Sommario: 1. I diritti fondamentali dell’individuo dalla Rivoluzione francese alla Carta di Nizza. - 2. I non coincidenti valori alla base delle Corti Europee. – 3. Il discutibile bilanciamento fra valori del mercato e diritti fondamentali in tema di professioni intellettuali. – 4. Il dialogo e il contrasto tra Corti europee e nazionali. – 5. Le nostre Corti Supreme e la tutela dei diritti fondamentali della collettività.
1. I diritti fondamentali dell’individuo: dalla Rivoluzione francese alla Carta di Nizza. - Sono oramai innumerevoli i testi normativi sia internazionali sia di singoli Paesi che riconoscono e tutelano i diritti fondamentali della persona umana.
Il testo che è considerato aver dato l’avvio all’età moderna della storia giuridica dell’uomo e rappresenta la fine definitiva del medioevo è la Dichiarazione dei Diritti dell'uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 (Déclaration des Droits de l'Homme et du Citoyen) – tuttora espressamente richiamato dall’attuale Costituzione francese del 1958 - elaborato nel corso della rivoluzione francese e contenente una solenne elencazione di diritti fondamentali dell'individuo ispirata alla Dichiarazione d'indipendenza americana del 4 settembre 1776.
Tale documento ha ispirato a sua volta pressoché tutte le carte costituzionali del mondo occidentale; gran parte del contenuto della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino è confluito infatti a sua volta nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata all’indomani della seconda guerra mondiale dalle Nazioni Unite a New York il 10 dicembre 1948, stesso anno in cui è entrata in vigore la nostra Costituzione.
Sempre sull’onda del moto di ripulsione per la sistematica negazione dei diritti umani che caratterizzò i regimi autoritari durante l’ultima guerra mondiale, fu stipulata la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (cd. CEDU, del cui rispetto si occupa la Corte europea dei diritti dell’uomo, cd. Corte di Strasburgo), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 858. A partire dalle sentenze della Corte costituzionale nn. 348 349 del 2007 la CEDU è stata “promossa” nella gerarchia delle fonti, e ora non è più considerata un semplice atto avente forza di legge (come leggi, decreti legge e decreti legislativi) ma si colloca in posizione intermedia tra quest’ultimi e le norme costituzionali.
Degli anni sessanta è la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici (meglio nota come Patto internazionale sui diritti civili e politici), trattato delle Nazioni Unite nato dall'esperienza della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e di cui è considerato un’evoluzione e una specificazione, adottato nel 1966, sottoscritto da tutti i più importanti Paesi del mondo ed entrato in vigore il 23 marzo del 1976.
A seguito dell’approvazione del Trattato di Lisbona, avvenuta il 1° dicembre 2009, il nuovo art. 6 del Trattato sull’Unione europea afferma che “L'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea [c.d. Carta di Nizza]… che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati”, e quindi i diritti fondamentali da essa riconosciuta sono entrati a pieno titolo a far parte dei valori dell’Unione europea che la Corte di Giustizia di Lussemburgo è tenuta a far rispettare e che la nostra Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, colloca nella gerarchia delle fonti addirittura sopra le norme costituzionale e sotto soltanto i diritti fondamentali e i principi fondamentali della Costituzione (cd. teoria dei contro limiti). I diritti fondamentali della persona riconosciuti dalla Carta di Nizza dunque si affiancano a quelli tutelati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e difesi della Corte di Strasburgo nonché a quelli della nostra Costituzione, di cui si fanno interpreti e protettori la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione.
2. I non coincidenti valori alla base delle Corti Europee. - La Corte di Giustizia dell’Unione europea da un lato, tradizionalmente deputata alla tutela del mercato, e Corte di Cassazione, Corte costituzionale e Corte Europea dei diritti dell’uomo dall’altro, più propense a prestare particolare attenzione al rispetto dei diritti fondamentali, hanno avuto negli ultimi anni un forte processo di “avvicinamento”.
Tuttavia, non può non rilevarsi la significativa differenza che tuttora persiste tra la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Carta di Nizza, in quanto mentre la prima carta dei valori attribuisce rilievo solo ai diritti fondamentali dell’individuo, la seconda contempla anche valori tipici del mercato (si pensi al riconoscimento della libertà d’impresa all’art. 16 e alla tutela dei consumatori all’art. 38) ([1]), e ammette esplicitamente, all’art. 52, eventuali limitazioni all’esercizio delle libertà e dei diritti dell’uomo riconosciuti dalla Carta.
Non può altresì dimenticarsi che i diritti fondamentali erano stati in precedenza trascurati dall’Unione europea, che, quando era ancora semplicemente “Comunità economica europea” ha rivolto i suoi sforzi quasi esclusivamente nella direzione di una integrazione economica ([2]), tralasciando altri aspetti, quali da un lato un tentativo concreto di creare un’effettiva unione politica e dall’altro un serio sforzo di imporre a tutti gli Stati membri il dovere di rispettare i diritti fondamentali.
Solo di recente si è acquisita la consapevolezza che una reale unione dell’Europa si può realizzare esclusivamente attraverso un’integrazione e una cooperazione in tutti i campi, ivi compresi i diritti fondamentali, anche proprio al fine di realizzare una più soddisfacente integrazione economica. Solo da pochi anni infatti si è quasi del tutto verificato il definitivo superamento della concezione iniziale dell’Unione europea, attenta solo ad una integrazione economica e a far valere il principio di libera circolazione delle persone, delle merci, dei sevizi e dei capitali ([3]).
Per quanto riguarda invece Cassazione e Corte costituzionale, si è assistito ad un processo per certi versi quasi opposto: esse hanno infatti solo negli ultimi anni finalmente pienamente metabolizzato e fatti propri i valori della concorrenza e del mercato (si pensi all’introduzione solo nel 1990 - legge n. 287 - di una disciplina antitrust nazionale, dell’inserimento per la prima volta nella Costituzione - all’art. 117, comma 2 - della parola “concorrenza” a seguito della riforma del titolo V nel 2001 ([4]); alla sentenza della Cassazione a sezioni unite del 2005 che ha per la prima volta riconosciuto al consumatore il diritto al risarcimento del danno da condotta anticoncorrenziale ([5]); alle numerose sentenze della Corte costituzionale che hanno ricondotto le misure legislative di liberalizzazione delle attività economiche - dalle professioni intellettuali alle concessioni demaniali agli stabilimenti balneari ([6]) - alla materia «tutela della concorrenza»; alle sempre più frequenti sentenze della Cassazione che sanzionano comportamenti illeciti della pubblica amministrazione per violazione della legge antitrust nell’assegnazione degli appalti ([7]) o nell’applicazione del principio di non discriminazione fra imprese ([8]).
Tuttavia, le nostre Corti nazionali, come del resto anche la Corte di Strasburgo, hanno fin dall’inizio saldamente avuto - e tuttora hanno - come obiettivo primario la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, e tale tutela ha anzi sicuramente avuto negli ultimi tempi un ulteriore impulso, ad opera da un lato della Corte costituzionale mediante la “promozione”, nella gerarchia delle fonti, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo a norme intermedie tra gli atti aventi forze di legge e la Costituzione - a partire dal 2007 ([9]) - e dall’altro della già ricordata entrata in vigore della Carta di Nizza nel 2009 ([10]). Infatti, la tutela dei diritti fondamentali è fermamente radicata nella nostra Costituzione del 1948 e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, perché si tratta di testi normativi che sono stati concepiti in primis non certo a tutela della concorrenza e del mercato ma proprio a tutela dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.), in un contesto storico-culturale fortemente scosso e influenzato dagli orrori della seconda guerra mondiale, dalle leggi razziali, dai campi di sterminio, e dunque nascono come reazione alla violazione sistematica dei diritti fondamentali che avvenne in quel periodo e alla conseguente completa degradazione e annullamento della dignità della persona umana ([11]). E’ in questa prospettiva che è ormai da tempo acquisita alla nostra cultura giuridica la c.d. teoria dei controlimiti, che risale alla sentenza della Consulta n. 170 del 1984, innumerevoli volte citata e confermata in seguito dalle nostre Corti nazionali, e che pone al vertice del nostro ordinamento i diritti fondamentali, i quali devono prevalere anche sul diritto dell’Unione europea che si ponesse eventualmente in contrasto con essi ([12]). Tale principio è stato ribadito dalla sentenza n. 238 del 2014, secondo la quale i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscono un limite all’ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, comma 1, Cost. ed operano quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea ([13]).
La nostra Corte di Cassazione, in sintonia con il dettato dell’art. 2 della Costituzione, ha dato effettivo riconoscimento a tali diritti fondamentali individuandone la loro effettiva essenza nella circostanza che portatore di tali diritti è l’uomo in quanto tale e non solo il cittadino: si pensi al filone giurisprudenziale in tema di immigrazione, ove si afferma che “sono costituzionalmente illegittime, perché ingiustificatamente discriminatorie, le norme che impongono nei soli confronti dei cittadini extraeuropei particolari limitazioni al godimento di diritti fondamentali della persona, riconosciuti ai cittadini italiani” ([14]).
Mentre in Italia i diritti fondamentali dell’uomo godono dunque di una dignità assoluta e di preminenza tra le fonti del diritto, nei Trattati dell’Unione europea essi si pongono sullo stesso piano delle altre disposizioni dei Trattati e degli altri principi e valori del diritto comunitario. Pertanto, in ambito UE il rispetto dei diritti umani viene contemperato con altri valori e principi comunitari come quelli relativi al mercato interno e alla libera circolazione di merci, persone, servizi, capitali, o concernenti la libera concorrenza o l’unione monetaria, tanto che la parola “fondamentali” viene più spesso abbinata non già a quella”diritti” ma a “libertà”, e non per intendere la libertà di movimento, di riunione o di associazione, ma libertà quali la libertà di stabilimento, di libera prestazione di servizi e di libera circolazione dei capitali ([15]). Già la sentenza della Corte di Giustizia CEE 14 maggio 1974, causa 4/73 (Nold contro Commissione) affermò in effetti che i diritti fondamentali possono essere sottoposti a limiti giustificati dagli obiettivi di interesse generale perseguiti dalla Comunità, purché non sia lesa la sostanza (quello che la nostra Corte costituzionale definirebbe “il nucleo essenziale”) di tali diritti; nelle nostre Corti nazionali e nella Corte EDU ([16]) è dunque ancora saldamente al centro delle tutele l’uomo, la persona umana, mentre nella filosofia della Corte di Giustizia dell’Unione europea riveste tuttora una posizione preminente il corretto funzionamento del mercato, anche se nella più o meno raggiunta consapevolezza che esso altro non è che un luogo ove agiscono persone umane, una di quelle formazioni sociali cioè cui fa riferimento l’art. 2 Cost. ([17]).
3. Il discutibile bilanciamento fra valori del mercato e diritti fondamentali in tema di professioni intellettuali. – Pur se sempre affermata e confermata, la teoria dei controlimiti, che racchiude in sé il concetto di sovraordinazione gerarchica dei diritti fondamentali rispetto ai valori del mercato rappresentati dalle norme dell’Unione europea, non è stata mai in concreto utilizzata dalla Corte costituzionale per dichiarare l’incostituzionalità di qualche norma europea. Sempre meno spesso i conflitti tra norme europee e quelle dei singoli Stati membri sono infatti affrontati e risolti dalle Supreme Corti nazionali impostando il problema in termini di rigidi rapporti di gerarchia tra le fonti o di individuazione delle rispettive sfere di competenza: in presenza di una pluralità di interessi potenzialmente in contrasto tra loro si tende infatti a ragionare in termini di necessario bilanciamento tra gli interessi stessi ([18]), dovendosi altresì tenere presente che nel caso concreto può accadere che la limitazione in minima parte di un diritto può consentire la salvaguardia di un altro interesse che altrimenti sarebbe interamente sacrificato.
Un campo ove si è assistito non ad un contrasto tra Corti europee e nazionali ma a decisioni contraddittorie con i valori affermati dalle rispettive Corti è quello concernente la “liberalizzazione” delle professioni intellettuali, ove il rapporto tra tutela della concorrenza e dei diritti fondamentali alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia e delle Corti nazionali è stato infatti affrontato e risolto in maniera poco coerente.
In effetti, già l’atteggiamento della disciplina legislativa italiana è profondamente diverso rispetto a quello dell’Unione europea. In Italia il professionista intellettuale gode di una disciplina ad hoc (artt. 2229 c.c. ss.) - ben distinta da quella dell’imprenditore (artt. 2082 c.c. ss.) - basata sul principio della personalità della prestazione, sulla sua non fallibilità, sull’assenza di un obbligo di iscrizione del registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili, su di una giurisprudenza che attribuisce al cliente l’onere della prova della non diligenza del professionista. Eppure non vi è una differenza “ontologica” fra l’attività dell’imprenditore in senso stretto e quella del professionista intellettuale: si pensi infatti all’ipotesi in cui la prestazione intellettuale sia fornita mediante un soggetto (ad esempio il proprietario di una clinica privata) che stipendia e organizza l’attività di professionisti intellettuali (ad esempio i medici che lavorano nella clinica): questi rimane pur sempre un imprenditore; ancora, il farmacista titolare di una farmacia riveste allo stesso tempo il ruolo del professionista intellettuale e dell’imprenditore. La ragione di una disciplina nettamente differenziata nel codice civile del 1942 italiano del professionista intellettuale rispetto all’imprenditore deve invece ricercarsi in una condizione di privilegio che la nostra legge concede - sulla base di un’antica tradizione che risale al Medio Evo e alla nascita delle corporazioni – a coloro che esercitano le cosiddette professioni intellettuali ([19]).
Nell’Unione europea invece il professionista intellettuale è assimilato all’imprenditore, tanto che l’art. 3 del codice del consumo, che recepisce una direttiva comunitaria, unifica le due figure nell’unica definizione di professionista, che è colui agisce nell'esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale. Nella concezione più pragmatica, di origine anglosassone, dell’unione europea, professionista intellettuale e imprenditore vanno assimilati perché sono entrambi due soggetti che vendono beni o servizi sul mercato a fini di lucro e come tali vanno assoggettati in condizioni di parità, alle stesse regole di concorrenza (di cui il codice del consumo costituisce una espressione).
Fatta questa premessa, la parola “liberalizzazione” nel nostro ordinamento va intesa, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza n. 200 del 2012), non come una semplice e brutale abolizione di norme (c.d. “deregulation”) - che significherebbe disconoscere il limite dell’utilità sociale di cui all’art. 41, comma 2, Cost. – ma come una più ragionevole organizzazione della disciplina. Le liberalizzazioni nel campo delle professioni intellettuali consentono altresì di permettere l’esercizio di una diritto, quello dell’individuo di esplicare la propria personalità mediante l’esercizio di un’attività lavorativa (cfr. artt. 1, 2, 4 e 35 Cost.), che, a differenza di quello alla libertà del diritto di iniziativa economica – che presuppone l’interferenza dell’attività economica con altri valori costituzionali e che quindi è suscettibile di limitazioni anche significative – non può che essere considerato fondamentale.
Tale diritto, nel quadro della nostra Costituzione, non può però che essere bilanciato con quello della collettività ad avere a che fare con professionisti preparati, principio a sua volta il più delle volte posto a protezione di diritti fondamentali (così, ad esempio, nel caso dell’avvocato a tutela del diritto di difesa, e nel caso del farmacista a tutela del diritto alla salute).
Qui di seguito però si propongono due esempi – riguardanti il primo l’avvocato e il secondo il farmacista - in cui questo bilanciamento non sembra essere stato effettuato con il dovuto equilibrio.
Per quanto riguarda l’avvocato, secondo la Cassazione a sezioni unite ([20]), in base alla normativa comunitaria concernente il reciproco riconoscimento dei titoli abilitanti all'esercizio di una professione, il soggetto munito di un titolo equivalente a quello di avvocato conseguito in un Paese membro dell'Unione europea (nella specie, la Spagna), qualora voglia esercitare la professione in Italia, ha diritto ad essere iscritto nell'albo ordinario con il titolo di avvocato, senza necessità di sostenere alcuna prova attitudinale, e ciò in ragione del richiamo al principio della libertà di stabilimento e alle relative sentenze che hanno fatto applicazione di tale principio ([21]). Pertanto, il soggetto munito di equivalente titolo professionale di altro Paese membro può chiedere l'iscrizione nella Sezione speciale dell'Albo italiano del foro nel quale intende eleggere domicilio professionale in Italia, utilizzando il proprio titolo d'origine (ad es., quello, spagnolo, di «abogado») e, al termine di un periodo triennale di effettiva attività in Italia, può chiedere di essere "integrato" con il titolo di avvocato italiano e l'iscrizione all'Albo ordinario. Attraverso tale procedimento l'interessato è dispensato dal sostenere la "prova attitudinale", richiesta a coloro che chiedono l'immediato riconoscimento del titolo di origine e l'immediato conseguimento della qualifica di avvocato. In base a tali principi la sentenza da ultimo citata della Cassazione ha riconosciuto l'illegittimità del rifiuto opposto dal Consiglio dell'ordine degli avvocati di Palermo alla domanda di da parte di un italiano abogado in Spagna di iscrizione nella Sezione speciale del locale Albo riservata agli avvocati comunitari stabiliti.
Ancora più recentemente le sezioni unite ([22]) hanno confermato questo orientamento di favore per l’avvocato stabilito affermando che, in base alla normativa comunitaria volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale, i nostri consigli dell’ordine non possono chiedere all’avvocato stabilito il possesso del requisito, che pure è previsto dalla legislazione nazionale forense per i “nostri” avvocati, della condotta irreprensibile.
E’ evidente dunque che con questa decisione, la Cassazione, adeguandosi a quanto deciso dalla Corte di Giustizia, non ha ritenuto (o ha dimenticato) che il principio costituzionale, espresso dal comma 5 dell’art. 33 Cost., secondo cui “è prescritto un esame di Stato… per l’abilitazione all’esercizio professionale” è posto a tutela del diritto di difesa del cittadino ex art. 24 Cost., e quindi, assumendo dignità di principio fondamentale, dovrebbe prevalere rispetto ai principi di libera concorrenza e libertà di stabilimento dei lavoratori.
Venendo all’esempio del farmacista, una pronuncia del 2013 della Corte di Giustizia ([23]) per certi versi di segno opposto rispetto a quella riguardante l’avvocato (perché nel caso del farmacista il diritto fondamentale alla salute è prevalso sulla concorrenza mentre nel caso dell’avvocato la concorrenza ha avuto la meglio sul diritto di difesa) ma che lascia ugualmente delle perplessità (perché entrambe le fattispecie avrebbero probabilmente essere dovute decidere in maniera opposta alla luce di un più equilibrato e meno frettoloso bilanciamento di interessi) ha riconosciuto la legittimità della disciplina normativa italiana che impone un numero chiuso alle farmacie.
La Corte costituzionale ([24]), riprendendo e citando in gran parte le motivazioni della sentenza della Corte di Giustizia da ultimo citata, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 5, co. 1, del d.l. n. 223 del 2006 nella parte in cui non consente alle parafarmacie la vendita di medicinali di fascia C (farmaci utilizzati per patologie di lieve entità) soggetti a prescrizione medica. La Corte di Giustizia e la Corte costituzionale non tengono però conto che la legge italiana già impone il prezzo dei farmaci soggetti a prescrizione e detta una severa disciplina riguardante l’apertura delle c.d. farmacie rurali, in modo da garantire una capillare distribuzione delle farmacie su tutto il territorio. E’ evidente che il diritto di iniziativa economica, ma prima di tutto il diritto al lavoro del farmacista iscritto all’albo ma non titolare di farmacia, è irragionevolmente sacrificato dall’esistenza di un numero chiuso (la c.d. pianta organica).
In effetti il paradosso è che mentre l’avvocato che non abbia sostenuto l’esame di abilitazione può esercitare liberamente la propria professione, il farmacista che non possieda la relativa licenza non può svolgere l’attività - imprenditoriale e professionale allo stesso tempo - di farmacista, pur se iscritto all’albo e quand’anche, per ipotesi, fosse pacificamente riconosciuto di particolare bravura, ma dovrà limitarsi a compiere l’attività di c.d. “farmacista dipendente”, con prospettive di guadagno assai modeste e con l’assoggettamento al potere gerarchico, disciplinare e organizzativo di un suo collega, con evidente disincentivazione dallo svolgimento di tale attività, e con conseguente perdita di una possibile preziosa risorsa per il diritto alla salute della collettività. E’ così dunque che l’acquisto della piena consapevolezza dell’esistenza di un diritto fondamentale in capo agli operatori economici a poter svolgere liberamente l’attività che più si desidera non può che contribuire ad innescare un processo circolare virtuoso per cui l’affermazione di tale diritto stimola le liberalizzazioni e queste ultime, contribuendo a creare ricchezza, consentono di destinare maggiori risorse a tutela dei diritti fondamentali. Ecco dunque che il perseguimento delle liberalizzazioni delle professioni intellettuali (ossia la possibilità di far esplicare a tutti la propria libertà di iniziativa economica e quindi il garantire una politica di concorrenza rigorosa) non va necessariamente a scapito dell’utilità sociale (ossia dei diritti fondamentali della collettività) ma al contrario, come era nell’idea del Costituente, la rafforza; e il perseguimento dell’utilità sociale, a sua volta, fornisce nuovo vigore ad una politica di liberalizzazioni, da intendersi, come detto, non come mera deregulation ma come razionalizzazione della regolazione (ossia come eliminazione di tutte e solo quelle norme che impediscano un pieno sviluppo della concorrenza e che non siano poste a presidio di diritti fondamentali).
4. Il dialogo e il contrasto tra Corti europee e nazionali. - Alla luce di quanto detto nei paragrafi precedenti, deve dunque ritenersi che il legame tra Corte di Giustizia dell’Unione europea e Corte di Strasburgo da un lato e Corte di cassazione e Corte costituzionale dall’altro debba sempre svolgersi nella piena consapevolezza e nel rispetto della diversità del patrimonio culturale e giuridico acquisito faticosamente negli anni, evitando un acritico recepimento delle decisioni altrui ma mirando piuttosto ad un rapporto non a senso unico ma di continua collaborazione, che richiede la necessità di un dialogo sempre più stretto tra le varie Corti.
Un esempio di proficuo dialogo tra una Corte europea ed una nazionale si è avuto a seguito dell’ordinanza con la quale la Cassazione ([25]) ha proposto alla Corte di giustizia due questioni riguardanti il trattamento dei dati personali contenuti nel registro delle imprese che, secondo quanto previsto dall’art. 6, lett. e), della direttiva 46/95/CE, attuata in Italia con il d.lgs. n. 196 del 2003, cd. codice della privacy, possono essere custoditi, elaborati e pubblicizzati solo per il tempo strettamente necessario al conseguimento delle finalità per le quali sono stati acquisiti. La Cassazione si chiede se tale disciplina di derivazione comunitaria, posta a protezione della riservatezza e del conseguente diritto all’oblio, debba prevalere sul sistema di pubblicità commerciale istituito con il registro delle imprese, pure di derivazione comunitaria, che prevede anche per le persone fisiche la conservazione dei dati rilevanti senza limiti di tempo e se, dunque, anche tali dati non debbano invece essere disponibili per un periodo di tempo limitato e in favore di destinatari determinati. Premesso che scopo della pubblicità commerciale è quello di rendere noto oppure opponibile un certo fatto giuridico, al fine della sicurezza dei traffici giuridici e del mercato, che solo il nucleo essenziale di ogni diritto fondamentale è insopprimibile e che anche gli interessi del mercato hanno una rilevanza tale da poter determinare una limitazione dei diritti fondamentali, il problema prospettato dalla Cassazione alla Corte di Giustizia è dunque quello di come operare il corretto bilanciamento tra trasparenza dei traffici commerciali e il diritto fondamentale alla riservatezza e alla protezione dei dati personali. La Corte di Giustizia ([26]), dopo aver sottolineato la centralità e l’importanza della pubblicità commerciale, nel rispondere alla Cassazione ha però affermato che spetta ai singoli Stati membri determinare se le persone fisiche possano chiedere all’autorità incaricata della tenuta del registro delle imprese di verificare, in base ad una valutazione da compiersi caso per caso, se sia eccezionalmente giustificato, per ragioni preminenti e legittime connesse alla loro situazione particolare, decorso un periodo di tempo sufficientemente lungo dopo lo scioglimento della società interessata, di limitare l’accesso ai dati personali ai soli terzi che dimostrino un interesse specifico alla loro consultazione. Tale interpretazione del diritto europeo costituisce, secondo la Corte di Lussemburgo, un ragionevole bilanciamento degli interessi in gioco perché, pur salvando nella sostanza l’attuale sistema di pubblicità commerciale, non sfocia in un’ingerenza sproporzionata nei diritti fondamentali delle persone interessate, ed in particolare nel loro diritto al rispetto della vita privata nonché nel loro diritto alla tutela dei dati personali, garantiti dagli articoli 7 e 8 della Carta di Nizza, in ragione del limitato numero di dati personali pubblicizzati dal registro.
In questa prospettiva, vanno accolte con favore le prassi virtuose che si stanno sviluppando in Italia, nel senso di un sempre maggior uso del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea ex art. 267 del Trattato sul funzionamento sull’Unione europea di Roma, non solo per chiarire dubbi interpretativi riguardanti il diritto dell’Unione europea, ma anche per prevenire possibili motivi di conflitto tra tale diritto e i principi fondamentali della Costituzione, ossia con una volontà costruttiva di risolvere tali problemi, in un’ottica di “leale collaborazione” ([27]) tra Corti. Tale espressione – finora utilizzata dalla Consulta solo con riferimento al rapporto tra organi nazionali tra loro, come ad esempio quello tra Stato e Regioni - è utilizzata dalla sentenza della Corte costituzionale nel 2017 ([28]) per motivare la necessità di una cooperazione tra l’Italia e l’Unione europea: con tale sentenza si è investita la Corte di Giustizia della questione relativa alla compatibilità del contenuto della sentenza Taricco del 2015 della Corte di giustizia ([29]), ispirata dal fine di dare prevalenza agli interessi economici dell’Unione europea sui principi fondamentali della nostra Costituzione in tema di principio di legalità nel diritto penale. Tale sentenza della Corte di Lussemburgo infatti ha “allungato” i termini di prescrizione dei reati di frode fiscale - commessi in Italia ma di rilevanza comunitaria perché riguardanti l’IVA, che contribuisce a finanziare l’Unione europea - così dettando – mediante una sentenza della Corte di Giustizia oltretutto caratterizzata da una certa indeterminatezza delle situazioni cui si riferisce - una disciplina penalistica più sfavorevole al reo, nonostante in Italia la prescrizione sia un istituto avente carattere di diritto sostanziale, come tale riservato alla competenza del legislatore statale e soggetto al principio di legalità nelle sue esplicazioni della sufficiente determinatezza della norma e dell’irretroattività della legge penale più sfavorevole ([30]). La Corte costituzionale, con la poc’anzi citata sentenza del 2017, afferma dunque con forza l’importanza dei diritti fondamentali dell’uomo, che possono essere compressi ma non esclusi quando entrano in bilanciamento con altri valori, quali quelli economici dell’Unione.
La Corte di Giustizia, con sentenza della grande sezione del 5 dicembre 2017, C-42/17, ha riconosciuto nel caso specifico le ragioni della Corte costituzionale, affermando che l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di imposta sul valore aggiunto, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.
Deve tuttavia rilevarsi che la Corte di Giustizia è giunta a queste conclusioni non sulla base di una ammissione della validità delle teoria dei contro limiti, ma ritenendo che i diritti fondamentali invocati dall’Italia fossero in realtà patrimonio comune anche dell’Unione Europea, sottolineando anzi il primato del diritto dell’Unione: infatti la sentenza della Corte di Giustizia conclude affermando che resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità o l’effettività del diritto dell’Unione (sentenza del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson, C-617/10, EU:C:2013:105). La Corte di Lussemburgo dunque non riconosce la teoria dei contro limiti, ossia l’affermazione che possa esistere, nella gerarchia delle fonti, un qualcosa (i diritti fondamentali, perlomeno nel loro nucleo essenziale) che possa “stare sopra”, essere sovraordinato rispetto al diritto dell’Unione europea. Non può dunque non evidenziarsi il sordo contrasto che tuttora esiste tra Corte di Lussemburgo e le nostre Corti nazionali e al contempo il tentativo delle Corti di arrivare a soluzioni di compromesso nei casi specifici (si pensi al caso della liberalizzazione della professione di avvocato in cui è evidente l’aver “chiuso un occhio” da parte delle nostre Corti in nome del mantenimento di buoni rapporti con la UE e al caso Taricco appena descritto in cui è la UE con la sentenza del dicembre 2017 che invece accetta le nostre tesi, pur ribadendo il principio della supremazia del diritto dell’Unione).
La nostra Corte costituzionale è dunque molto attenta a esigere il rispetto dei diritti fondamentali da parte delle Autorità estere, anche se magari tale prevalenza ([31]) non viene completamente esplicitata nelle motivazioni, come nel caso della c.d. sentenza Alitalia n. 270 del 2010 ([32]), che, senza una affermazione esplicita in tal senso, nel ritenere legittima la fusione tra Alitalia e Air One che impedì la messa in liquidazione della prima, ha però in concreto sancito la prevalenza del diritto fondamentale al lavoro sulle rigide norme in tema di concorrenza non solo nazionali ma anche dell’Unione europea, che avrebbero impedito - con conseguente perdita di posti di lavoro - la fusione tra le due maggiori compagnie aeree italiane, in quanto tale fusione integrava a tutti gli effetti una concentrazione anticoncorrenziale. Tale prevalenza dei diritti fondamentali è stata ulteriormente ribadita dalla sentenza n. 238 del 2014, secondo la quale i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscono un limite anche all’ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, comma 1, Cost. (nella specie si trattava del principio secondo cui gli Stati sovrani non rispondono dei crimini di guerra: la Consulta ha invece condannato la Germania a risarcire i danni cagionati a seguito dei crimini perpetrati durante la seconda guerra mondiale) ed operano quali “controlimiti” all’ingresso delle norme (o delle sentenze che di esse sono espressione, come nel caso di specie, ove si trattava di una sentenza della Corte internazionale di Giustizia dell’Aia) in contrato con l’Unione europea.
Quand’anche ci si ponga nella prospettiva dell’Unione europea, i diritti fondamentali sono sì suscettibili di essere bilanciati con altri valori, ma solo se questo sacrificio sia dettato da esigenze particolarmente meritevoli di tutela – ossia dalla necessità di contemperare tali diritti con altri (tra i quali sicuramente rientrano quelli espressi dal mercato) – e purché non sia mai intaccato il nucleo irrinunciabile, lo “zoccolo duro” dei diritti fondamentali ([33]).
Le leggi del mercato, impersonate dalle motivazioni della sentenza Taricco della Corte di Giustizia e i diritti fondamentali della persona, difesi nella citata sentenza del 2017 della Consulta, sono probabilmente conciliabili a patto che il dialogo fra le Corti sia costituito da una effettiva volontà reciproca di trovare una soluzione al problema – che passa inevitabilmente dalla necessità di reciproche concessioni - e non si riduca soltanto ad una affermazione delle proprie ragioni che non tenga conto delle altrui esigenze. L’Italia effettivamente afferma dei principi di diritto nobili e indiscutibili, ma si scontra con la sua atavica incapacità di metterli in pratica e con le sue proverbiali inefficienze. La Corte di Giustizia sanziona l’Italia facendole rimarcare che i diritti fondamentali vanno conquistati e sudati e non solo affermati, in quanto un sistema giustizia lento e farraginoso come quello italiano non può permettersi una quantità di garanzie per l’imputato eccessive (si è già ricordato del resto che l’art. 52 della Carta di Nizza, che eventuali limitazioni all’esercizio delle libertà e dei diritti riconosciuti dalla Carta possono essere previste dalla legge), e le ricorda che nell’aderire all’Unione europea ha preso dei precisi impegni nel combattere le frodi, ma la stessa Corte non tiene conto che i principi presenti nella Costituzione italiana, così come elaborati dalla giurisprudenza delle sue Corti supreme, costituiscono il più alto livello di garanzia dell’imputato e contribuiscono a costituire le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri cui l’Unione europea deve conformarsi ([34]).
Un conflitto per certi versi opposto si è verificato con una sentenza della Corte di Strasburgo del 2017 (c.d. sentenza De Tommaso) ([35]): qui la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 2 del IV Protocollo della Convenzione - che garantisce la libertà di circolazione - da parte del d.lgs. n. 159 del 2011 in tema di misure di prevenzione nei confronti di soggetti “pericolosi” ([36]), in quanto tale norma italiana non garantisce adeguatamente la prevedibilità della misura e la sua applicazione è rimessa alla discrezionalità del giudice in contrasto con il principio di determinatezza e tassatività. In particolare, la Corte EDU ha ravvisato una violazione della libertà di circolazione per difetto di prevedibilità e precisione delle norme relative ai soggetti idonei e alle condizioni necessarie per l’applicazione della misura di prevenzione, nonché alle prescrizioni che il giudice può imporre per dar corpo alla misura. La Corte EDU non si addentra più di tanto nella questione giuridica circa la natura giuridica delle misure di prevenzione, a lei interessando soltanto che, aldilà della qualificazione formale di tali misure come sanzioni penale (circostanza negata dalla Cassazione), esse, in quanto rappresentano sostanzialmente una pena, godano delle garanzie proprie della Carta EDU. La sentenza De Tommaso è dunque un caso in cui la Corte EDU chiede all’Italia, non di limitare – come invece accaduto con la Corte di Giustizia nel caso Taricco ricordato in precedenza - ma di allargare lo spazio del diritto penale ([37]).
Un discorso per certi versi del tutto analogo può farsi per quanto riguarda il lungo e complesso contenzioso che ha visto l’intervento della Corte EDU, della Corte costituzionale e della Cassazione in tema di confisca dei beni connessi alla commissione di un reato: la Corte di Strasburgo infatti ([38]) ritiene che la “materia penale” debba essere destinataria di tutte le garanzie previste dalla Convenzione, a prescindere dalla qualificazione formale della confisca come amministrativa o penale effettuata dal singolo Stato membro (amministrativa nel caso dell’Italia, penale da parte della Corte di Strasburgo). La Corte EDU in varie sentenze ha dunque elaborato una nozione di “materia penale” senza considerare la qualificazione data dai singoli Stati, sottolineando che ai fini della sua individuazione occorre verificare non cosa è formalmente oggetto di sanzione penale quanto la natura punitiva o meno della sanzione ([39]). A tale visione sostanzialistica della Corte di Strasburgo ([40]) l’Italia sembra essersi adeguata affermandosi, sia da parte della Consulta ([41]) che da parte della Cassazione a sezioni unite ([42]), che la confisca può essere effettuata, pur quando il reato sia prescritto, se sia comunque stata accertata la responsabilità dell’imputato, e quando quindi tale sanzione – che per la Corte EDU ha natura penale – non venga riferita all’imputato a titolo di responsabilità oggettiva.
Il problema della natura amministrativa o penale di una disciplina riguarda anche il d.lgs. n. 231 del 2001 in tema di responsabilità da reato degli enti, responsabilità che ha una natura “mista” penale/amministrativa: peraltro, secondo la Corte di Giustizia UE, la mancata previsione della possibilità di costituirsi parte civile contro l'ente imputato ex d.lgs. n. 231 del 2001 non è in contrasto col diritto dell'Unione ([43]). La Corte di Lussemburgo sottolinea espressamente che il diritto dell’Unione europea non contiene alcuna indicazione in base alla quale il legislatore dell'Unione avrebbe inteso obbligare gli Stati membri a prevedere la responsabilità penale delle persone giuridiche. La questione della sostanza della responsabilità “amministrativa” degli enti nel diritto italiano resta, con tutto ciò, quanto mai aperta, perché ad essere in gioco non è tanto il problema della tutela risarcitoria della vittima, quanto lo statuto garantistico di tale responsabilità nei riguardi dello stesso ente, al quale è a tutt'oggi dubbio se debbano o meno applicarsi le garanzie che la nostra Costituzione e le carte internazionali dei diritti umani (prime fra tutte, la Corte EDU e la Carta dei diritti fondamentali dell'UE) stabiliscono in materia di diritto e processo penale: legalità dei reati e delle pene in tutti i suoi corollari, personalità e colpevolezza, funzione rieducativa e proporzione della pena, presunzione di innocenza, giusto processo, doppio grado di giurisdizione, ne bis in idem, obbligatorietà dell'azione penale, etc. Ed è verosimile che una parola più netta, sul punto, possa presto venire dall'altra Corte europea, quella di Strasburgo, la quale è peraltro da tempo stabilmente orientata in favore di quell'approccio "sostanzialista" oggi prudentemente rifiutato dalla cugina Corte di Lussemburgo.
Sembra dunque che le ragioni di conflitto fra gli ordinamenti europei di Lussemburgo e Strasburgo e quello italiano si stia spostando nella direzione di quale sia lo spazio riservato al diritto penale sostanziale, ossia cosa possa essere in esso sussunto (con le conseguenti maggiori garanzie che tale sussunzione comporta), e quindi quali materie possano ad esso ricondursi. All’Europa non sembra infatti tanto premere cosa l’Italia consideri far parte del diritto penale sostanziale e cosa no; interessa piuttosto che, a prescindere dalle etichette formali e dall’approfondimento del problema giuridico della natura penale o meno di un certo istituto, una certa area giuridica di interesse per le Corti europee venga o meno interessata dalle relative garanzie. I valori portati europei avanti dalle Corti europee entrano dunque prepotentemente nel nostro ordinamento e vengono tenuti nella dovuta considerazione dalle nostre Corti nazionali.
5. Le nostre Corti Supreme e la tutela dei diritti fondamentali della collettività. – Accanto ai valori del mercato e ai diritti fondamentali dell’individuo, le nostre Corti nazionali si sforzano però di prendere in considerazione e tutelare anche diritti - altrettanto fondamentali come quelli dell’individuo - riferibili alla collettività, fra i quali non possono non citarsi il diritto alla salute (si pensi al caso dei farmacisti citato nel secondo paragrafo), all’ambiente, al lavoro, alla sicurezza (e quindi alla repressione dei reati) ([44]).
Questi valori, probabilmente in parte trascurati dalle Corti di Lussemburgo e di Strasburgo, costituiscono invece oggetto di bilanciamento con altri valori nelle decisioni delle nostre Corti nazionali con i diritti fondamentali dell’individuo, e sempre più spesso tendono a prevalere su quest’ultimi ([45]). In effetti, quelli che potremmo definire “i diritti fondamentali della collettività” erano stati nel dopo guerra - con il superamento dell’ideologia fascista e nazista ([46]) che aveva portato alla seconda guerra mondiale - per così dire “accantonati” a favore dei diritti fondamentali dell’individuo. Anche in Italia, durante il periodo fascista, avevano preso piede istituti quali le corporazioni o il riferimento all’interesse della nazione; si pensi altresì alla concezione della causa come funzione economico-sociale, solo successivamente superata da quella della causa come funzione economico-individuale.
Con il tempo si è superato il timore che la tutela dei diritti fondamentali della collettività potesse essere accostata a quelle ideologie e, soprattutto a partire dal XXI secolo, sono stati “riscoperti” dei valori che, pur presenti nella Costituzione, sono stati per decenni accantonati: l’espressione costituzionale più significativa dei diritti fondamentali della collettività è rappresentata dalla formula dell’“utilità sociale” di cui al comma 2 dell’art. 41 Cost., per molto tempo infatti trascurata.
Ad esempio secondo la sentenza n. 98 del 2017 della Corte costituzionale le liberalizzazioni, comprese quelle delle professioni intellettuali, incontrano il limite dell’interesse generale così da «garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale e con gli altri principi costituzionali». La Costituzione non definisce l’utilità sociale; anche la Corte costituzionale evita di farlo, si limita volta per volta a spiegare cosa vi rientri e cosa no, affermando che un certo interesse costituzionalmente riconosciuto ha una valenza di utilità sociale e come tale deve essere adeguatamente tutelato. E i confini del concetto di utilità sociale sembrano ai nostri giorni diventati così ampi che si corre concretamente il rischio di tendere ad identificare il concetto di utilità sociale con quello generico di interesse pubblico, della collettività, degli “altri” ([47]), un gruppo più o meno grande di persone portatore di un interesse omogeneo ([48]): sono ad esempio gli interessi di tutti coloro che, direttamente o indirettamente, vengono colpiti dall’iniziativa economica altrui: ad es. i lavoratori, i consumatori, i cittadini che abitano vicino ad un’industria e ne respirano i fumi velenosi. Potrebbe ben affermarsi che facendo tale espressione perde probabilmente un reale contenuto precettivo. Ma forse questo rischio vale la pena di essere corso, perché con il riferimento all’utilità sociale nella Costituzione si è proprio voluto attribuire dignità costituzionale al concetto – sicuramente generico e vago ma non per questo non importante - degli interessi della collettività che, volente o nolente, si trova ad interagire con colui che esercita un’attività economica.
Fatto sta che nel ventunesimo secolo la Corte costituzionale parla di utilità sociale a proposito di salute, ambiente, lavoro, autonomia contrattuale, proprietà; più in particolare a proposito di: diritto individuale e della collettività alla salute ([49]); farmacie, libertà d’iniziativa economica del farmacista nel fissare i prezzi e salute pubblica ([50]); condono edilizio, esigenze di finanza pubblica e tutela dell’ambiente ([51]); limiti all’iniziativa economica in nome della tutela dell’ambiente ([52]); limiti al commercio itinerante e tutela dei centri storici delle città d’arte (art. 9, co. 2, Cost.: “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”) ([53]); indennità di disoccupazione e diritti sociali ([54]); limiti alla concorrenza in nome della tutela del lavoro ([55]); limiti alle liberalizzazioni per la necessità di mantenere una regolazione pubblica di alcuni settori ([56]); limitabilità dell’autonomia contrattuale ([57]); indennità di espropriazione e ragionevole legame con il valore di mercato del bene espropriato ([58]); limitazioni al diritto di proprietà in nome di esigenze di rilievo pubblico ([59]); incentivi ai produttori di energie rinnovabili ([60]), protezione degli animali ([61]).
L’utilità sociale appare dunque lo strumento che consente una protezione dei diritti fondamentali in una fase per così dire collettiva della loro esistenza, quando cioè sono messi in pericolo non tanto in quanto riferiti a un singolo individuo, ma in un orizzonte più ampio, con riguardo ad una collettività più o meno ampia e definita di persone. Ed in effetti vi sono diritti fondamentali che, senza neppure dover far riferimento all’utilità sociale, vivono in una dimensione individuale e in una collettiva allo stesso tempo ([62]).
L’utilità sociale è un concetto che racchiude altresì la tutela di “diritti sociali”, “ritenuti di fondamentale importanza sul piano della dignità umana”, quali quello all’abitazione (cfr. in questo senso la citata giurisprudenza costituzionale in tema di condono edilizio), il diritto al lavoro (cfr. sentenza 200 del 2012 e n. 270 del 2010, 50 del 2005: quest’ultima parla di “diritto sociale al lavoro”) ([63]), il diritto allo studio ([64]). Si tratta a ben vedere più che di diritti soggettivi, ossia della singola persona, di interessi della collettività considerata nel suo insieme e che per essere concretamente realizzati hanno bisogno di molto denaro, che molto spesso però lo Stato non ha o non si può permettere ([65]). Ecco dunque che l’utilità sociale ritorna per ricordare che nel necessario e inevitabilmente “crudele” bilanciamento tra esigenze dei singoli (a pagare meno imposte possibili) e diritti della collettività, questi ultimi non possono certo passare in secondo piano.
([1]) Cfr. l’art. 16 (Libertà d'impresa): È riconosciuta la libertà d'impresa, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali; art. 38 (Protezione dei consumatori): nelle politiche dell'Unione è garantito un livello elevato di protezione dei consumatori. Cfr. C. Scognamiglio, Principi generali, clausole generali e nuove tecniche di controllo dell’autonomia privata, in (a cura di) A.M. Gambino, Rimedi e tecniche di protezione del consumatore, Torino, 2011, 166, secondo cui i citati artt. 16 e 38 impongono di rimeditare l’impostazione secondo cui la Carta di Nizza attribuirebbe rilevanza e tutela soltanto alle manifestazioni dell’autonomia privata che più immediatamente si collegano allo sviluppo della persona umana.
([2]) Cfr. ad esempio Corte di Giustizia CEE 5 febbraio 1963, C-26/62, secondo cui “lo scopo del Trattato CEE è quello di instaurare un mercato comune”. Il primo segno di una sensibilità su temi diversi da quelli economici si è avuta a partire dagli anni settanta: cfr. ad esempio Corte di giustizia, sentenza 8 aprile 1976, in causa C-43-75, secondo cui il principio di parità retributiva tra uomini e donne, incardinato nel Trattato di Roma fin dall’istituzione della Comunità economica europea come principio fondante del mercato comune nonché come uno degli «scopi sociali della Comunità, […] che […] non si limita all’unione economica»; non può non notarsi tuttavia che la stessa sentenza osserva che tale principio è funzionale alla tutela della concorrenza perché impedisce che l’impresa che assuma più donne si avvantaggi rispetto alle altre.
([3]) Cfr., fra le tante, Corte di giustizia UE 8 aprile 2014, cause riunite C-293/12 e C-594/12, che ha dichiarato invalida la direttiva sulla conservazione dei dati personali, in quanto comporta “un’ingerenza di vasta portata e di particolare gravità nei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale, non limitata allo stretto necessario”.
([4]) Cfr. A. Gambino, Imprenditore e mercato: iniziativa privata e regole giuridiche, in AA.VV., Concorrenza e mercato, Torino 1998, 164 ss., il quale rileva come nella Costituzione vi sia una traccia solo “indiretta” del mercato, in quanto nell’art. 41 Cost. manca la “prospettiva orizzontale”, dello svolgersi dell’iniziativa nei confronti di altri soggetti privati. Concorrenza e mercato infatti, cioè i rapporti vicendevoli tra imprenditori ed i rapporti tra imprenditori e consumatori, rimangono estranei alla Carta repubblicana, che conosce soltanto il profilo protettivo della libertà di iniziativa economica dell’imprenditore di cui al comma 1, salvi i limiti di ordine generale previsti dai commi 2 e 3.
([5]) Cass., S.U., 4 febbraio 2005, n. 2207, in Danno resp., 2005, 949, con nota adesiva di L. Delli Priscoli, Consumatori e danno derivante da condotte anticoncorrenziali.
([6]) Cfr. ad esempio Corte cost. n. 178 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma della regione Umbria (l’art. 73 della legge reg. n. 13 del 2013) – per contrasto con l’art. 3 della legge n. 97 del 2013 secondo cui l’abilitazione alla professione di guida turistica è valida su tutto il territorio nazionale – che subordina la possibilità di svolgere la suddetta attività, per le guide turistiche che hanno conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione presso altre Regioni e che intendono svolgere la propria attività nella Regione Umbria, all’accertamento, da parte della Provincia, della conoscenza del territorio, con le modalità stabilite dalla Giunta regionale: la norma impugnata infatti, secondo la Consulta, introduce una barriera all’ingresso nel mercato, in contrasto con il principio di liberalizzazione introdotto dal legislatore statale; analogamente Corte cost. n. 40 del 2017 invece ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14 della legge della regione Puglia n. 17 del 2015 (Disciplina della tutela e dell’uso della costa), che aveva prorogato le concessioni demaniali agli stabilimenti balneari, in quanto la disciplina dei termini di scadenza delle concessioni demaniali marittime incide sull’ingresso di altri potenziali operatori economici nel mercato e rientra quindi nella materia «tutela della concorrenza».
([7]) Cfr. Cass. 11 maggio 2017, n. 11456, secondo cui la circostanza che un’impresa eserciti la gestione di servizi di interesse generale (nella specie, servizi cimiteriali) non le consente di ottenere in via esclusiva anche l’affidamento di altri servizi (nella specie, onoranze funebri, nonché fornitura e posa di arredi funerari), in quanto l’esenzione dall’applicazione della normativa antitrust, prevista dall’art. 8, comma 2, della l. n. 287 del 1990, per le imprese che gestiscono servizi di interesse economico generale, opera solo per le attività strettamente connesse all’adempimento degli specifici compiti loro affidati, non estendendosi a quelle che possono essere esercitate in regime di concorrenza; Cass. 10 maggio 2017, n. 11446, secondo cui negli appalti di opere pubbliche costituisce violazione delle norme imperative in tema di evidenza pubblica l’assegnazione attraverso trattativa privata di un appalto, con conseguente nullità del contratto stesso.
([8]) Cass., 7 febbraio 2017, n. 3200, secondo cui poiché, a parità di contenuto delle prestazioni che le imprese rendono in favore di una stessa P.A., quest’ultima è tenuta nei loro confronti al medesimo corrispettivo economico, pena la discriminazione di alcune di esse rispetto ad altre, l’impresa che decida di non impugnare un atto generale della P.A. che modifichi il corrispettivo dovuto per le prestazioni svolte non può essere pregiudicata, ove tale atto venga annullato su ricorso di terzi, in ragione di una pretesa validità del provvedimento nei suoi confronti.
([9]) Cfr. Corte cost. nn. 348 e 349 del 2007.
([10]) Cfr., per portare un esempio, fra i tanti possibili, della sancita prevalenza dei diritti fondamentali sui valori del mercato, Corte cost. n. 98 del 2017, che ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata per violazione del parametro riguardante la tutela concorrenza, di una norma regionale che dispone il possesso di dati requisiti professionali per esercitare attività commerciali che prevedano la somministrazione di alimenti e bevande, anche ove l’attività commerciale sia svolta «nei confronti di una cerchia limitata di persone», in locali non aperti al pubblico. Infatti, secondo la Consulta, sebbene la normativa statale stabilisca che le attività commerciali possono essere svolte senza limiti e prescrizioni, tra cui il possesso di requisiti professionali soggettivi, tuttavia, poi, fa espressamente salvi quelli riguardanti il settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e delle bevande, ponendosi quali misure volte a salvaguardare la salute dei consumatori.
([11]) Cfr., per tutti, P. Levi, Se questo è un uomo, editore De Silva, Torino, 1947.
([12]) Accade peraltro che tale prevalenza per ragioni di “galateo internazionale” - cfr. in questo senso la sentenza n. 238 del 2014 – non viene completamente esplicitata nelle motivazioni, come nel caso della c.d. sentenza Alitalia n. 270 del 2010, che, pur senza dichiarare esplicitamente incostituzionali norme dell’Unione europea, ha tuttavia sancito la prevalenza del diritto fondamentale al lavoro sulle norme in tema di concorrenza non solo nazionali ma anche dell’Unione europea, che avrebbero impedito la fusione tra Alitalia e Air One, in quanto tale fusione integrava a tutti gli effetti una concentrazione anticoncorrenziale vietata dalle norme antitrust dell’Unione.
([13]) La stessa sentenza ha, a proposito dell’immunità degli Stati sovrani dalla giurisdizione italiana per i crimini di guerra, affermato che anche in una prospettiva di realizzazione dell’obiettivo del mantenimento di buoni rapporti internazionali, ispirati ai principi di pace e giustizia, in vista dei quali l’Italia consente a limitazioni di sovranità (art. 11 Cost.), il limite che segna l’apertura dell’ordinamento italiano all’ordinamento internazionale e sovranazionale (artt. 10 ed 11 Cost.) è costituito dal rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili dell’uomo, e ciò è sufficiente ad escludere che atti quali la deportazione, i lavori forzati, gli eccidi, riconosciuti come crimini contro l’umanità, possano giustificare il sacrificio totale della tutela dei diritti inviolabili delle persone vittime di quei crimini, nell’ambito dell’ordinamento interno. Pertanto, in un contesto istituzionale contraddistinto dalla centralità dei diritti dell’uomo, la circostanza che per la tutela dei diritti fondamentali delle vittime dei crimini di guerra sia preclusa la verifica giurisdizionale rende del tutto sproporzionato tale sacrificio rispetto all’obiettivo di non incidere sull’esercizio della potestà di governo dello Stato, allorquando quest’ultima si sia espressa, come nella specie, con comportamenti qualificabili come crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona, in quanto tali estranei all’esercizio legittimo della potestà di governo.
([14]) Cfr. Cass. 30 dicembre 2016, n. 27557 e 15 gennaio 2016, n. 593, che riconoscono anche al disabile straniero privo della carta di soggiorno l’indennità – rispettivamente - di frequenza e di accompagnamento e Cass. 22 luglio 2015, n. 15362, che riconosce a determinate condizioni allo straniero il diritto al ricongiungimento familiare.
([15]) Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 15 novembre 2016, causa C‑268/15, secondo cui il diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che il regime della responsabilità extracontrattuale di uno Stato membro per il danno causato dalla violazione di siffatto diritto non è destinato a trovare applicazione in presenza di un danno asseritamente provocato ad un singolo a causa della presunta violazione di una libertà fondamentale, prevista agli articoli 49, 56 o 63 TFUE (le disposizioni del Trattato FUE in materia di libertà di stabilimento, di libera prestazione di servizi e di libera circolazione dei capitali), da una normativa nazionale applicabile indistintamente ai cittadini nazionali e ai cittadini di altri Stati membri, allorché, in una situazione i cui elementi sono tutti collocati all’interno di uno Stato membro, non sussistano legami fra l’oggetto o le circostanze in discussione nel procedimento principale e i menzionati articoli.
([16]) Cfr. ad esempio Corte EDU 17 marzo 2016, Rasul Jafarov v. Azerbaijan, in tema di detenzione illegale di un avvocato-attivista per i diritti umani, decisione in cui si è riscontrata la violazione dell’art. 5 § 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza), dell’art. 5 § 4 (diritto ad avere una detenzione secondo legge e decisa in tempi rapidi da un giudice).
([17]) Il rapporto tra tutela della concorrenza e dei diritti fondamentali e la diversità “culturali” tra Corte GUE e Corti nazionali non sempre tuttavia costituiscono un problema, e anzi talvolta marciano di pari passo e hanno permesso una reciproca e proficua crescita nei rispettivi ambiti di tutela. Così, ad esempio, in un caso riguardante specificamente l’Italia, la Corte di Giustizia ha evidenziato lo stretto collegamento tra il corretto funzionamento del mercato e dei meccanismi concorrenziali da un lato e la possibilità per i cittadini di usufruire di libertà fondamentali quali quella al pluralismo dell’informazione dall’altro (Corte Giustizia CE, 31 gennaio 2008, causa C-380/05). Si è in particolare affermato che il principio della libera prestazione di servizi è leso da un sistema, come quello italiano, che non consente al titolare di una concessione televisiva di trasmettere e quindi prestare di un servizio a causa della mancata assegnazione delle frequenze da parte delle autorità amministrative nazionali. Conclude la Corte di Giustizia sostenendo che un sistema che limita il numero degli operatori presenti sul mercato e consolida la posizione degli operatori già attivi nel settore delle trasmissioni televisive, senza applicare criteri obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati per la concessione delle autorizzazioni, è un ostacolo alla libera prestazione dei servizi. Coerentemente la Corte costituzionale, con la sentenza n. 206 del 2009, ha evidenziato che principio fondamentale del sistema radiotelevisivo è il pluralismo dei mezzi di comunicazione radiotelevisiva, l'apertura alle diverse opinioni, riconducibili all’art. 21 Cost. Una sentenza della Cassazione su un tema apparentemente banale mostra poi ancora una volta la stretta connessione tra diritti fondamentali della persona e diritti economici e il reciproco vantaggio che si può trarre da una tutela congiunta dei due aspetti: ha stabilito la Suprema Corte (Cass. 22 giugno 2007, n. 14602) che ai fini dello svolgimento dell’attività di propaganda a scopi commerciali in locali nei quali il consumatore si trovi temporaneamente per ragioni di studio, cura o svago, l’incaricato può accedere a tali luoghi ma è necessario che sia munito del prescritto tesserino di riconoscimento, ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 114 del 1998. In mancanza, dell’illecito rispondono tanto l’impresa per conto della quale l’incaricato agisce quanto quest’ultimo: la vendita porta a porta mostra dunque come sia un tutt’uno il diritto economico a non fare scelte di acquisto non adeguatamente ponderate e il diritto alla propria privacy, a non essere disturbati.
([18]) Cfr. ad esempio Corte cost. n. 111 del 2017.
([19]) Sul punto cfr. ad esempio F. Galgano, Diritto commerciale, L’imprenditore, Bologna, 2013, 100.
([20]) Cass., S.U., 22 novembre 2011, n. 28340.
([21]) Corte di Giustizia UE 22 dicembre 2010, C-118/09, e 29 gennaio 2009, C-311/06
([22]) Cass. 4 marzo 2016, n. 4252.
([23]) Corte di Giustizia UE 5 dicembre 2013, cause riunite da C-159/12 a C-161/12.
([24]) Corte cost., n. 216 del 2014.
([25]) Cass. ordinanza interlocutoria 17 luglio 2015, n. 15096.
([26]) Corte di Giustizia, seconda sezione, 9 marzo 2017, C-398/15.
([27]) L’espressione è utilizzata dall’art. 4 del Trattato dell’Unione europea; si pensi anche al già ricordato principio espresso dall’art. 52 della Carta di Nizza, secondo cui limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti da tale Carta possono essere previste dalla legge in ragione dell’esigenza di bilanciare i diversi interessi in gioco.
([28]) Corte cost. n. 24 del 2017.
([29]) Corte di giustizia UE, Grande sezione, 8 settembre 2015, in causa C-105/14, Taricco.
([30]) La Corte di giustizia ha affermato che l’art. 325 del TFUE impone al giudice nazionale di non applicare il combinato disposto degli artt. 160, ultimo comma, e 161, comma 2, c.p. in tema di prescrizione dei reati quando ciò gli impedirebbe di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frodi fiscali gravi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, ovvero quando frodi che offendono gli interessi finanziari dello Stato membro sono soggette a termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.
([31]) Normalmente per ragioni di “galateo internazionale”: cfr. la sentenza n. 238 del 2014, secondo cui occorre tenere conto della prospettiva di realizzazione dell’obiettivo del mantenimento di buoni rapporti internazionali, ispirati ai principi di pace e giustizia, in vista dei quali l’Italia consente a limitazioni di sovranità in ragion dell’art. 11 Cost.
([32]) La (possibile) prevalenza (o perlomeno il necessario bilanciamento) dei diritti fondamentali sulla disciplina dell’Unione europea è così affermata in tale sentenza con la quale la Corte costituzionale dichiara infondata la questione di costituzionalità della norma che, consentendo la fusione tra Alitalia e Air One, deroga alla disciplina antitrust delle concentrazioni tra imprese): la dovuta coerenza con l’ordinamento comunitario, in particolare con il principio che «il mercato interno ai sensi dell’art. 3 del Trattato sull’Unione europea comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata» (Protocollo n. 27 sul mercato interno e la concorrenza, allegato al Trattato di Lisbona entrato in vigore il 1° dicembre 2009, che conferma l’art. 3, lett. g, del Trattato sull’Unione europea), comporta il carattere derogatorio e per ciò stesso eccezionale di questa regolazione. In altri termini, occorre che siffatto intervento del legislatore costituisca la sola misura in grado di garantire la tutela di quegli interessi.
([33]) Seguendo questa impostazione, può ad esempio comprendersi quanto affermato dalla Corte costituzionale e dalla Corte di Cassazione in tema di diritto alla salute: esso, nel suo aspetto di pretesa all’erogazione di prestazioni, “non può non subire i condizionamenti che lo stesso legislatore incontra nel distribuire le risorse finanziarie delle quali dispone”, per altro verso però “le esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana”: pertanto in relazione al bene-salute è individuabile un nucleo essenziale, in ordine al quale si sostanzia un diritto soggettivo assoluto e primario, volto a garantire le condizioni di integrità psico-fisica delle persone bisognose di cura allorquando ricorrano condizioni di indispensabilità, di gravità e di urgenza non altrimenti sopperibili (Cassazione, S.U., 1° agosto 2006, n. 17461). Cfr. altresì Corte cost., sentenze nn. 432 del 2005, 252 del 2001, 509 del 2000; Cass., S.U., 8 novembre 2006, n. 23735, secondo cui, in tema di costruzione e messa in esercizio di una linea di trasmissione di energia elettrica, la domanda proposta dal privato nei confronti della P.A., tesa ad ottenere - previo accertamento del pericolo per la salute derivante dall'esposizione al campo elettromagnetico, data la breve distanza tra la linea elettrica e l'abitazione dell'istante - un'inibitoria, con la richiesta, in particolare, di emanazione da parte del giudice di un ordine di interramento della linea elettrica a ridosso della abitazione del privato, è devoluta alla cognizione del giudice ordinario, atteso che la P.A. è priva di qualunque potere, ancorché agisca per motivi di interesse pubblico, di affievolire o di pregiudicare indirettamente il diritto alla salute, il quale, garantito come fondamentale dall'art. 32 della Costituzione, appartiene a quella categoria di diritti che non tollerano interferenze esterne che ne mettano in discussione l'integrità; Cass., S.U. 6 novembre 2013, n. 20577, secondo cui la controversia relativa al diniego dell'autorizzazione ad effettuare cure specialistiche presso centri di altissima specializzazione all'estero appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario giacché la domanda è diretta a tutelare una posizione di diritto soggettivo - il diritto alla salute - non suscettibile di affievolimento per effetto della discrezionalità meramente tecnica attribuita in materia alla P.A.
([34]) Si pensi all’art. 4, par. 2, del TUE del 7 febbraio 1992, secondo cui l'Unione rispetta l'uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale
([35]) Corte Europea dei diritti dell’uomo, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia.
([36]) Si tratta in particolare degli artt. 1, 3 e 5, legge n. 1423 del 56 (oggi parzialmente trasposti negli artt. 1, 6 e 8 del d.lgs. 159 del 2011), che a giudizio della Corte EDU conferiscono un potere discrezionale assai ampio al giudice, ed hanno un coefficiente di prevedibilità troppo basso, con la conseguenza che al cittadino non è dato conformare con certezza ed a priori le proprie condotte al precetto normativo, in contrato con i principi espressi dagli artt. 6 (che afferma il principio nulla poena sine lege) e 7 della Carta EDU (che afferma il principio del diritto dell’imputato a un giusto processo) nonché – potrebbe aggiungersi - degli artt. 47-50 della carta di Nizza, che affermano analoghi principi. Si pensi ad es. all’indeterminatezza dell’art. 1 del d.lgs. 159 del 2011, secondo cui le misure di prevenzione si applicano a: «a) coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; b) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose…».
([37]) Per quanto riguarda le misure imposte dai giudici di Strasburgo al Sig. De Tommaso, la Corte ha osservato che alcune di esse erano formulate in termini molto generici e che le prescrizioni erano estremamente vaghe e indeterminate; in particolare con riferimento all’obbligo di "condurre una vita onesta e rispettosa della legge " e di "non dare motivo di sospetto". E 'stato quindi impossibile per il Sig. De Tommaso verificare l’effettiva portata delle prescrizioni imposte con la sorveglianza speciale. La Corte ha ritenuto che la legge italiana aveva lasciato al giudice nazionale un potere discrezionale eccessivo e senza indicare con sufficiente chiarezza la portata di tale discrezionalità e le modalità del suo esercizio. La Cassazione a sezioni unite sembra aver recepito questa impostazione: cfr. Cass. pen., S.U., 27 aprile 2017, Paternò, che al quesito «se la norma incriminatrice di cui all’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011, che punisce la condotta di chi violi gli obblighi e le prescrizioni imposti con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. cit., abbia ad oggetto anche la violazione delle prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”» ha dato risposta negativa, «in quanto trattasi di prescrizioni generiche e indeterminate, la cui violazione può tuttavia rilevare in sede di esecuzione del provvedimento ai fini dell’eventuale aggravamento della misura». In precedenza aveva invece affermato Cass. pen, 10 giugno 2015 n. 30398, D’Ippolito, che è “convenzionalmente” legittima l’applicazione retroattiva delle misure di prevenzione patrimoniale, con riferimento a fatti anteriori all'entrata in vigore delle norme che le disciplinano, poiché le stesse, in quanto connotate da natura preventiva e non sanzionatoria, non sono riconducibili alla nozione di "pena" di cui all'art. 7 CEDU.
([38]) Cfr., fra le tante, la celebre sentenza Grande Stevens c. Italia del 4 marzo 2014. Secondo tale sentenza, dopo che, nei confronti di una società, sono state comminate sanzioni amministrative dalla Consob ed esse siano divenute definitive, l’avvio di un processo penale sugli stessi fatti viola il principio giuridico del ne bis in idem. Infatti, anche se il procedimento innanzi alla Consob è amministrativo, le sanzioni inflitte possono essere considerate a tutti gli effetti come penali, anziché amministrative, considerata la loro natura repressiva e la particolare severità delle stesse (sia per l’importo che per le sanzioni accessorie), oltre che per le loro ripercussioni sugli interessi del condannato. Pertanto, il sistema del “doppio binario” - configurabilità di una forma cumulativa del reato e dell’illecito amministrativo per i medesimi fatti - previsto dagli articoli 184 e ss del d.lgs. n. 58 del 1998 (c.d. T.U.F.) viola il principio del ne bis in idem. La Corte EDU ha altresì affermato che la piena sovrapponibilità sul piano della tipicità, del bene giuridico protetto (la trasparenza del mercato) e dell’obiettivo perseguito (repressione degli abusi di mercato) tra la disciplina di carattere amministrativo e quella dell’illecito penale viola il principio del ne bis in idem previsto dall’art. 4 del Protocollo 7 allegato alla Convenzione EDU.
([39]) In particolare, si osserva che la nozione di pena debba ruotare non tanto intorno al concetto di afflittività, quanto, piuttosto, sulla distinzione tra caratteri afflittivi: punitivi tipici della pena (e in particolare un carattere volutamente, direttamente afflittivo) e caratteri preventivi (e in particolare un carattere solo incidentalmente, indirettamente afflittivo, puntando la norma in prima battuta a prevenire i reati). Infatti, se sul versante della punizione i canoni di colpevolezza e di prevedibilità-irretroattività della norma penale si presentano come naturali requisiti costitutivi rispetto alle finalità della sanzione, l’esigenza di arginare manifestazioni della pericolosità sembra invece consentire l’affrancamento da tali presupposti, ad esempio per quanto riguarda le misure volte al trattamento di soggetti socialmente pericolosi e alle strategie di lotta alla criminalità organizzata autenticamente preventive, nel cui contesto si collocano alcune forme di confisca. In tale contesto, il punto di maggiore complessità è costituito dalla verifica in concreto della natura punitiva o preventiva di una misura, essendo rari i casi in cui le due “nature” si presentino in forma “pura”, cosicché la Corte EDU spesso ricorre ad un criterio di prevalenza. Nel caso del 5 febbraio 1995, Welch c. Regno Unito, la Corte EDU affermò che il principio di legalità impone che qualunque provvedimento normativo, da cui derivi la possibile inflizione di una sanzione penale, rispetti alcune caratteristiche imprescindibili, ossia che la legge possieda i caratteri della accessibilità – ossia della conoscibilità e intelligibilità - della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie cui si espone colui che la viola e della rimproverabilità a titolo di colpa o dolo.
([40]) Cfr. Corte EDU 29 settembre 2013, Varvara c. Italia, la quale ha affermato che, nel caso di una sentenza di proscioglimento dell’imputato per intervenuta prescrizione, la confisca urbanistica – che secondo la Corte EDU ha natura penale – non può essere concepito un sistema in cui una persona dichiarata innocente o comunque senza alcun grado di responsabilità penale constatata in una sentenza di colpevolezza subisca una pena
([41]) La sentenza n. 49 del 2015 della Corte costituzionale, ampiamente richiamata dalla sentenza Lucci della Cassazione a sezioni unite di cui alla nota seguente, ha ribadito la necessità, ai fini della confisca urbanistica di un pieno accertamento della responsabilità dell’imputato e della malafede del terzo eventualmente colpito dalla confisca, affermando come tale “pieno accertamento” non sia affatto precluso nel caso di proscioglimento per prescrizione, atteso che tale pronuncia ben potrebbe accompagnarsi ad una più ampia motivazione sulla responsabilità, ai soli fini della confisca del bene oggetto di una costruzione abusiva; secondo la Corte quindi occorre avere riguardo non alla forma della sentenza di proscioglimento per prescrizione ma ad un’accezione di condanna in senso sostanziale, soddisfatta dall’accertamento incidentale della responsabilità del soggetto, in quanto la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento della responsabilità, che anzi è doveroso qualora si tratti di disporre una confisca urbanistica.
([42]) Cfr. Cass. pen., S.U., 21 luglio 2015, n. 31617, Lucci, secondo cui “il giudice, nel dichiarare l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può applicare, a norma dell'art. 240, comma 2, n. 1, c.p., la confisca del prezzo del reato e, a norma dell'art. 322-ter c.p., la confisca del prezzo o del profitto del reato sempre che si tratti di confisca diretta e vi sia stata una precedente pronuncia di condanna, rispetto alla quale il giudizio di merito permanga inalterato quanto alla sussistenza del reato, alla responsabilità dell'imputato ed alla qualificazione del bene da confiscare come profitto o prezzo del reato”.
([43]) Corte di Giustizia UE, 12 luglio 2012, C-79/11.
([44]) Cfr. sentenza della Corte costituzionale n. 76 del 2017, secondo cui il bilanciamento dell’interesse del minore con le esigenze di difesa sociale sottese alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore in seguito alla commissione di un reato, in via di principio, è rimesso alle scelte discrezionali del legislatore (sentenza n. 17 del 2017) e può realizzarsi attraverso regole legali che determinano, in astratto, i limiti rispettivi entro i quali i diversi principi possono trovare contemperata tutela. In tal senso, varie disposizioni dell’ordinamento penitenziario e del codice di procedura penale assicurano tutela all’interesse dei minori, figli di soggetti sottoposti a misure cautelari o condannati in via definitiva a pene detentive, a mantenere un rapporto costante, fuori dal carcere, con le figure genitoriali, ma stabiliscono che tale esigenza di tutela si arresta al compimento, da parte del minore, di una determinata età. La Corte costituzionale ha chiarito che, affinché l’interesse del minore può soccombere di fronte alle esigenze di protezione della società dal crimine, la legge deve consentire che sussistenza e consistenza di queste ultime siano verificate in concreto, e non già sulla base di automatismi che impediscono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni.
([45]) Cfr. ad esempio da ultimo Cass. pen., 31 marzo 2017, n. 24084, Jatinder, secondo cui in tema di porto d'armi, il giustificato motivo di cui alla legge n. 110 del 1975, art. 4, comma 2, ricorre quando le esigenze dell'agente siano corrispondenti a regole relazionali lecite rapportate alla natura dell'oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell'accadimento e alla normale funzione dell'oggetto (esclusa, nella specie, l'applicazione della scriminante de quo per l'imputato, un indiano Sikh trovato con il tradizionale pugnale Kirpan; irrilevante il richiamo alla tradizione religiosa). Il tribunale di Mantova aveva condannato una persona alla pena di 2000 euro per il reato di cui all’art. 4 della legge n. 110 del 1975, per aver porto fuori dalla propria abitazione, senza un giustificato motivo, un coltello della lunghezza di 18 centimetri e mezzo (denominato “Kirpan”) idoneo all’offesa per le sue caratteristiche. L’imputato si è giustificato affermando che il proto del coltello era giustificato dal suo credo religioso, per essere il Kirpan uno dei simboli della religione monoteista “Sikh”, e ha invocato la garanzia della libertà religiosa di cui all’art. 19 della Costituzione. Tuttavia, secondo la Cassazione, in una società multietnica, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società d’accoglienza si debbono riconoscere. Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura d’origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante. E’ quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina. La decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quelli di provenienza, ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante. La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali confliggenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto d’armi e di oggetti atti ad offendere. Nessun ostacolo viene in tal modo posto alla libertà di religione, al libero esercizio del culto e all’osservanza dei riti che non si rivelino contrari al buon costume. Proprio la libertà religiosa, garantita dall’art. 19 Cost. invocato, incontra dei limiti, stabiliti dalla legislazione in vista della tutela di altre esigenze, tra cui quelle della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula dell’“ordine pubblico”, come sottolineato dalla sentenza n. 63 della Corte costituzionale.
([46]) Si cita soltanto, fra gli innumerevoli esempi che si potrebbero portare, quanto affermato da Hitler dopo la morte di alcuni nazisti avvenuta nel Putsch di Monaco del 1923, riferendosi ai caduti: “L’individuo era un nulla, ma la collettività della razza sarebbe durata millenni” (frase riportata da M. Burleigh, Il terzo Reich, 2013, Rizzoli).
([47]) Cfr. A. Baldassarre, Iniziativa economica privata, XXI, Milano, 1971, 603, che parla di “irriducibile poliedricità dell’utilità sociale, riferibile a due distinti campi applicativi costituiti ora dai rapporti interni dell’unità produttiva, ora ora dalla sua attività rivolta all’esterno, e quindi riferibile ora ai bisogni dei lavoratori dipendenti, ora a quelli dell’intera società ovvero di quei soggetti che nella singola fattispecie si presentino investiti dell’interesse sociale.
([48]) L’utilità sociale è infatti citata spesso dalla Cassazione quale sinonimo di interesse pubblico a proposito di diffamazione e limiti del diritto di cronaca: cfr. ad es. Cass. 13 gennaio 2009 n. 482, secondo cui il diritto di informazione, garantito dall'art. 21 della Costituzione, sussiste in capo ad un'associazione di consumatori ogni qual volta risulti evidente l’“utilità sociale” della conoscenza dei fatti e delle opinioni, trasmessi con comunicati, perché diretti a contribuire alla formazione della pubblica opinione in materia di interesse generale (cfr. invece Cass. 4 settembre 2012 n. 14822, che parla di “interesse pubblico” alla diffusione della notizia). Si possono citare ancora: Cass. 17 luglio 2007 n. 15887, secondo cui l’esercizio del diritto di cronaca e di critica, che è lecito anche se in conflitto con diritti e interessi della persona ove sussistano i parametri dell’utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato, costituisce estrinsecazione della libertà di manifestazione del pensiero prevista dall'art. 21 Cost. e dall'art. 10 della Convenzione EDU; Cass. 5 settembre 2006 n. 19069, secondo cui il diritto alla riservatezza del minore deve essere, nel bilanciamento degli opposti valori costituzionali (diritto di cronaca e diritto alla “privacy") considerato assolutamente preminente, laddove si riscontri che non ricorra l’utilità sociale della notizia e, quindi, con l'unico limite del pubblico interesse; Cass., 18 dicembre 2003 n. 19445 e 17 dicembre 2003 n. 19365, secondo cui in tema di agevolazioni tributarie, il beneficio della riduzione alla metà dell'aliquota IRPEG riservata ai soggetti elencati nell'art. 6 del d.P.R. n. 601 del 1973, spetta anche alle Fondazioni bancarie in ragione delle finalità di interesse pubblico e di utilità sociale perseguite.
([49]) Si citano solo alcune sentenze tra le tante: ammalati a seguito di vaccinazioni obbligatorie (n. 107 del 2012); commercio di rifiuti (244 del 2011); riduzione dei posti letto e diritto alla salute (289 del 2010); divieto di vendita di alcolici dopo le 2 di notte (152 del 2010); organismi geneticamente modificati (116 del 2006).
([50]) Cfr. ad esempio le sentenze in tema di concorsi per sedi farmaceutiche e diritto alla salute (n. 231 del 2012); contrattazione sui prezzi dei farmaci, diritto di iniziativa economica e diritto alla salute (n. 295 del 2009; n. 279 del 2006); regolamentazione degli orari delle farmacie e diritto di iniziativa economica (n. 27 del 2003).
([51]) Cfr. le sentenze n. 9 del 2008 e n. 196 del 2004, secondo cui il bilanciamento che nel caso di specie verrebbe in considerazione è quello tra i valori tutelati in base all'art. 9 Cost. e le esigenze di finanza pubblica; in realtà, la Corte, nella sua copiosa giurisprudenza in tema di condono edilizio, ha più volte riconosciuto - in particolare nella sentenza n. 85 del 1998 - come in un settore del genere vengano in rilievo una pluralità di interessi pubblici, che devono necessariamente trovare un punto di equilibrio, poiché il fine di questa legislazione è quello di realizzare un contemperamento dei valori in gioco: quelli del paesaggio, della cultura, della salute, della conformità dell'iniziativa economica privata all’utilità sociale, della funzione sociale della proprietà da una parte, e quelli, pure di fondamentale rilevanza sul piano della dignità umana, dell'abitazione e del lavoro, dall'altra.
([52]) Cfr. sentenze n. 190 del 2001 e 196 del 1998, secondo cui al limite della utilità sociale, a cui soggiace l'iniziativa economica privata in forza dell'art. 41 Cost., non possono dirsi estranei gli interventi legislativi che risultino non irragionevolmente intesi alla tutela dell'ambiente. Ebbene, la disposizione censurata, contrariamente a quanto ritenuto dal remittente, lungi dal sopprimere la libertà di iniziativa economica in relazione all'attività di acquacoltura, si limita a regolarne l'esercizio, ponendo condizioni che, finalizzate come sono alla tutela dell'ambiente, non appaiono irragionevoli.
([53]) Sentenza n. 247 del 2010.
([54]) Sentenze n. 234 del 2011 e n. 219 del 2005, secondo cui l’indennità in questione mira a dare attuazione al precetto dell'art. 38, co. 2, della Costituzione che riconosce ai lavoratori il diritto sociale a che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di disoccupazione involontaria. Osserva T. Groppi, «Fondata sul lavoro». Origini, significato, attualità della scelta dei costituenti, in Riv. trim. dir. pubbl. 2012, 665, che senza dubbio esiste un legame stretto tra la formula dell'art. 1 e le altre disposizioni in materia di lavoro e più in generale di diritti sociali, nel senso che la Costituzione italiana, distaccandosi dal costituzionalismo ottocentesco (come è stato rilevato da M. Mazziotti, Lavoro, diritto costituzionale, in Enc. dir., Milano, 1973, 338, lo Statuto albertino non conteneva alcun riferimento al lavoro), prende atto pienamente della necessità di riequilibrare i rapporti sociali in favore dei soggetti più deboli, i lavoratori appunto, esclusi dalla partecipazione al potere nell'ambito dello Stato liberale e collocati in una posizione subalterna e marginale. Come ha sottolineato Aldo Moro nel corso dei lavori preparatori, il senso della disposizione è «un impegno del nuovo Stato italiano di proporsi e di risolvere nel migliore dei modi possibile questo grande problema, di immettere sempre più pienamente nell'organizzazione sociale, economica e politica del paese le classi lavoratrici, le quali, per un complesso di ragioni, furono a lungo estromesse dalla vita dello Stato e dall'organizzazione economica e sociale» ( AC, seduta del 13 marzo 1947, I, 371).
([55]) La concorrenza viene normalmente ricondotta al co. 1 dell’art. 41, ma si trovano anche affermazioni di tipo diverso: cfr. sentenze n. 379 del 2000 e 110 del 1995, secondo cui l’utilità sociale è correlata alla esigenza di un sano e corretto funzionamento del mercato; sentenza n. 241 del 2000, secondo cui la libertà di iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, e deve soggiacere ai controlli necessari perché possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali (art. 41, co. 2 e 3): e tali vincoli sono fatalmente scavalcati o elusi in un ordinamento che consente l'acquisizione di posizioni di supremazia senza nel contempo prevedere strumenti atti ad evitare un loro esercizio abusivo. L'utilità ed i fini sociali sono in tal modo pretermessi, giacché non solo può essere vanificata o distorta la libertà di concorrenza - che pure è valore basilare della libertà di iniziativa economica, ed è funzionale alla protezione degli interessi della collettività dei consumatori - ma rischiano di essere pregiudicate le esigenze di costoro e dei contraenti più deboli, che di quei fini sono parte essenziale. In tema di concorrenza e utilità sociale la sentenza più significativa è la n. 270 del 2010 (c.d. caso Alitalia), in cui si afferma che la «libertà di concorrenza» costituisce manifestazione della libertà d’iniziativa economica privata, che, ai sensi del secondo e del terzo comma di tale disposizione, è suscettibili di limitazioni giustificate da ragioni di «utilità sociale» e da «fini sociali» (sentenze n. 46 del 1963 e n. 97 del 1969): cfr. la sostanzialmente adesiva nota di M. Libertini, I fini sociali come limite eccezionale alla tutela della concorrenza: il caso del «Decreto Alitalia», (nt. 7), 3296, il quale sottolinea che la tutela della concorrenza “è certamente un principio costituzionale ma non è un principio fondamentale, destinato a prevalere in ogni caso possibile di contrasto con altri valori costituzionalmente garantiti”. Le decisioni della Corte dopo la modifica dell’art. 117 Cost. e la previsione della «tutela della concorrenza» come materia attribuita alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, hanno posto in luce che la nozione interna di concorrenza riflette «quella posta dall’ordinamento comunitario» (sentenze n. 45 del 2010, n. 430 del 2007 e n. 12 del 2004). In particolare, si è rilevato che detta locuzione «comprende, tra l’altro, interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali: le misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che influiscono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, in generale i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche. In tale maniera, vengono perseguite finalità di ampliamento dell’area di libera scelta sia dei cittadini, sia delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi; si tratta, in altri termini, dell’aspetto più precisamente di promozione della concorrenza, che è una delle leve della politica economica del Paese». A detta materia sono state, quindi, ricondotte, ad esempio, le misure volte a evitare che un operatore estenda la propria posizione dominante in altri mercati (sentenza n. 326 del 2008), ovvero a scongiurare «pratiche abusive a danno dei consumatori» (sentenza n. 51 del 2008), oppure a garantire la piena apertura del mercato (sentenza n. 320 del 2008), non quelle che «lo riducono o lo eliminano» (sentenza n. 430 del 2007; analogamente, sentenze n. 63 del 2008 e n. 431 del 2007).
([56]) Sentenza n. 200 del 2012.
([57]) Sentenza n. 162 del 2009, secondo cui l'art. 41 Cost. tutela l'autonomia contrattuale in quanto strumento della libertà di iniziativa economica, il cui esercizio può tuttavia essere limitato per ragioni di utilità economico-sociale, che assumono anch'esse rilievo a livello costituzionale; sentenza n. 70 del 2000, secondo cui l'art. 41 della Costituzione tutela l'autonomia contrattuale in quanto strumento della libertà di iniziativa economica, il cui esercizio può tuttavia essere limitato per ragioni di utilità economico-sociale; n. 241 del 1990 secondo cui il principio dell'autonomia contrattuale se ha rilievo assolutamente preminente nel sistema del codice civile del 1942, non lo ha negli stessi termini nel sistema delineato dalla Costituzione, che non solo lo tutela in via meramente indiretta, come strumento della libertà di iniziativa economica (sentenza n. 159 del 1988), ma pone limiti rilevanti a tale libertà. Questa, invero, non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, e deve soggiacere ai controlli necessari perché possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali (art. 41, co. 2 e 3).
([58]) Sentenze n. 338 e 181 del 2011, 348 del 2007, secondo cui sia la giurisprudenza della Corte costituzionale che quella della Corte EDU hanno individuato in materia di indennità di espropriazione un nucleo minimo di tutela del diritto di proprietà, garantito dall’art. 42, co. 3, Cost., e dall’art. 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione EDU, in virtù del quale l’indennità di espropriazione non può ignorare «ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene», né può eludere un «ragionevole legame» con il valore di mercato (da ultimo sentenza n. 181 del 2011 e prima ancora, sentenza n. 348 del 2007). Cfr. anche l’art. 17 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, secondo cui “la proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, salvo quando la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga in maniera evidente, e previa una giusta indennità” e l’art. 29 dello Statuto albertino “Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili. Tuttavia, quando l’interesse pubblico legalmente accertato lo esiga, si può essere tenuti a cederle in tutto od in parte mediante una giusta indennità conformemente alle leggi”.
([59]) Sentenza 200 del 2010 (oneri amministrativi per il fascicolo del fabbricato per ragioni di utilità sociale); sentenza 167 del 2009 (bilanciamento tra diritto di proprietà e l’utilità sociale correlata alla libera raccolta dei tartufi); sentenza n. 167 del 1999 (servitù coattiva a favore di disabili e diritto di proprietà).
([60]) Sentenza n. 16 del 2017.
([61]) Sentenza n. 285 del 2016.
([62]) Così, ad esempio, a proposito del diritto fondamentale alla salute di cui all’art. 32 Cost., la sentenza n. 107 del 2012, in tema di vaccinazioni, ha affermato che la salute è al contempo un diritto fondamentale dell’individuo (lato «individuale e soggettivo») e un interesse della intera collettività (lato «sociale e oggettivo»).Cfr. anche la sentenza n. 307 del 1990: la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost. se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri.
([63]) Secondo la sentenza n. 200 del 2012 una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale.
([64]) Cfr. sentenza n. 219 del 2002.
([65]) Sentenza n. 223 del 2012: la Costituzione non impone affatto una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria; ma esige invece un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 Cost.). Pertanto, il controllo della Corte in ordine alla lesione dei principi di cui all’art. 53 Cost., come specificazione del fondamentale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., consiste in un «giudizio sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione» (sentenza n. 111 del 1997).