana (art. 41, co. 2, Cost.), d’altra parte è indirizzata e coordinata a fini sociali che legittimano la previsione ad opera del legislatore ordinario di programmi e controlli (art. 41, co. 3, Cost.). Essa poi può talora essere del tutto compressa nel caso in cui – avendo ad oggetto servizi pubblici essenziali o fonti di energia o situazioni di monopolio e rivestendo preminente interesse nazionale – il legislatore ordinario ne riservi originariamente a sé ne trasferisca l’esercizio. Pertanto, i due estremi costituiti dal pieno ed assoluto riconoscimento della libertà d’iniziativa economica privata e, all’opposto, dalla riserva di esercitare determinate imprese, si collocano vari possibili modelli connotati da un più o meno intenso intervento pubblico nell’economia. La concreta misura di tale intervento, che va a comprimere l’iniziativa economica privata, è demandata al legislatore ordinario, spettando alla Corte costituzionale solo l’identificazione del fine sociale e della riferibilità ad esso di limitazioni, programmi e controlli. Tale valutazione di riferibilità dà luogo ad un giudizio di ragionevolezza della limitazione della libertà d’iniziativa economica privata per il raggiungimento del fine medesimo, anche se non può esorbitare nel merito del provvedimento legislativo (sentenza n. 446 del 1988).
[33]{C} Rodotà, Il tempo delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1987, 718, secondo cui la presenza di clausole generali è tanto più necessaria quanto più appare evidente la complessità delle nostre società, le fratture che le attraversano. In una società articolata, “di minoranze”, è necessario creare spazi di convivenza, legittimare valori diversi attraverso la creazione di strumenti che ne rendano possibile l’autonomia e la compatibilità. Non è forse questo il modo di operare della clausola di buona fede quando determina il concreto regolamento contrattuale in base alla specifica collocazione sociale dei contraenti?
[34]{C} Cfr. in questo senso Rordorf, Giudici per il mercato o mercato senza giudici?, in Società, 2000, 154.
[35] La giurisprudenza costituzionale costante è nel senso che l’art. 38 Cost. non esclude la possibilità di un intervento legislativo che, per una inderogabile esigenza di contenimento della spesa pubblica, riduca un trattamento previdenziale prima spettante in base alla legge (sentenze n. 316 del 2010 e n. 361 del 1996), fermo il controllo di ragionevolezza sulle singole norme riduttive. Si deve escludere, viceversa, che possa essere la stessa Corte costituzionale a statuire siffatte riduzioni di spesa per l’attuazione di diritti ex art. 38 Cost., in nome di un generico principio di solidarietà sociale, superando e addirittura ponendosi in contrasto con le determinazioni del legislatore. Solo a quest’ultimo spettano le valutazioni di politica economica attinenti alle risorse disponibili nei diversi momenti storici, mentre è compito di questa Corte vigilare sul rispetto del nucleo essenziale dei diritti fondamentali, in ipotesi incisi da interventi riduttivi dello stesso legislatore.
[36] La stessa Carta di Nizza all’art. 52 stabilisce che eventuali limitazioni dei diritti e delle libertà fondamentali possono giustificarsi solo se rispettose del contenuto essenziale di detti diritti e libertà e solo se necessarie e rispondenti a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui.
[37] Corte cost., sentenze nn. 432 del 2005 e 252 del 2001. Analogamente, ha affermato la Suprema Corte (S.U. 1° agosto 2006 n. 17461) che in relazione al bene-salute è individuabile un nucleo essenziale, in ordine al quale si sostanzia un diritto soggettivo assoluto e primario, volto a garantire le condizioni di integrità psico-fisica delle persone bisognose di cura allorquando ricorrano condizioni di indispensabilità, di gravità e di urgenza non altrimenti sopperibili, a fronte delle quali è configurabile esclusivamente un potere accertativo della pubblica amministrazione in punto di apprezzamento della sola ricorrenza di dette condizioni.
[38]{C} Cfr. ad esempio la sentenza n. 50 del 1957, secondo cui “l'art. 41 contiene una generica dichiarazione della libertà nella iniziativa economica privata; ma a tale libertà necessariamente corrispondono le limitazioni rese indispensabili dalle superiori esigenze della comunità statale”.
{C}[39]{C} E’ frequente invece l’affermazione (cfr. da ultimo Cifarelli, Il servizio farmaceutico italiano di nuovo al vaglio della Corte di Giustizia, in Giur. merito, 2012, 1694) che solo secondo una erronea vulgata, il carattere compromissorio della nostra Carta avrebbe reso le norme costituzionali in materia di economia superate, oppure rese inapplicabili e sostituite dalle nuove regole economiche derivanti dall'ordinamento comunitario. Tale tesi interpretativa si baserebbe su un errore di fondo, poiché non terrebbe conto dei diversi piani su cui agiscono i trattati comunitari e la nostra Costituzione. L'art. 41, infatti, pur non essendo tra «i più perspicui» (Giannini, Diritto pubblico dell'economia, Bologna, 1992, 175) della nostra Carta, «fonda una situazione soggettiva di libertà individuale. Il diritto comunitario esprime invece prevalentemente un modello di relazioni economiche e giuridiche. La prima garantisce tutela al diritto di impresa, ma non si impegna nella scelta del sistema che sarebbe stata necessario per porre liberalizzazione e mercato alla base delle relazioni di tipo economico. La seconda pone invece l'apertura del mercato e la libera competizione come premessa per il loro svolgimento» (
Cintioli, Concorrenza, istituzioni e servizio pubblico, Milano, 2010, 10). Io personalmente non condivido la tesi della non interferenza tra il diritto dell’Unione europea e l’art. 41 Cost.: lo dimostra ad es. la sentenza n. 270 del 2010 che ha ammesso di aver sacrificato un valore dell’Unione europea, quello della concorrenza, in nome dell’utilità sociale del diritto al lavoro.
[40]{C} La distonia tra l’art. 41 Cost. e i principi di libero mercato fondanti l’Ue è apparentemente evidente: pensiamo alle quattro libertà fondamentali espresse nel Trattato e pensiamo all’innumerevole giurisprudenza comunitaria che ha applicato ed interpretato questi principi secondo una visione liberale dell’economia di mercato. E tuttavia in nome dell’art. 41 sono state attuate leggi profondamente diverse tra di loro: così come è stata approvata una legge di “programmazione economica” negli anni ’60. Si tratta della legge n. 685 del 1967, contenente il piano economico quinquennale 1966-1970 con cui si intendeva determinare il quadro della politica economica, finanziaria e sociale del Governo e di tutti gli investimenti pubblici, unanimemente qualificata, in assenza in essa di qualunque contenuto precettivo, “libro dei sogni”: così Niro, Commento all’art. 41 Cost., in Commentario alla Costituzione a cura di Bifulco, Celotto, Olivetti, Torino, 2006, 850), notiamo che 30 anni dopo è stata emanata una legge antitrust (legge n. 287 del 1990, il cui l’art. 1 afferma esplicitamente di costituire attuazione dell’art. 41 Cost.).
{C}[41]{C} La non definizione da parte dei padri costituenti di un programma definito di politica economica è testimoniata dal fatto che l'art. 41, nel quale si viene definendo un equilibrio tra logiche di mercato, intervento pubblico e Stato sociale (
Salvi, La proprietà privata e l'Europa. Diritto di libertà o funzione sociale?, in Pinelli, Treu, (a cura di), La costituzione economica: Italia, Europa, Bologna, 2010, 245) non ha ostacolato «scelte innovative nel campo dell'economia, né nel senso di un maggior interventismo pubblico, né nel senso opposto di una sua riduzione, quando e nei settori in cui è stata o è ritenuta necessaria, della presenza dei poteri pubblici» (
Onida, La Costituzione, Bologna, 2007, 84). In sostanza, la nostra Costituzione, anche grazie alle spinte derivanti dall'ordinamento comunitario, si è dimostrata negli anni un «contenitore adatto per la stessa cultura del mercato, capace oggi di entrarvi e di dare alle sue norme significati sicuramente diversi da quelli a cui pensarono i suoi autori» (
Amato, Il mercato nella Costituzione, in Quad. cost., 1992, 17).
[42]{C} Nell’uso corrente “diritti umani”, “diritti inviolabili” e “diritti fondamentali” sono termini utilizzati in modo promiscuo ed equivalente, e, in prima approssimazione, stanno ad indicare diritti che dovrebbero essere riconosciuti ad ogni individuo in quanto tale (l’art. 2 Cost. attribuisce infatti i diritti inviolabili all’uomo e non al cittadino). Il riconoscimento dei diritti inviolabili è uno degli elementi caratterizzanti lo Stato di diritto; essi trovano la loro tutela nella “rigidità” della Costituzione e nel controllo di costituzionalità delle leggi affidato alla Corte costituzionale; inoltre anche tali diritti hanno bisogno di un passaggio “positivistico” in quanto non sono il frutto di giusnaturalistiche deduzioni razionali e quindi non sono fissati per sempre una volta per tutte. In questo senso, fra gli altri, Scalisi, Ermeneutica dei diritti fondamentali e principio “personalista” in Italia e nell’Unione europea, in Riv. dir. civ., 2010, I, 146; Oppo, Sintesi di un percorso (incompiuto) del diritto italiano, in Riv. dir. civ., 2008, 3.
[43]{C} In questo senso Prosperi, I diritti fondamentali nel sistema integrato di protezione europeo, Contr. impr., 2012, 1002; Busnelli, La persona alla ricerca dell’identità, Riv. crit. dir. priv., 2010, 7; Lipari, (nt. 55), 758; Resta, La dignità, in Zatti, Rodotà, Trattato di biodiritto, I, Ambito e fonti del biodiritto, Milano, 2010, 259.
[44]{C} Rodotà, Antropologia dell’homo dignus, Lezione tenuta nell’Aula Magna dell’Università di Macerata il 6 ottobre
[45]{C} Così ad esempio, con la sentenza n. 291 del 2010, la Corte costituzionale ha dichiarato che sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 58-quater, co. 7-bis, legge n. 354 del 1975, introdotto dall'art. 7, co. 7, della legge n. 251 del 2005, impugnato, in riferimento agli artt. 3 e 27, co. 3. Cost., nella parte in cui esclude che la misura dell'affidamento in prova al servizio sociale possa essere disposta per più di una volta in favore del condannato nei cui confronti sia stata applicata la recidiva di cui all'art. 99, co. 4, c.p. per non avere il rimettente preso in considerazione la possibilità di dare alla disposizione censurata un'interpretazione adeguatrice, nel senso che l'esclusione dal beneficio operi in modo assoluto solo quando il reato espressivo della recidiva reiterata sia stato commesso dopo la sperimentazione della misura alternativa, avvenuta in sede di esecuzione di una pena, a sua volta irrogata con applicazione della medesima aggravante.
({C}[46]{C}) Con la sentenza n. 172 del 2012 la Corte ha affermato che la regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata al bilanciamento di molteplici interessi pubblici, che spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia un’ampia discrezionalità. Il legislatore può, pertanto, subordinare la regolarizzazione del rapporto di lavoro al fatto che la permanenza nel territorio dello Stato non sia di pregiudizio ad alcuno degli interessi coinvolti dalla disciplina dell’immigrazione, ma la relativa scelta deve costituire il risultato di un ragionevole e proporzionato bilanciamento degli stessi, soprattutto quando sia suscettibile di incidere sul godimento dei diritti fondamentali dei quali è titolare anche lo straniero extracomunitario, perché la condizione giuridica dello straniero non deve essere considerata come causa ammissibile di trattamenti diversificati o peggiorativi. Inoltre, le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit», sussistendo l’irragionevolezza della presunzione assoluta «tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa».
[47]{C} Cfr. l’art. 6, co. 1 del Trattato sull’Unione europea, secondo cui l'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
[48]{C} Not fully binding, come ci ricorda la CEDU nella sentenza Bosphorus v. Ireland del 30 giugno 2005.
[49]{C} Cfr. ad esempio Scalisi, Ermeneutica dei diritti fondamentali e principio “personalista” in Italia e nell’Unione europea, in Riv. dir. civ., 2010, I, 155; Sorrentino, I diritti fondamentali dopo Lisbona, in Corr. giur., 2010, 147.
[50] Cfr. l’art. 6, co. 2, del Trattato sull’Unione europea.
[51]{C} Cfr. ad esempio, nella sconfinata letteratura sul tema, Pinotti, I controlimiti nel rapporto tra diritto comunitario e nazionale, in Dir. comunit. scambi internaz., 2009, 211.
[52]{C} Cfr. Delli Priscoli, Mercato e diritti fondamentali, Torino, 2011, 139; cfr. altresì le Dichiarazioni allegate all'atto finale della conferenza intergovernativa che ha adottato il trattato di Lisbona firmato il 13 dicembre 2007: Dichiarazioni relative a disposizioni dei Trattati, art. 17, Dichiarazione relativa al primato del diritto dell’Unione europea: “La conferenza ricorda che, per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell'Unione europea, i trattati e il diritto adottato dall'Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza. Inoltre, la conferenza ha deciso di allegare al presente atto finale il parere del Servizio giuridico del Consiglio sul primato, riportato nel documento 11197/07 (JUR 260): "Parere del Servizio giuridico del Consiglio del 22 giugno 2007. Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia si evince che la preminenza del diritto comunitario è un principio fondamentale del diritto comunitario stesso. Secondo la Corte, tale principio è insito nella natura specifica della Comunità europea. Deve osservarsi che oggi come all'epoca della prima sentenza di questa giurisprudenza ormai consolidata [Costa contro ENEL, 15 luglio 1964, causa 6/64 (1)] non esisteva alcuna menzione di preminenza nel trattato; tuttavia la circostanza che il principio della preminenza non sarà incluso nel futuro trattato non altera in alcun modo l'esistenza del principio stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di giustizia.
[53]{C} Cfr. Delli Priscoli, La posizione dominante come presenza di una barriera, in Riv. dir. comm., 1999, II, 223.
[54]{C} Cassese, La nuova costituzione economica, Bologna, 2012, 64.
[55]{C} Infatti, anche se nella definizione di intesa di cui all’art. 2 della legge antitrust è assente l’espressione posizione dominante, tale fattispecie non consiste in altro che in un accordo tra imprese per raggiungere insieme, collettivamente, quella posizione dominante che sola permette un abuso, ossia l’esercizio di condotte economiche indipendenti da quelle che altrimenti imporrebbe il mercato: cfr. Libertini, Posizione dominante individuale e posizione dominante collettiva, 2003, I, 543.
[56]{C} Cfr. C. giust. UE 14 febbraio 1978, C- 27/76, United Brands c. Commissione: la posizione dominante “corrisponde ad una situazione di potenza economica grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato rilevante e di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei concorrenti, dei clienti e, in ultima analisi, dei consumatori”. Rileva Libertini, voce “Concorrenza”, in Enc. dir., 2010, Milano, 242, che se un tempo le discipline del consumatore non erano considerate parte integrante della disciplina della concorrenza, oggi prevale l’idea che la concorrenzialità del mercato è strettamente funzionale al soddisfacimento di quanti più bisogni possibile del consumatore.
[57]{C} Ad esempio gli alti costi di produzione o il possesso di una risorsa essenziale per la produzione del bene; le difficoltà per gli altri produttori nel reperimento di distributori qualificati a causa della clausola di esclusiva; la necessità per gli altri produttori di compiere ingenti investimenti; i provvedimenti amministrativi (autorizzazione e concessione: quando quest’ultima è prevista dalla legge come esclusiva si dà luogo al fenomeno del monopolio legale); l’informazione errata o incompleta in capo agli altri produttori o ai consumatori circa i prezzi adottati dai rivenditori.
[58] Ad esempio la necessità del rilascio di una autorizzazione o di una concessione o ancora più in generale di una certificazione che attesti il rispetto di certi standard di tutela dell’ambiente da parte di un’impresa.
[59]{C} Ad esempio la scarsità di tecnici qualificati in grado di produrre quel certo bene; la qualità del prodotto; del know-how; il marchio conosciuto; dei brevetti.
[60]{C} Si proverà qui di seguito a sintetizzare il pensiero dei principali studiosi che hanno tentato di definire il concetto di barriera. Secondo il Bain si è in presenza di una barriera all'entrata quando le imprese già attive sul mercato possono praticare un prezzo superiore al costo di produzione senza peraltro indurre i concorrenti potenziali a fare ingresso sul mercato (cfr. J. Bain , Barriers to New Competition, Cambridge, 1956, 252). Nel pensiero dello Stigler invece, una barriera può essere definita come il costo di produzione che deve essere sostenuto da quelle imprese che cercano di entrare su di un mercato, costo che non è sostenuto dagli operatori già stabiliti su quello stesso mercato (cfr. G.J. Stigler, The organization of industry, Homewood, 1968, 67). Secondo il Gilbert infine, si ha una barriera se una impresa ricava una rendita dal fatto di essere già stabilita sul mercato (R.J. Gilbert, The role of potential competition in industrial organization, Oxford, 1990).
[61]{C} Trimarchi Banfi, Organizzazione economica ad iniziativa privata e organizzazione economica ad iniziativa riservata negli articoli 41 e 43 Cost., in AA. VV., Scritti in onore di Virga, Milano, 1994, 78.
[62] Cfr. Corte cost. n. 279 del 2006 e n. 356 del 1993.
[63]{C} Cfr. Macioce, Le liberalizzazioni tra libertà e responsabilità, in Contr. impr., 2012, 997.
[64]{C} Satta, Note sulla separazione della rete di Telecom Italia, in Dir. amm., 2008, 1.
[65]{C} Si tratta del c.d. servizio universale, introdotto ed è disciplinato dal D.P.R. n. 318/1997, che comporta degli oneri a carico di un gestore pubblico o privato di un servizio di pubblica utilità al fine di garantire uno standard minimo predefinito di qualità di servizi, per i quali non sia possibile l'equilibrio economico, ma che si ritiene tuttavia necessario di garantire alla collettività, nel caso anche con meccanismi di compensazione finanziaria pubblica.
[66]{C} Rileva infatti Corte cost. n. 41 del 2013 che il settore dei trasporti appare resistente più di altri all’ingresso di operatori privati, a causa di alcune peculiari caratteristiche, legate, tra l’altro, agli elevati costi, alla necessità di assicurare il servizio anche in tratte non remunerative e alla consolidata presenza di soggetti pubblici tanto nella gestione delle reti quanto nell’offerta dei servizi. In questo contesto, è particolarmente avvertito il rischio che si creino o si consolidino posizioni dominanti e, pertanto, è opportuno che il passaggio a un sistema liberalizzato sia accompagnato, come già è avvenuto per altri pubblici servizi, da una regolazione affidata ad un’Autorità indipendente, che garantisca pari opportunità a tutti gli operatori del settore.
[67]{C} Nel 2012, a seguito della separazione dalla gestione dell'infrastruttura di rete (ancora in monopolio), si è proceduto all’apertura alla concorrenza del servizio ferroviario: cfr. anche Battistini, Liberalizzazioni e concorrenza nella regolamentazione del trasporto ferroviario europeo, Dir. Un. Eur. 2010, 571.
[68]{C} Libertini, Sanfilippo, Obbligo a contrarre, in Dig. civ., 1995, XII, 492. Secondo Buonocore l’intervento più penetrante dello Stato nel codice civile è rappresentato proprio da quest’ultima norma e dall’art. 1679 c.c. che contempla l’obbligo del concessionario di pubblici servizi a contrarre osservando parità di trattamento (Buonocore, Contratto e mercato, in questa Rivista, 2007, I, 388).
[69] Cfr. infatti Cass. 13 febbraio 2009 n. 3638, secondo cui grava sull’impresa l’onere di provare la necessità di imporre le condizioni praticate al fine di assolvere il compito da essa svolto nell'interesse generale; Cass. 16 maggio 2007, n. 11312, secondo cui i servizi relativi agli elenchi telefonici non sono strettamente connessi all’adempimento degli specifici compiti affidati al concessionario del servizio di telecomunicazioni.
[70] Cfr. Corte Giust., 8 giugno 2000 n. 258, C-258/98.
[71]{C} Cfr. ad esempio in questo senso, Oppo, Costituzione e diritto privato nella “tutela della concorrenza”, Riv. dir. civ., 1993, 91.
[72] Peraltro, Corte cost. n. 8 del 2013, sempre in tema di liberalizzazioni, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale - per presunta violazione dell’art. 117 Cost. - dell’art. 1, co. 4, del D.L. n. 1 del 2012, norma che prevede che le Regioni e gli altri enti territoriali si adeguino al principio volto a favorire le liberalizzazioni e, al fine di incentivare gli enti territoriali ad operare nel senso indicato dal legislatore statale, afferma che «il predetto adeguamento costituisce elemento di valutazione della virtuosità», alla quale si connettono conseguenze di ordine finanziario, secondo quanto previsto dall’art. 20, comma 3, del D.L. n. 98 del 2011. L’art. 1, co. 4, in questione infatti, mettendo in relazione diretta l’opera di liberalizzazione svolta dalle Regioni con i finanziamenti loro destinati, estende anche alle Regioni il compito di attuare i principi diretti ad attuare le liberalizzazioni, per evitare che le riforme introdotte ad un determinato livello di governo siano, nei fatti, vanificate dal diverso orientamento dell’uno o dell’altro degli ulteriori enti che compongono l’articolato sistema delle autonomie. Le Regioni, dunque, non risultano menomate nelle competenze legislative e amministrative loro spettanti, ma sono orientate ad esercitarle secondo i principi di leale collaborazione e a quelli indicati dal legislatore statale, che ha agito nell’esercizio della sua competenza esclusiva in materia di concorrenza.
[73]{C} Concetti analoghi sono espressi nelle sentenze n. 38 del 2013, in tema di liberalizzazione degli orari di apertura dei negozi, e n. 41 del 2013, a proposito della liberalizzazione del settore dei trasporti e dell’istituzione della relativa autorità.
[74]{C} In applicazione di tali principi, Corte cost. n. 38 e 65 del 2013 hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di due norme regionali (rispettivamente dell’articolo 5, co. 1, 2, 3, 4 e 7 e 6 della legge della provincia di Bolzano n. 7 del 2012 - Liberalizzazione dell’attività commerciale - e dell’art. 3 della legge della regione Veneto n. 30 del 2011 - Disposizioni urgenti in materia di orari di apertura e chiusura delle attività di commercio al dettaglio – norme che ponevano vincoli alla libera apertura degli esercizi commerciali - per contrasto con l’art. 117, co. 2, lett. e), Cost., in relazione all’art. 31, co. 2, del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, il quale, stabilendo che «secondo la disciplina dell’Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente…» ha introdotto il principio generale della libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio, con la conseguenza che eventuali limitazioni incidono direttamente sull’accesso degli operatori economici al mercato e, quindi, si risolvono in un vincolo per la libertà d’iniziativa di coloro che svolgono, o che intendano svolgere, attività di vendita al dettaglio nelle zone produttive. In particolare, con riferimento all’art. 31, co. 2, del d.l. n. 201 del 2011, la Corte aveva affermato che detta norma deve essere ricondotta nell’ambito della competenza legislativa esclusiva dello Stato, di cui all’art. 117, co. 2, lett. e), Cost., «tutela della concorrenza», «trattandosi di una disciplina di liberalizzazione e di eliminazione di vincoli al libero esplicarsi dell’attività imprenditoriale nel settore commerciale» (sentenza n. 299 del 2012). Il co. 4 dell’art. 5 impugnato, pur consentendo nelle zone produttive la prosecuzione delle attività di vendita al dettaglio già autorizzate o già iniziate prima dell’entrata in vigore della legge provinciale n. 7 del 2012, vietava che le relative strutture destinate alla vendita al dettaglio potessero essere ampliate, trasferite o concentrate.
Diversa è, sempre in coerenza con i principi suddetti, invece la situazione quando le limitazioni alla concorrenza vengono poste a tutela di interessi contemplati dal co. 2 dell’art. 41 Cost. Ha così ad esempio stabilito Corte cost. n. 274 del 2012 che poiché le incompatibilità stabilite da una legge regionale tra l’esercizio dell’attività funebre, da un lato, e la gestione del servizio obitoriale e cimiteriale corrispondono a ragioni di tutela della salute pubblica, è da escludere che tali norme ostacolino la concorrenza, introducendo limiti o barriere all’accesso al mercato e alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale o determinando gravi distorsioni sulle attività delle onoranze funebri; la normativa, lungi dal collidere con i principi dell’Unione Europea in tema di concorrenza, è conforme anzi ad alcuni precetti e raccomandazioni della stessa, la quale riconosce che alcuni servizi non sempre possono essere gestiti secondo una logica meramente commerciale.
[75]{C} Cfr. Corte cost. n. 46 del 2013, secondo cui “l’intervento normativo statale, con il d.l. n. 1 del 2012 [si tratta del più volte citato corpus normativo che reca delle liberalizzazioni], si prefigge la finalità di operare, attraverso la tutela della concorrenza (liberalizzazione), un contenimento della spesa pubblica”.
{C}[76]{C} In tal senso già le sentenze della Consulta n. 20 del 1980 e n. 78 del 1958
{C}[77]{C} Cfr., ex plurimis, sentenza n. 67 del 2010
[78]{C} Cfr. Libertini, I fini sociali come limite eccezionale alla tutela della concorrenza: il caso del «Decreto Alitalia», in Giur. cost., 2010, 3296,, 3299, il quale ritiene che nell’ordinamento europeo la concorrenza sia riconosciuta come valore strumentale rispetto a finalità complessive di benessere collettivo, che si compongono anche di altri valori, extraeconomici (come la tutela dell’ambiente) ed anche economici (crescita equilibrata, stabilità dei prezzi, piena occupazione, progresso scientifico e tecnologico, etc.); questi valori sono tendenzialmente destinati a prevalere - in caso di insuperabile contrasto - sulla tutela della competizione fra imprese, in quanto tale. Parallelamente emerge anche che, abbandonate le chimere del raggiungimento di una concorrenza perfetta - che neppure sarebbe auspicabile perché significherebbe che non ci sarebbe lotta fra le imprese per migliorare e differenziare i propri prodotti - il modello di concorrenza disegnato dal legislatore europeo è quello della concorrenza come processo dinamico virtuoso, orientato dalle libere scelte del consumatore, in cui le imprese competono soprattutto per l’acquisizione di risorse scarse di tipo immateriale e conseguentemente per offrire ai consumatori un bene o un servizio caratterizzato dal miglior rapporto qualità/prezzo possibile, a tutto vantaggio naturalmente dei consumatori stessi. Cfr. Libertini, voce “Concorrenza”, in Enc. dir., 2010, Milano, 245; Corte cost., n. 325 del 2010, secondo cui fanno parte a pieno titolo della tutela della concorrenza non solo le «misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che influiscono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati» (misure antitrust, c.d. concorrenza in senso “statico”); ma anche le misure legislative di promozione, «che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese» (per lo piú dirette a tutelare la concorrenza “nel” mercato: c.d. concorrenza in senso “dinamico”).