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sabato, 19 aprile 2025 22:01

CARICHI DI LAVORO:NUOVE PROSPETTIVE

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LA MAGISTRATURA ASSOCIATA ED I CARICHI DI LAVORO: QUANTITÀ DEL PRODOTTO O QUALITÀ DELLA GIUSTIZIA?

 
1. LA QUANTITÀ DEL LAVORO GIUDIZIARIO: UN CONFRONTO TRA MAGISTRATURA ORDINARIA E MAGISTRATURA AMMINISTRATIVA.
La durata eccessiva dei processi è il problema principale della giustizia italiana. Ai magistrati viene chiesto di “produrre sempre di più”, senza attenzione verso la qualità delle decisioni. Quanti processi, però, un magistrato può ragionevolmente definire nel rispetto di standards accettabili di giustizia?
Per i giudici amministrativi il problema è stato già risolto da sette anni stabilendo il lavoro massimo esigibile, per evitare che l’eccessiva quantità di decisioni si traduca in una diminuzione di qualità delle sentenze. In particolare, l’art. 19 della L. 205/00, aggiungendo il punto 6 bis al primo comma dell'articolo 13 della legge 27 aprile 1982 n. 186, ha previsto che il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa, che è l’omologo del CSM per i giudici amministrativi, “determina i criteri e le modalità per la fissazione dei carichi di lavoro dei magistrati”. Dunque, già da sette anni è stata normativamente sancita la necessità di stabilire gli standards di produttività per i giudici amministrativi. E il Consiglio di Presidenza non ha fatto attendere di molto il suo intervento regolatore, visto che con provvedimento del 18 dicembre 2003 ha stabilito il numero massimo delle udienze mensili pro capite (2), il numero minimo e massimo dei procedimenti assegnabili pro capite ogni mese (9 e 12) e, quindi, il numero minimo e massimo delle sentenze mensili pro capite (pari evidentemente al numero dei procedimenti assegnati), con l’indicazione precisa del numero minimo delle sentenze annue (80) e la fissazione di criteri di valutazione ridotta (al 50 %) di alcune decisioni più semplici[1].
Per la magistratura ordinaria, invece, non vi è alcuna disposizione di legge che imponga agli organi di autogoverno l’obbligo di fissare carichi di lavoro che garantiscano l’efficienza e la qualità del lavoro giudiziario. L’ANM non ha mai esercitato una concreta pressione per ottenere un intervento normativo in tal senso, ma, se si confrontano i numeri, l’esigenza di individuare carichi di lavoro esigibili esiste in particolar modo proprio per i magistrati ordinari. Dai dati statistici emerge che i magistrati ordinari definiscono mediamente pro capite più del triplo dei procedimenti definiti da ciascun magistrato amministrativo. Il confronto è fatto solo con riguardo alla giustizia di primo grado dei Tribunali ordinari e dei TAR, considerando per i primi le statistiche 2006 del Ministero della giustizia e le piante organiche indicate dal C.S.M., e per i secondi le notizie contenute nell’ultima relazione d’inaugurazione dell’anno giudiziario della giustizia amministrativa e le piante organiche ufficiali.  
In sintesi questi i dati di confronto[2]
 


GIUSTIZIA ORDINARIA

 
TOTALE PROCEDIMENTI ESAURITI
NUMERO GIUDICI IN SERVIZIO
PROCEDIMENTI ESAURITI PER GIUDICE
CIVILE
2.461.890
2.678
919
PENALE (G.I.P.+ G.U.P.+DIB.)
2.220.539
2128
1.043

 
 
GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA

 
PROCEDIMENTI ESAURITI
NUMERO GIUDICI IN SERVIZIO
PROCEDIMENTI TOTALI ESAURITI PER GIUDICE
GIUDICI AMMINISTRATIVI
93.058
362
257

 
      
2. CARICHI DI LAVORO E STANDARDS DI PRODUTTIVITÀ.
Pare davvero incredibile che, di fronte a questi dati, i carichi di lavoro esigibili siano individuati per i giudici amministrativi e non per i magistrati ordinari; e che sul punto non vi sia mai stata una reale battaglia dell’ANM. Tutto questo, evidentemente, è il frutto di quell’impostazione culturale, purtroppo prevalente negli ultimi anni in magistratura, secondo cui il magistrato (ordinario) svolge, più che una funzione, una vera e propria “missione”, fatta a costo di sacrifici personali nell’interesse superiore della collettività e della società; né può lamentarsi di questi aspetti perché ci sono categorie sociali che soffrono e lavorano molto di più. Si tratta di quell’impostazione culturale che ha contribuito a produrre un atteggiamento di sostanziale inerzia rispetto al sensibile incremento del distacco retributivo della magistratura ordinaria rispetto alle altre magistrature e più in genere alle altre dirigenze dello stato. E che di fatto ha impedito sino ad oggi di rispondere con fermezza alle critiche (dell’opinione pubblica e della politica) sull’inefficienza del sistema-giustizia, diffondendo i dati, anche comparativi, della nostra produttività ed evidenziando quindi che in termini generali il problema non è dato dai giudici ma dalla macchina nel suo complesso, disorganizzata, priva di risorse adeguate e di strumenti processuali rapidi ed efficaci.
E’ ora di lasciare alle spalle quest’atteggiamento culturale, così dannoso, che al contempo svilisce la stessa funzione giudiziaria, perché considerare solo il dato quantitativo, e richiedere ai magistrati ordinari (e solo ad essi) sempre di più significa in realtà non tenere conto della delicatezza e difficoltà della funzione giurisdizionale e, in definitiva, del prestigio della magistratura.
Del resto, se altro - “pericoloso” - criterio di valutazione di professionalità è dato dalla “tenuta” dei provvedimenti (nuovo art. 11 comma 2 lett. a), a maggior ragione occorre fissare dei tetti di produttività, per evitare che la rincorsa alla produttività costituisca un boomerang negativo per lo stesso magistrato “diligente”.  
Senza poi considerare che l’assenza di carichi di lavoro predeterminati, e quindi anche di “minimi” prestabiliti, finisce per proteggere quelle sacche di inefficienza che, purtroppo, anche nell’attuale (ed evidenziato) contesto generale di produttività, tuttora permangono e che, è evidente, sarebbero smascherate una volta per tutte dall’individuazione dei “minimi” esigibili. Insomma, non può escludersi a priori che lo snobismo avuto sinora rispetto a questi temi non abbia solo ragioni culturali, ma si giustifichi anche nella volontà di proteggere le sacche di inefficienza tuttora esistenti all’interno della magistratura.
 
Ma il rischio maggiore, assolutamente da scongiurare, è quello di danneggiare i cittadini, perché in tema di giustizia la quantità delle decisioni pronunciate - se troppo elevata - ne riduce inesorabilmente la qualità, in quanto si dedica meno tempo ed attenzione all’istruzione dei processi ed alla valutazione delle questioni.
Nell’interesse comune, quindi, vanno stabiliti dei razionali ed accettabili standards medi di produttività per ciascun magistrato ordinario. Un’importante opportunità è offerta dall’art. 2 L. 111/07 (la c.d. “Riforma della riforma” dell’ordinamento giudiziario) che impone al CSM di adottare, sia pure solo al fine delle valutazioni di professionalità, una regolamentazione che contenga “l'individuazione per ciascuna delle diverse funzioni svolte dai magistrati, tenuto conto anche della specializzazione, di standard medi di definizione dei procedimenti, ivi compresi gli incarichi di natura obbligatoria per i magistrati, articolati secondo parametri sia quantitativi sia qualitativi, in relazione alla tipologia dell'ufficio, all'ambito territoriale e all'eventuale specializzazione” (nuovo art. 11 comma 3 punto e). Per la prima volta il legislatore si pone il problema di individuare i carichi di lavoro esigibili per ciascuna specifica funzione, considerando tutti gli aspetti, anche quelli territoriali. Il CSM, fino ad ora, non ha ancora stabilito gli standards medi. Nel frattempo domandiamoci se per il cittadino è meglio avere dalla magistratura una decisione “qualunque” purché rapida o una decisione “giusta” in tempi ragionevoli.
 
3. EFFICIENZA DELLA GIUSTIZIA E LAVORO DEI MAGISTRATI: LE RESPONSABILITÀ DELL’AUTOGOVERNO E LE PROSPETTIVE DEGLI UFFICI GIUDIZIARI.
Il CSM era tenuto fissare gli standards medi di produttività entro il 29 novembre 2007. Il CSM, peraltro, non era impreparato rispetto a questo compito epocale  perché da anni conduce sul punto indagini e studi comparativi e statistici[3], richiede in continuazione l'elaborazione di dati agli uffici giudiziari ed ha attivato varie “commissioni di rilievi statistici” e di studio dei “flussi”. I consiglieri di Magistratura Indipendente al CSM hanno richiesto fin dal 30 agosto 2006 l'apertura di una pratica al CSM per assumere iniziative e giungere a proposte in merito alle condizioni di lavoro dei magistrati e al loro carico medio dei magistrati nei diversi settori. La pratica, aperta in Seconda Commissione (in cui MI non è presente ma nella quale i consiglieri di MI hanno richiesto l'acquisizione dei dati sulla produttività nell'ultimo biennio delle diverse magistrature), si è arenata per l'opposizione alla istituzione di una commissione speciale da parte degli altri consiglieri “togati”. Dopo un anno è stata spostata alla Sesta Commissione (Commissione per i problemi della giustizia) e lì per ora giace. La pratica tuttora risulta ferma e la questione non è mai stata posta all’ordine dal giorno dai Presidenti di turno (gli unici competenti alla fissazione degli ordini del giorno).
Rinviando a quanto detto sopra in ordine alle ragioni di tale disinteresse, è evidente che oggi, dopo la L. 1117/07, non è più possibile tale inerzia, che si risolverebbe nella consapevole inattuazione di una rilevante novità del nuovo ordinamento giudiziario. Ecco che qui viene in gioco il compito dell’ANM, che deve svolgere funzione di stimolo nei confronti del CSM, non istituendo però, come invece prospettato dalla GEC, un’inutile “Commissione”, che dovrebbe sostituirsi al CSM utilizzando dati come visto già in possesso di quest’ultimo, ma che deve semplicemente mettere in mora l’organo di autogoverno.
Esiste anche una via più semplice per cominciare subito a individuare le prassi virtuose che consentano di razionalizzare le modalità di gestione dell’elevatissimo carico di lavoro gravante su ciascun magistrato, riducendo anche la crescente responsabilità contabile (sulla base della c.d. “legge Pinto”) e disciplinare (per i ritardi nella redazione dei provvedimenti). Invero, ogni singolo ufficio, nell’ambito della propria autonomia organizzativa, potrebbe direttamente prevedere, nel formare le tabelle, il carico di lavoro medio esigibile dal singolo magistrato. A ben vedere, infatti, l’individuazione di carichi di lavoro esigibili rapportati alle specifiche funzioni e alle peculiarità territoriali è l’unico sistema realmente efficace per adeguare alla concreta realtà quotidiana giudiziaria la qualità delle decisioni. Il principio generale da seguire dovrebbe essere quello dei “rendimenti decrescenti”[4]: in pratica se si aumentano le assegnazioni annue del 5%, ad esempio per fronteggiare una sopravvenienza eccezionale, le definizioni saranno superiori del 5%, ma se si aumentano le assegnazioni del 15% per fronteggiare ulteriori sopravvenienze impreviste le definizioni aumenteranno solo del 7%, e così via diminuendo, a causa del limite fisiologico alla capacità di definizione dei procedimenti da parte di ciascun magistrato, già gravato da carichi di lavoro di per sé onerosi.[5]
Se la fissazione del carico minimo di lavoro del magistrato determina una soglia al di sotto della quale deve attivarsi un sistema di controlli per verificare i motivi di una diminuzione di efficienza, la fissazione del carico massimo di lavoro realizza l’obiettivo di garantire la qualità della giustizia e di ridurre l’inefficienza derivante dall’assegnazione di una cifra di procedimenti che – in concreto – non possono essere definiti oltre un certo numero.
Ecco che il mutamento, anche culturale, dovrà avvenire non solo dall’alto, ossia dal CSM, ma anche dal basso, ossia dai singoli uffici, e quindi dai singoli dirigenti, che dovranno essere pronti ad affrontare questo tema con competenza e professionalità, utilizzando anche in questo caso i dati già esistenti, acquisiti attraverso le Commissioni flussi e gli uffici di statistica. Naturalmente, per realizzare un sistema efficace, occorrerà un adeguato controllo dei Consigli giudiziari, organi dopo la riforma destinati ad acquisire un ruolo sempre più rilevante nel circuito dell’autogoverno. I prospetti che seguono sono solo un modesto contributo al dibattito più ampio che speriamo venga aperto non solo dall’ANM e dal CSM ma da tutti gli operatori della giustizia. Anche l’avvocatura è ufficialmente chiamata a dare il proprio responsabile contributo, poiché gli avvocati integreranno la composizione dei prossimi consigli giudiziari proprio in relazione alla redazione dei pareri sulle proposte di organizzazione tabellare.
In un’ottica di collaborazione e di stimolo alla discussione, che speriamo venga aperta al più presto, abbiamo provato a proporre obiettivi realisticamente raggiungibili attraverso proposte ponderate di “carichi massimi esigibili”, che non discendono solo dall’esame dei dati statistici aggiornati a quelli riferiti nella relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2008, ossia non discendono solo dalla fredda verifica di quanto mediamente “si fa oggi”, ma soprattutto sono frutto della comparazione di tali dati con le indicazioni fornite in numerosi incontri ed interviste con magistrati, avvocati e cancellieri (di diversi uffici giudiziari grandi, medi, piccoli, del Nord, del Sud e del Centro) che vivono quotidianamente la realtà del processo, conoscono la situazione effettiva degli uffici giudiziari e soprattutto conoscono le energie ed ore lavorative impiegate nel lavoro giudiziario. Si tratta quindi di numeri non formali ma “sostanziali”, che emergono dalla realtà concreta e sono ottenuti considerando in media una settimana di circa quaranta ore lavorative. E tali numeri spesso sono “più bassi”, ed anche in modo consistente, rispetto a quelli delle statistiche ufficiali di produttività dei vari uffici giudiziari: ciò denota il “superlavoro” di molti magistrati professionali, “superlavoro” non dovuto e comunque non reiterabile nel tempo, anche per la perdita di qualità connessa alla “sovraproduttività” (peraltro, a lungo andare è naturale anche un rendimento quantitativo decrescente del magistrato “supersfruttato”); e denota al contempo la “crisi irreversibile” del sistema, dato soprattutto da una “domanda di giustizia” non filtrata ed incontrollata.
La speranza è che siano proprio i singoli uffici a raccogliere i suggerimenti che seguono, a commisurarli alle realtà locali ed a proporre - in occasione dell’approvazione delle prossime tabelle - un modello operativo che salvaguardi l’efficienza e la giustizia delle decisioni dei magistrati. Da questa spinta dal basso potrebbe essere operata la successiva sintesi del CSM per la fissazione di carichi di lavoro che siano uno specchio fedele delle medie nazionali.
Tutto questo in un’ottica complessiva che serva in concreto a: - rivedere la distribuzione dei magistrati (e del personale amministrativo) sul territorio e nei singoli uffici (di secondo e primo grado, penale e civile, sezioni specializzate, uffici specializzati, così via); - rivedere lo stesso dimensionamento degli uffici giudiziari; - approntare strumenti flessibili di organizzazione degli uffici, con eventuale impiego di risorse straordinarie, onde sopperire a permanenti situazioni di emergenza in singoli uffici; - tutelare effettivamente i magistrati, che non potranno mai incorrere in responsabilità disciplinari e/o contabili ove superino i “massimi esigibili”.
E, in termini ancora più generali, in un’ottica complessiva che serva a comprendere l’assoluta necessità di: - ridisegnare e limitare l’accesso alla giustizia; - valorizzare il ruolo dei magistrati di carriera riservando ad essi solo le controversie più “rilevanti” e fornendo loro effettivi strumenti e risorse, ivi inclusi “assistenti specializzati” destinati ad un effettivo supporto nell’attività giurisdizionale (nell’ambito del c.d. “ufficio del giudice”); - ridefinire ed ampliare i compiti dei magistrati onorari, creando autonomi uffici per la “giustizia di pace” distinti dai Tribunali.                        
Il gruppo di Magistratura Indipendente, sicuro dell’assoluta importanza del tema, nell’interesse dei magistrati ed anche, come detto, dei cittadini, lavorerà per questi obiettivi, stimolando attraverso i suoi rappresentanti l’azione della GEC e, al contempo, del CSM e dei Consigli Giudiziari.                
Alessandro Pepe e Aldo Morgigni


[1] In particolare, ecco i criteri deliberati dal Consiglio di Presidenza, nella seduta del 18/12/2003, sui carichi di lavoro dei magistrati TAR:
1.      In ciascun mese dovrà essere assegnato ad ogni magistrato, tenuto conto anche dell'aggravio sempre crescente derivante dai provvedimento cautelari, un numero complessivo di fascicoli, relativi a ricorsi da decidere nel merito, non inferiore a 9 e non superiore a 12.. Lo stesso criterio, con le proporzionali riduzioni, si applica nei periodi in cui le udienze di merito comprendono frazioni di mese, in relazione all'inizio ed alla fine del periodo estivo. I periodi di congedo straordinario, aspettativa e fuori ruolo riducono in proporzione il numero di ricorsi da assegnare mensilmente.
2.      Nel numero di cui al punto 1 non sono compresi i ricorsi identici - meno che nel nome delle parti in giudizio - nei motivi e nelle condizioni di fatto ovvero nei quali siano formulate solo censure di illegittimità derivata (tali ricorsi, ai solo fini dell'assegnazione, vanno considerati nel numero di uno; i ricorsi identici, sono tuttavia computati dal Presidente in misura maggiore quando, per quantità o natura, comportino un impegno gravoso).
3.      Nel numero di cui al punto 1 sono compresi:
a)       i ricorsi comunque connessi, indipendentemente dalla loro eventuale riunione (previa o successiva), a parte i ricorsi di cui al precedente punto 2, con riduzione di un'unità qualora la connessione riguardi più di due ricorsi;
b)       i ricorsi che vengono rimessi in discussione per la decisione a seguito di provvedimenti interlocutori;
c)       i ricorsi proposti per l'esecuzione o per l'ottemperanza o per il regolamento di competenza quando non siano di agevole definizione.
4.      Ciascun magistrato dovrà partecipare almeno a due udienze mensili opportunamente intervallate. L'assegnazione dei magistrati ad un numero superiore di udienze o adunanze mensili è consentita solo episodicamente per eccezionali esigenze di servizio in conformità a quanto stabilito nella seduta del 10 ottobre 2003 di questo Consiglio di Presidenza.
5.      In caso di errore nell'applicazione delle presenti direttive ovvero di scostamento dalle stesse per oggettive esigenze si procede a compensazione nei tre mesi successivi.
6.      Le decisioni rese ai sensi dell'art. 21, comma 9 della legge 6 dicembre 1971, n.1034, come introdotto dall'art. 3 della legge 21 luglio 2000, n. 205, sono considerate pari a 0,50 di una normale decisione di merito e danno diritto ad una corrispondente riduzione del carico di lavoro nei tre mesi successivi.
7.      Le decisioni rese ai sensi dell'art. 21 bis della legge 6 dicembre 1971, n.1034, come introdotto dall'art. 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, nonché le decisioni rese sui motivi aggiunti aventi carattere impugnatorio di cui all'art. 1, L. 205/2000, sono considerate pari a 0,50 di una normale decisione di merito e danno diritto ad una corrispondente riduzione del carico di lavoro nei tre mesi successivi.
8.      I ricorsi connessi nonchè quelli concernenti questioni affini sono assegnati di norma al medesimo relatore.
9.      In ogni anno solare, ciascun magistrato dovrà depositare in segreteria indicativamente non meno di 80 sentenze, intendendosi come tali tutti i provvedimenti giurisdizionali così denominati e da lui sottoscritti quale estensore. Le decisioni di cui al punto 2 e quelle di cui ai punti 6 e 7 sono calcolate in base ai criteri enunciati nei punti medesimi.
10. I Presidenti delle Sezioni interne e staccate, che non si avvalgono della facoltà di delega delle funzioni indicate dalla citata legge, sono esonerati dalla redazione delle sentenze di merito.
 
 
[2] Si precisa, peraltro, che la suddivisione tra giudici civili e penali non può essere stimata con esattezza perché in molti casi lo stesso magistrato è addetto a funzioni promiscue, ma il dato globale è sostanzialmente conforme alla realtà. Ovviamente nell’ambito dei procedimenti non è indicata la valenza, perché diverso è il peso del decreto di archiviazione perché gli autori di un furto sono ignoti da quello di una sentenza del relativo giudizio abbreviato. Al dato scarno dell’esaurito va aggiunto quello della miriade di ulteriori adempimenti, come le attività nelle indagini, la partecipazione alle udienze, i provvedimenti cautelari e i mezzi di ricerca della prova, i provvedimenti cautelari, i provvedimenti ordinatori come le autorizzazioni, le liquidazioni ed in genere gli innumerevoli provvedimenti non decisori che non risultano dalla statistica e che comporterebbero un aumento di circa il doppio dei provvedimenti emessi. Il dato della giustizia civile riguarda, promiscuamente, sia i procedimenti di cognizione esauriti con sentenza che il totale comprensivo delle forme alternative (decreto e ordinanza) oppure per estinzione. Ed anche in questi dati non sono comprese le innumerevoli ulteriori attività quali le udienze, i provvedimenti sommari e cautelari, i provvedimenti autorizzatori, le liquidazioni ecc. Si precisa che pure per i giudici del TAR il calcolo non considera udienze e provvedimenti cautelari che, tuttavia, sono notoriamente in numero sensibilmente inferiore a quello dei giudici ordinari.
Né può essere fatta una questione di diversa complessità dei giudizi, ordinari ed amministrativi, i quali nei grandi numeri si equivalgono. Va aggiunto, inoltre, che tutti i giudici ordinari di primo grado svolgono in prevalenza funzioni monocratiche, di per sé notoriamente più onerose, e che i magistrati penali - per la peculiarità delle funzioni svolte - sono frequentemente esposti a rischi personali non indifferenti, come dimostrato dai numerosi colleghi colpiti dalla criminalità negli anni trascorsi.
 
 
[3] Delibera CSM del 10 luglio 2002 sul c.d. “cruscotto”
[4] La “Legge dei rendimenti decrescenti” è stata formulata per la prima volta dall'economista classico David Ricardo. Detta anche "Legge delle proporzioni variabili", presuppone un rapporto tecnico fra input e output, peraltro non dimostrabile scientificamente ma solo empiricamente. In pratica, in ogni sistema produttivo generico, ad ogni apporto di un fattore qualsiasi (cioè lavoro, mezzi, personale ecc.) non corrisponde un incremento di produzione proporzionalmente crescente. Normalmente si ipotizza che la legge non entri sempre in funzione ma solo quando l'input variabile supera una determinata soglia. Così l'aumento dei magistrati in organico ad un ufficio consente certamente un aumento proporzionale del numero di procedimenti definiti, ma solo fino a quando l'intero sistema non incomincia a soffrire di disfunzioni dovute alla logistica o all'organizzazione del lavoro, proprio a causa del suo ingrandirsi. I grandi tribunali hanno dimostrato che devono essere suddivisi in sezioni, per quanto specializzate, proprio a causa dei rendimenti decrescenti. Questo perché all'aumento del numero dei magistrati e della massa del numero dei procedimenti complessivamente definiti non corrisponde un conseguente aumento della percentuale dei procedimenti definiti. La legge dei rendimenti decrescenti ha il suo corollario (o anche antitesi, a seconda dei casi) nella "Legge dei rendimenti di scala". È certo che un grande ufficio giudiziario ha la possibilità di eliminare gran parte delle diseconomie tipiche degli uffici di piccole dimensioni (ricorso a massicce forniture di beni strumentali, concentrazione di competenze, creazione di cancellerie o segreterie centrali per adempimenti generalizzati), ma proprio a causa delle dimensioni, esiste una soglia oltre la quale le diseconomie prendono il sopravvento e si rientra nella legge precedente dei rendimenti decrescenti. Questo livello è stato attualmente ampiamente superato dagli uffici giudiziari che hanno sede nei distretti “metropolitani” (Roma, Milano, Napoli, Torino e Palermo), che – dopo un breve periodo di incrementi dovuti ai “rendimenti di scala” ottenuti con la l. n. 155/99 – sono rientrati nei rendimenti decrescenti della media degli uffici giudiziari nazionali.
 
[5] È un dato di comune esperienza che se mediamente in un’udienza dibattimentale monocratica si fissano 10 processi e se ne definiscono mediamente 6, fissandone 20 se ne definiranno mediamente 9 (e non 12) e fissandone 30 se ne definiranno mediamente 11 (e non 18): ad un aumento del 100% e del 200% del carico di lavoro consegue rispettivamente un aumento del 50% e del 40% dei procedimenti definiti. Senza considerare che – poiché la durata dell’udienza passa da una media di sei ore a una media di circa nove ore – ad ogni camera di consiglio vengono dedicati tempi di decisione più brevi di quasi il 50%, con l’evidente rischio che la minore ponderazione delle decisioni ne riduca la conformità a giustizia. Il dato è peraltro evidente anche raffrontando il numero percentuale di impugnazioni cheè inferiore nei tribunali gravati da minore carico di lavoro, poiché si dedica maggior tempo alla valutazione delle decisioni di primo grado.
 
 
 
 
 
 

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