Controllo di legalità e professionalità del magistrato
Ringrazio innanzitutto gli organizzatori per l’onore che mi hanno fatto invitandomi a intervenire in questo prestigioso consesso, che penso sia dovuto più che altro alla circostanza che, per una serie di fortunate coincidenze, mi è capitata la rara ventura di svolgere per due volte il ruolo di consigliere del C.S.M. Ciò mi ha consentito quantomeno di maturare una rilevante esperienza in tutti i temi pertinenti all’ordinamento giudiziario, e fra essi la professionalità e la deontologia, al centro dell’odierno convegno, rivestono entrambi un ruolo fondamentale. Chiunque sia stato al C.S.M., infatti, è ben consapevole di quante pagine di circolari si siano scritte nel tempo, ad esempio, in materia di valutazione della professionalità dei magistrati, e di quanta fatica ognuno di noi ha sopportato leggendo pareri spesso insufficienti, apparentemente molto simili l’uno all’altro e differenziati tra loro soltanto da criptici “segnali” (un aggettivo diverso, una parola in più o in meno) forse più adatti ad un codice per iniziati che a un giudizio chiaro e trasparente.
In materia di professionalità, particolarmente impegnativa è la stata la consiliatura scorsa che ha dovuto interpretare e applicare per la prima volta la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006, cha ampio spazio ha dedicato proprio alle valutazioni di professionalità con il decreto legislativo n. 160, cui ha fatto seguito la legge n. 111 del 2007. La disciplina che infine ne è risultata è stata quindi posta a base della circolare approvata dal C.S.M. il 4 ottobre 2007 che, in termini estremamente dettagliati, ha dettato tutta una serie di regole applicative, sulle quali però non è mia intenzione soffermarmi in questa sede, se non incidentalmente e solo funzionalmente agli argomenti, di carattere più generale, che invece svilupperò per esser fedele all’incarico che mi è stato affidato, che è quello di svolgere alcune riflessioni sul tema specifico riflesso dal titolo del mio intervento, ovverosia “Controllo di legalità e professionalità del magistrato”.
Non parliamo, quindi, della professionalità del magistrato a tutto tondo, ma con riferimento specifico alla realizzazione di una particolare finalità, ovverosia quella del “controllo di legalità”. Sembra ancora di capire che ciò su cui ci è richiesto di riflettere è su quale sia la “professionalità” ideale del magistrato per realizzare al meglio questo “controllo di legalità”, che evidentemente, per come ci viene prospettato, si dà per scontato che sia un compito, se non addirittura “il compito”, affidato ai magistrati.
Tutto ciò merita qualche chiarimento, perchè in realtà non vi è testo normativo, di nessun livello, che attribuisca alla magistratura un ruolo di così tanta ampiezza e generalità, né, in realtà, vi sono esempi di ordinamenti stranieri in cui con altrettanta frequenza e sicurezza ci si riferisca, anche nel dibattito politico o nel sentire comune, ai magistrati come deputati a una funzione di controllo.
La parola “controllo” anche semanticamente evoca un concetto diverso da quello di “giurisdizione”, che è il ruolo (l’unico, per la verità) esplicitamente attribuito dalla Costituzione italiana all’ordine giudiziario, e quindi alla magistratura. E giurisdizione vuol dire “ius dicere” in relazione a un caso concreto, ad una controversia iniziata e specificamente individuata, mentre il “controllo di legalità”, senza limitazioni e specificazioni, evoca scenari invece di carattere generale e indeterminato, pertinenti quindi di regola ad organi amministrativi o legislativi, e di carattere spesso anche preventivo rispetto ad ogni accadimento concreto.
Eppure in Italia oggi sembra che nessuno dubiti che sia corretto riferirsi alla magistratura ordinaria, la “nostra” magistratura, come deputata al “controllo di legalità”. Ne prendiamo atto, e cerchiamo di capire “perché” ciò è accaduto e “come” la magistratura può far fronte a tale impegno.
Ciò è accaduto perchè, a dispetto di quanto può emergere dai giudizi di politici o opinionisti spesso troppo interessati o inquinati da evidenti preconcetti, la posizione della magistratura nel nostro Paese è di rilievo così alto nella considerazione generale che ad essa è spontaneamente, direi quasi automaticamente, attribuito un ruolo effettivo forse maggiore di quello astratto delineato nel sistema giuridico.
E’ inutile qui adesso soffermarsi sul perché ciò sia avvenuto, e d’altronde la “storia” delle vicende politiche, amministrative e giudiziarie italiane degli ultimi decenni sono di per sè eloquenti nello spiegare perché la magistratura, pur con tutti i suoi limiti e difetti, è comunque apparsa ed appaia complessivamente agli occhi della “normale” collettività come “un gigante”, sul piano della correttezza e della affidabilità istituzionale.
Per questo è oggi normale parlare dei magistrati come di coloro a cui è affidato il “controllo di legalità”, come si fa nel titolo di questo incontro (non da me suggerito), senza tante precisazioni e senza tante riserve. E’ una relazione funzionale, questa, tra “magistratura” e “controllo di legalità”, che non si può oggi negare, e con la quale ci si deve confrontare a dispetto di quanto ognuno di noi possa pensare sulla sua giustezza e opportunità.
E per far ciò bisogna aver ben chiaro innanzitutto che la magistratura, alla quale la legge non assegna nessuna di quelle attribuzioni specifiche che ai normali organi di controllo sono invece affidate, può ovviamente svolgere questo ruolo soltanto per via mediata, ovverosia per il tramite delle sue decisioni.
Pensiamo, ad esempio, al più evidente e clamoroso esempio, oltretutto attualissimo, di ciò che intendo dire, ovverosia le recentissime sentenze pronunciate presso la sede giudiziaria di Torino in tema di reati inerenti alla tutela di interessi quali la salute pubblica e la prevenzione dall’infortunistica sul lavoro. Che, sia ben chiaro, costituiscono solo la punta emergente di un fenomeno ampiamente diffuso, che attraversa il mondo della giurisdizione in tutte le materie di sua competenza, dal settore penale al settore civile (esempio clamoroso è quello della bioetica, ma non solo) al settore della tutela del lavoro.
In tutti questi casi il giudice, che non è competente direttamente ad esercitare un controllo di carattere generale su comportamenti attinenti ad alcun settore delle attività umane ( sia che riguardino tecniche produttive, misure ambientali, cautele antinfortunistiche o altro), perviene a ciò nonostante tutto attraverso la via mediata della “sentenza”. Egli, in sostanza, decidendo un caso concreto dice a tutti coloro che si troveranno a dover affrontare una situazione simile quale sia il comportamento “legale” o meno da tenere in quelle situazioni, e quali saranno le conseguenze se non si atterranno a tale comportamento. Il “controllo di legalità” di cui parliamo è così ottenuto con la “esemplarità” della decisione giurisdizionale e degli effetti ad essa conseguenti.
Questa, in verità, è una caratteristica comune a tutti i sistemi giuridici basati sul principio di legalità, tanto più da quando l’idea della partecipazione del giudice alla “creazione” del diritto anche nei sistemi come il nostro è stata riconosciuta universalmente, tanto da essere passata dall’ambito delle speculazioni di avanguardie intellettuali come Josef Esser (studioso tedesco che già agli inizi degli anni ’70 scriveva che “il giudice partecipa creativamente al processo di produzione del diritto: e questo senza troppe differenze tra il giudice di civil law, che per i formalisti dovrebbe limitarsi ad applicare la legge, e il giudice di common law, che sempre per costoro dovrebbe limitarsi ad applicare i precedenti giudiziali”) alla sacralità delle affermazioni della Corte di Strasburgo ripresa anche dalle sezioni unite della Cassazione ( con la sentenza n. 18288 del 21-1-2010 – S.U. penali – che ha riconosciuto che il mutamento di giurisprudenza intervenuto con decisione delle sezioni unite della stessa Corte “integra un nuovo elemento di diritto…in linea con i principi della convenzione europea dei diritti dell’uomo, il cui articolo 7, come interpretato dalle Corti europee, include nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale”).
Ma quel che in Italia è peculiare è la particolare autorevolezza, davvero il sentir comune di “forza cogente” di questo tipo di decisioni giudiziarie.
Qualche esempio.
E’ forse possibile dubitare che di fatto oggi in Italia, per qualsiasi imprenditore, ciò che pensa il dott. Guariniello in materia di misure antinfortunistiche sia più “cogente” di qualsiasi circolare del ministero del lavoro?
E quante volte leggiamo sui giornali il contenuto di principi estratti dalle massime della Corte di cassazione e attinenti ai più vari rami delle attività umane, che per ciò solo divengono nella considerazione comune “legge” vivente e inderogabile?
Chi ha stabilito quando e per quali motivi cessi l’obbligo di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli, la legge o la giurisprudenza dei giudici competenti in materia di famiglia?
Certo, parliamo di settori. Ma sono tanti, tutti quelli in cui il “fatto” giudicato non rappresenta un “unicum” coinvolgente solo il “particolare” delle parti in causa, ma riflette interessi ben più diffusi, ripetibili in tanti altri casi nella stessa maniera, seriali e produttivi di conseguenze non circoscrivibili a priori.
Questa è la situazione oggi nel nostro Paese, un luogo dove chiunque, per qualsiasi cosa, quando non sa cosa fare per denunciare qualcosa che non va o per verificare una certa situazione in un determinato settore, non si chiede mai quale sia l’organo di controllo competente per materia, ma dice “mi rivolgo alla magistratura”. E’ una situazione, questa, che da un lato deve inorgoglire la magistratura, in quanto nasce da un’autorevolezza riconosciuta spontaneamente dalla collettività, ma che nel contempo addossa ad ogni magistrato un’immensa responsabilità, ovverosia la responsabilità di essere attrezzato per fare qualcosa di più di ciò che ognuno di noi pensava di dover fare quando decise di vestire la toga.
E siamo così arrivati al nodo centrale della questione, ovverosia a come debba essere, quali caratteristiche debba avere, e quindi che tipo di professionalità sia richiesta al magistrato per essere adeguato a esercitare il “controllo di legalità” di cui parliamo.
Enuncio subito, per essere estremamente chiaro, quali sono a mio giudizio le tre qualità fondamentali che il magistrato deve avere per essere a ciò idoneo:
- indipendenza
- competenza specifica
- continenza
tre doti “alte”, come si vede, e più di altre necessarie ai nostri fini.
Vediamo perché.
La spiegazione più facile riguarda l’indipendenza, che ovviamente si pretende sempre dal magistrato qualunque cosa egli faccia, ma la cui esigenza è però esaltata quando ciò che in concreto egli fa non è dare ragione a una di due sole parti in lite, oppure decidere se una certa persona ha commesso o meno una certa rapina, ma pronunciarsi dettando sostanzialmente una regola generale di comportamento, che poi servirà da modello in un numero indeterminato di casi, a un numero indeterminato di persone, a cui questo “modello” di comportamento potrà anche “costare”, ad esempio, una considerevole somma di denaro, da spendere in un modo o nell’altro, facendo così guadagnare di più qualcuno o qualcun altro. Compagnie di assicurazione, industrie produttrici di determinati strumenti, categorie professionali: innumerevoli sono i centri di interesse che possono avere, per l’appunto, interesse a che una certa regola, ad esempio di cautela o prevenzione, si imponga per via giurisprudenziale oppure no, e assolutamente letale sarebbe anche solo il sospetto che in casi simili il magistrato possa non agire con assoluta indipendenza.
Ma come garantire questa indipendenza?
L’unico modo, a mio giudizio, è quello di assicurare una prevenzione assoluta atta ad eliminare ogni possibilità di commistione di interessi, ben più penetrante di quella garantita dalle norme di incompatibilità per ragioni di natura familiare o comunque personale oggi previste dall’ordinamento giudiziario. Per chi pronuncia sentenze che di fatto dettano “regole generali” in materie ad alta sensibilità economica non basta più, ad esempio, l’incompatibilità personale prevista dall’articolo 16 dell’ordinamento giudiziario ad esercitare industrie, commerci o libere professioni, se poi tali attività in settori di possibile conflitto di interessi possono essere svolte da coniugi, figli, nipoti o parenti vari. Così come del tutto insufficiente è non tanto la disciplina astratta ma l’applicazione concreta che se ne fa in materia di incompatibilità per rapporti di parentela o affinità con avvocati ai sensi dell’art. 18 sempre dell’ordinamento giudiziario, che lascia in realtà margini estremamente ampi al permanere di situazioni opache che suscitano diffidenze, poco importa se fondate o meno. Né, a tutto ciò, si pensi che può servire come rimedio l’incompatibilità di cui all’articolo 2 della legge sulle guarentigie, che è oggi un’arma normativamente così spuntata che ogni applicazione che se ne faccia è destinata quasi inevitabilmente a clamorose smentite nelle successive sedi giudiziarie. Occorrerebbe, quindi, un maggiore e più esplicito rigore normativo in tutti questi casi. Sono un magistrato e mi costa, quindi, dire cose del genere, ma credo che sia mio dovere farlo per non tradire l’obbligo, che avverto, di sincerità nei confronti di chi mi sta ascoltando.
La seconda dote che ho indicato è la competenza specifica, che si spiega considerando innanzitutto che i settori di intervento del magistrato nei quali le sue decisioni sono più di altre destinate a esercitare un controllo di legalità dettando di fatto “regole” più generali sono normalmente caratterizzati da un spiccato livello di “tecnicismo”. E, in ogni caso, se si è creata in Italia una situazione per cui alle decisioni giudiziarie si attribuisce un tale rilievo da divenire atti di controllo della legalità in un’accezione tanto estesa come quella che abbiamo descritto, mi sembra normale pretendere che esse siano assunte da giudici altamente competenti nel settore di pertinenza.
Ma come si può garantire questa specifica competenza?
Anche in questo caso mi permetto di dire che è necessario fare molti passi avanti rispetto alla situazione attuale, che anzi talvolta addirittura ostacola la “specializzazione”, che è l’unica modalità attraverso cui si ottiene la “competenza specifica” nei diversi settori.
E’ di estrema attualità, ad esempio, la polemica contro la temporaneità decennale delle funzioni giudiziarie, polemica fondatissima proprio nell’ottica di cui stiamo parlando, perché è certo che le attuali previsioni normative ostacolano la possibilità di “sfruttare” al meglio le professionalità specifiche faticosamente acquisite negli anni, dirottando chi più sia diventato “competente” in una determinata materia ad altri incarichi. Il tutto aggravato da una motivazione basata su una sorta di “sospetto” pregiudiziale e astratto, e quindi del tutto arbitrario.
Un’altra situazione che ostacola la “competenza specifica” dei magistrati è data dall’attuale geografia giudiziaria, che vede gli uffici giudiziari frammentati in moltissimi tribunali spesso troppo piccoli per poter garantire un qualsiasi livello di specializzazione dei magistrati ad essi addetti, e addirittura una miriade di sezioni distaccate di tribunale che, per loro natura, sono la “contraddizione” stessa della specializzazione. E’ questione troppo nota perché vi si spendano anche solo poche parole, la speranza è solo quella che l’attuale percorso riformatore in materia possa concludersi regolarmente. Ed è un percorso riformatore, si badi bene, a mio giudizio comunque ancora inadeguato, perché aver previsto l’obbligo di mantenere un tribunale presso ogni capoluogo di provincia, in uno Stato in cui le province amministrative sono così tante, comporterà comunque la permanenza di troppi tribunali di dimensioni così piccole da non garantire la possibilità di un’adeguata specializzazione in ogni settore di intervento.
E veniamo alla “continenza”, che è la terza delle qualità che ho prima elencato, ed è anche a mio giudizio la più difficile da valutare, e sulla quale è quindi opportuno spendere qualche parola in più.
Definiamola, innanzitutto. Per “continenza”, nell’accezione che qui interessa, io intendo la capacità di sfruttare tutta l’estensione delle possibilità di agire ma senza prevaricare, ovverosia, in altri termini, con la consapevolezza dei propri poteri ma anche dei limiti ad essi; consapevolezza di tali limiti che è fondamentale per il magistrato italiano che, per le ragioni che abbiamo detto, è chiamato più di altri, dall’occasione più che dalla vocazione, a svolgere un ruolo di “controllo della legalità” che travalica ormai di molto quello di solutore delle controversie contingenti e che contribuisce, insieme con la legge scritta, alla vera e propria “creazione del diritto”.
Mi viene in mente, a questo proposito, un concetto di Noam Chomsky, che è stato un grande professore di linguistica americano, il quale espresse in maniera stupefacente per chiarezza e lucidità la distinzione fondamentale tra “creatività governata da regole” e “creatività senza regole”. E’ un aforisma che si adatta perfettamente al caso nostro. Il magistrato, nel momento in cui esercita il controllo di legalità, deve avere presente il limite alla sua “creatività” che è dato dalla “legge”, scritta e promanante da istituzioni democratiche di competenza e dignità almeno pari alla sua, vincolante almeno al pari delle sue decisioni e per tutti, anche per lui. Il magistrato deve, quindi, contribuire a “creare” il diritto con la sua giurisprudenza ma “secondo le regole”, e la regola prima che deve osservare è il rispetto della legge. “Interpretazione”, quindi, e non “invenzione” della legge.
Sembra facile, ma non lo è. Per saperlo fare, e per essere convinti innanzitutto di “doverlo” fare, l’ideale (ovviamente irraggiungibile) sarebbe avere la statura di uomo di Stato di Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, che acquistò la Louisiana da Napoleone (che aveva bisogno di denaro per le sue guerre in Europa) per pochi soldi, e quando si accorse che la Costituzione degli Stati Uniti probabilmente non gli permetteva questo acquisto propose un emendamento alla Costituzione che ratificasse il suo operato. A chi gli consigliava di non farlo e di sostenere invece che una possibile interpretazione della Costituzione gli avesse permesso l’acquisto, egli rispose così: “ Preferisco chiedere alla Nazione un allargamento di poteri che prendermelo da me con una interpretazione che ci darebbe poteri illimitati. La nostra peculiare sicurezza consiste in una Costituzione scritta. Non rendiamola, per via di interpretazione, un pezzo di carta bianca”.
Continenza nell’esercizio dei propri poteri, quindi, tanto più necessaria quanto più questi poteri si accrescono. Continenza della quale non aveva la minima idea, ad esempio, un magistrato che nel 1996 fu sottoposto a procedimento disciplinare. Era giudice di sorveglianza e nell’incolpazione disciplinare si legge testualmente che “ha sovrapposto le proprie personali scelte a quelle del legislatore in materia di licenze al condannato ammesso al regime di semilibertà, consapevolmente concedendo il detto beneficio in misura superiore al limite massimo..” previsto dalla legge. Era di 45 giorni all’anno questo limite massimo, ma a quel magistrato sembrava troppo poco, e allora ne concesse una volta 98, una volta 53, una volta 72, una volta 86 e via discorrendo.
Ecco, questo è per me il paradigma di ciò che una magistratura chiamata a esercitare il “controllo di legalità” non può fare, non può davvero permettersi. Ma la cosa più grave è che non solo lui pensava di poter fare così, ma anche la sezione disciplinare del C.S.M dimostrò di ritenere che lo potesse fare ( o che comunque la cosa non fosse tanto grave, chi vuole può recuperare la motivazione), tant’è che lo assolse!
Sono così giunto alla conclusione, in genere il momento in cui si deve parlare in termini “propositivi”. Cosa occorra fare per garantire che sempre più la professionalità dei magistrati italiani sia adeguata al compito immane di “controllo della legalità” a cui sono chiamati, l’ho già in parte detto parlando di alcuni interventi di riforma normativa che ritengo necessari. Ma forse ancora non bastano perché, a mio giudizio, l’altissimo ruolo che “coram populo” è loro assegnato non trova riscontro, sembra quasi che non sia condiviso dallo spirito della legge fondamentale in materia, ovverosia l’ordinamento giudiziario. Sia l’art. 11 del decreto legislativo n. 160 del 2006 in materia di criteri di valutazione della professionalità dei magistrati, sia il catalogo degli illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni previsto dall’art. 2 del decreto legislativo n. 109 dello stesso anno, parlano quasi sempre di laboriosità, impegno, diligenza, quasi mai di equilibrio e competenza, mai e poi mai di cultura e di sensibilità. Si punisce inesorabilmente chi dimentica qualcosa o ritarda qualcos’altra, ma nulla accade a chi dimostra scarso senso di responsabilità e inconsapevolezza del proprio ruolo. In parole povere, è tutto ritagliato, nell’ordinamento giudiziario, sul “metro” delle qualità che occorrono a un buon burocrate (e quindi alle conseguenze negative della carenze di tali qualità) che non a chi sia investito di altissime funzioni istituzionali. Ma il magistrato non è un burocrate, e non lo deve diventare, nemmeno per ottenere delle buone valutazioni, e, soprattutto, nemmeno per evitare possibili sanzioni. Questo è invece un rischio, molto concreto, che oggi stiamo correndo, e che occorrerà invece studiare il modo di sventare per far sì che sempre più i magistrati italiani sia adeguati all’altissimo compito, il “controllo di legalità”, al quale sono chiamati.
Antonio Patrono