Sommario: 1. I termini della questione – 2. L’art. 20 tra funzione interpretativa e funzione antielusiva – 3. L’art. 20 in una prospettiva evolutiva … - 4. (segue) … e gli evidenziati profili di criticità - 5. I recenti interventi legislativi e il “nuovo” art. 20
1. I termini della questione
Tra le numerose disposizioni della recente legge n. 145 del 30 dicembre 2018, in materia di Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021, c.d. legge di bilancio 2019, un indubbio interesse suscita il comma 1084 dell’art. 1 che qualifica l’art. 1, comma 87, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 ([1]) - recante modifiche all’originaria disposizione dell’art. 20 del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro di cui al DPR 131/1986 - come avente natura di interpretazione autentica del predetto articolo 20, con conseguente portata retrospettiva delle predette modifiche ([2]).
L’interesse nasce dal fatto che la novella del 2017, nell’imporre - attraverso l’espressa irrilevanza degli elementi extratestuali e del collegamento negoziale - una interpretazione isolata dell’atto soggetto a registrazione, fondata sui soli elementi desumibili dall'atto medesimo, supera il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità formatosi nella vigenza del precedente testo e favorevole ad un apprezzamento unitario della complessiva operazione posta in essere dalle parti ([3]).
2. L’art. 20 tra funzione interpretativa e funzione antielusiva
L’originario testo dell'articolo 20 del d.p.r. 131 del 1986, collocato nel titolo sull’applicazione dell’imposta di registro e dedicato alla “interpretazione degli atti” da assoggettare all'imposta, prevedeva: “l'imposta è applicata secondo l'intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.
Si trattava di un testo invariato sin dalla emanazione del d.p.r. 131 del 1986 ([4]) e riproduttivo dell’art. 19 del d.p.r. 634 del 1973 che, a sua volta, aveva introdotto la qualificazione “giuridici” degli effetti dell'atto, a fronte del previgente articolo 8 del r.d. n. 3269/1923 che, non contenendo alcuna specificazione sulla tipologia degli effetti da prendere in considerazione ai fini dell'imposizione, aveva contribuito allo sviluppo della teorica della cosiddetta interpretazione funzionale dell'atto, la quale valorizzava, per l’appunto, gli effetti economici dell'atto sottoposto a registrazione ai fini dell’individuazione del presupposto dell'imposta di registro, ravvisato tout court nel fatto economico sotteso all’atto medesimo ([5]). In tale prospettiva funzionale, si è sostenuto che, laddove il risultato economico raggiunto dalle parti, ancorché attraverso una tipologia di atto non contemplato dal sistema del tributo di registro, sia equivalente a quello ottenibile attraverso l’impiego di altro strumento giuridico espressamente contemplato, l’imposta debba essere applicata secondo quanto previsto dal legislatore in relazione a quest’ultimo.
Tale impostazione, criticata da altro orientamento in quanto ritenuta non coerente con un approccio schiettamente giuridico alla materia ed in quanto potenzialmente in contrasto con il principio di riserva di legge ex art. 23 Cost. ([6]), è stata, dunque, abbandonata in dottrina proprio a seguito della specificazione normativa che gli effetti rilevanti sono quelli “giuridici”.
Tale specificazione normativa - poiché è pacifico che l’art. 20 in commento, ancorché contenuto nel titolo dedicato all’applicazione dell’imposta, è una norma cardine nel sistema dell’imposta di registro ([7]), in quanto fondamentale nella individuazione del suo presupposto impositivo, stante il mero rinvio che l’art. 1, dedicato all’ “oggetto dell’imposta”, si limita a fare ad altre disposizioni che individuano gli atti da sottoporre a registrazione ed in particolare alla tariffa allegata - ha avuto, giocoforza, delle ripercussioni in ordine all’individuazione del presupposto medesimo.
Nella prospettiva di una lettura combinata tra i due articoli, allora, e chiarito che gli effetti a cui attribuire rilievo in sede interpretativa sono solo quelli giuridici, il presupposto del tributo di registro è stato generalmente individuato nel compimento di un atto tra quelli soggetti a registrazione che assume, tuttavia, rilievo non sotto il profilo documentale ([8]), bensì, per l’appunto, in relazione ai suoi (potenziali) effetti giuridici, apprezzati dal legislatore come espressivi, sia pure indirettamente, di manifestazione di ricchezza, di forza economica e, dunque, di capacità contributiva in relazione alla loro incidenza sul patrimonio dei soggetti passivi ([9]).
In definitiva, a fronte di tale evoluzione, si è ritenuto che l'interpretazione dell'atto sottoposto a registrazione deve basarsi esclusivamente sugli effetti giuridici del medesimo, proprio in quanto la capacità contributiva colpita dal tributo in esame è quella espressa da determinati atti individuati dal legislatore in ragione dei loro (potenziali) effetti giuridici.
L’affermata natura dell’imposta di registro quale “imposta d’atto”, in quanto colpisce la capacità contributiva espressa dall’atto da registrare, ha inizialmente portato parte della dottrina a ritenere che la sua interpretazione dovesse essere condotta attraverso una considerazione isolata dell’atto medesimo ([10]), senza far ricorso ad elementi esegetici c.d. extratestuali, ovvero non contemplati dall’atto medesimo ma desunti aliunde, in quanto ciò che rileva non è tanto o solo la comune intenzione delle parti (art. 1362 c.c.), bensì sono gli effetti giuridici che l’atto è obiettivamente potenzialmente in grado di determinare in relazione allo schema negoziale posto in essere.
In particolare, la considerazione isolata dell'atto è stata sostenuta sulla base di una interpretazione sistematica volta a valorizzare la disciplina delle disposizioni plurime contenuta nell'articolo 21 dell'imposta di registro, rubricato “Atti che contengono più disposizioni”, secondo il quale “1. Se un atto contiene piu' disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di esse e' soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto. 2. Se le disposizioni contenute nell'atto derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, l'imposta si applica come se l'atto contenesse la sola disposizione che da' luogo alla imposizione piu' onerosa.”. Tale articolo legittimerebbe la considerazione unitaria di più disposizioni – lemma da intendersi non già come riferito alle singole obbligazioni ma come riferito all'intero contratto o atto giuridico previsto dalla tariffa ([11]) - se contenute nel medesimo contesto documentale e se derivanti necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ovverosia, come comunemente si interpreta tale locuzione, in ipotesi di negozio complesso, contrassegnato da causa unica ([12]).
Nella prospettiva della considerazione isolata dell'atto, ulteriori indicazioni sono state ricavate dal successivo articolo 22, rubricato “enunciazione di atti non registrati”, a mente del quale: “1. Se in un atto sono enunciate disposizioni contenute in atti scritti o contratti verbali non registrati e posti in essere fra le stesse parti intervenute nell'atto che contiene la enunciazione, l'imposta si applica anche alle disposizioni enunciate.”, in quanto letto nel senso che la rilevanza autonoma, ai fini impositivi, dei singoli atti o negozi, sussiste anche in ipotesi in cui l’uno enunci l’altro, a prescindere da un collegamento funzionale tra loro.
Tuttavia, già un orientamento risalente, in particolare in giurisprudenza, aveva prospettato che fosse possibile attribuire rilevanza al collegamento negoziale, in presenza di una pluralità di negozi funzionalmente collegati al fine di produrre un unico effetto giuridico finale ([13]), orientamento, come si vedrà nel prosieguo, coltivato dalla giurisprudenza sino a divenire diritto vivente ([14]) e che, di recente, ha fatto breccia anche in parte della dottrina.
Sin qui, a ben vedere, l’art. 20 è stato riguardato quale norma di interpretazione e, dunque, di qualificazione degli “atti presentati alla registrazione”, secondo l’antevigente locuzione impiegata nel testo della disposizione. Ma la valenza sistematica dell’art. 20, per un’ampia parentesi temporale, si è arricchita, sul piano dell’applicazione dell’imposta, assumendo anche una spiccata funzione antielusiva ([15]).
Ed invero, affermatosi anche nell’ordinamento tributario il divieto dell’abuso del diritto - fenomeno che in ambito fiscale si sostanzia, nella sintesi imposta da queste brevi note, nel conseguimento di benefici fiscali attraverso un impiego di strumenti giuridici che, seppur non contrastante con alcuna specifica disposizione, risulta privo di ragioni economicamente apprezzabili che lo giustifichino e strumentale al solo perseguimento di quei benefici e che legittima, da parte dell’amministrazione finanziaria, il disconoscimento di tali benefici fiscali indebiti con ripresa a tassazione in relazione alla fattispecie elusa – ([16]), la disposizione in commento, che impone di valutare non solo gli effetti giuridici ma anche, in particolare, l’intrinseca natura degli atti soggetti a registrazione, è stata utilizzata per individuare ipotesi in cui le parti evitano l’applicazione dell’imposta o di una maggiore imposta di registro attraverso il ricorso a costruzioni negoziali complesse, non contemplate nella loro unitaria strutturazione dal sistema dell’imposta di registro, comportanti effetti ritenuti equivalenti a quelli di atti ivi espressamente contemplati.
In altri termini, la formulazione dell’art. 20, che attribuisce chiara preminenza alla sostanza sulla forma giuridica adottata, è stata ritenuta idonea a superare il tipo negoziale, quand’anche correttamente qualificato alla luce degli ordinari criteri ermeneutici, per individuare ipotesi in cui lo scopo pratico perseguito dalle parti consiste nella realizzazione di un assetto di interessi sostanzialmente equivalente a quello realizzabile attraverso una fattispecie assoggettata ad imposizione o a maggior imposizione.
In via esemplificativa, si consideri una delle ipotesi che più frequentemente ricorre nella casistica giurisprudenziale ([17]): il conferimento d’azienda in una società seguito dalla cessione di partecipazioni sociali dei conferenti (ipotesi entrambe assoggettate ad imposta fissa di registro). Tale operazione, sussistendo il collegamento negoziale tra l’atto di conferimento e l’atto di cessione, è stata complessivamente (ri)qualificata ai fini dell’imposta di registro come cessione dell’azienda (assoggettata ad imposizione proporzionale).
Si è rilevato che, in tal modo, si opera una sorta di sostituzione di fattispecie, in quanto l’imposizione viene determinata non in relazione alla fattispecie effettivamente posta in essere in concreto, ma in relazione ad altra più gravosa ritenuta equivalente quoad effectum. Peraltro, questa è l’essenza della speciale tipologia di accertamento antielusivo, che, tuttavia, deve ritenersi legittimo in quanto ne ricorrano tutti i presupposti ([18]).
Ed invero, la progressiva elaborazione giurisprudenziale ha successivamente chiarito che l’art. 20, ancorché ispirato anche a generiche finalità antielusive, non ha, nell’ambito dell’imposta di registro, natura di disposizione antielusiva in senso stretto, posto che prescinde dalla sussistenza di un intento elusivo o dalla constatazione di un uso “distorto” delle forme negoziali in assenza di valide ragioni economiche, funzionale al solo perseguimento di un risparmio di imposta. Tali profili, tipicamente connessi all’accertamento dell’elusione, non trovano riscontri nella formulazione normativa dell’art. 20 che, quindi, secondo l’orientamento di legittimità ormai consolidato, deve più propriamente ritenersi destinata ad operare esclusivamente sul piano dell’interpretazione e della qualificazione degli atti ([19]).
Ne discende, altresì, la non obbligatorietà del contraddittorio endoprocedimentale, come generalmente previsto dalle disposizioni antielusive e come invero attualmente previsto, a pena di nullità dell’atto impositivo, dall’art. 10 bis L. 212/2000, c.d. Statuto dei diritti del contribuente, introdotto dal d.lgs. 128/2015, che impone, altresì, in capo all’amministrazione finanziaria, precisi oneri di motivazione dell’atto impositivo, a pena di nullità del medesimo, e di prova della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio.
3. L’art. 20 in una prospettiva evolutiva …
L’art. 20, ancorché confinato nell’ambito della mera interpretazione e qualificazione degli atti, ha costituito lo strumento per un tentativo di superamento della rilevata inadeguatezza delle previsioni del tributo in esame, rimaste sostanzialmente inalterate nel tempo, a fronte della sempre maggiore complessità dei traffici commerciali ([20]).
In tale contesto, la perpetuazione della ricostruzione dell’imposta di registro quale “imposta d’atto” che non consente di colpire la capacità contributiva espressa da assetti negoziali complessi, unificati sul piano funzionale, è stata avvertita come non più rispondente alla moderna realtà socio-economica, in cui le parti, con operazioni negoziali anche molto sofisticate, ma non espressamente regolamentate dal tributo in esame, realizzano assetti di interessi suscettibili di risultare in concreto equivalenti a quelli corrispondenti agli effetti giuridici espressamente assoggettati ad imposizione.
La giurisprudenza di legittimità ha, dunque, continuato ad esplorare le potenzialità dell’art. 20, pur, come detto, dichiaratamente riguardato in chiave di norma meramente interpretativa, a fungere da, come è stato efficacemente osservato anche in dottrina ([21]), “clausola di autoadattamento” del sistema dell’imposta di registro al mutato contesto socio-economico ed è, negli ultimi anni, rimasta costante - dando luogo, come già emerso, alla formazione di un vero e proprio diritto vivente - nel ribadire che - nella prospettiva di una interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto dei principi di uguaglianza e di capacità contributiva (art. 3 e art. 53 Cost.) e in considerazione dell'evoluzione del tributo da tassa dovuta a fronte del servizio pubblico di archiviazione, conservazione e attribuzione di data certa all'atto, ad imposta dovuta in relazione alla forza economica di cui l’atto è espressione - la ricostruzione dell’obiettiva portata dell’attività negoziale posta in essere dalle parti non può prescindere, innanzitutto, dall’attribuzione di rilevanza al collegamento negoziale.
La giurisprudenza di legittimità ha, invero, evidenziato che, posto che l'atto soggetto a registrazione non si identifica con il documento bensì con l’assetto negoziale, il principio interpretativo di prevalenza della sostanza sulla forma ricavabile dall'art. 20 in commento impone, laddove l'assetto negoziale si articoli in una pluralità di negozi collegati, il suo apprezzamento unitario (del resto, il testo originario dell'articolo 20 conteneva la locuzione, significativamente al plurale, “ atti presentati alla registrazione”). In tale prospettiva, si è ritenuto di superare le obiezioni fondate sugli artt. 23 e 41 Cost., posto che la considerazione unitaria della pluralità degli atti di autonomia negoziale tra loro collegati risulterebbe avere, in tale prospettiva, base legale e non interferirebbe con l'autonomia negoziale delle parti, poiché i contratti restano validi ed efficaci inter partes, ma vengono riqualificati ai soli fini fiscali, profilo non demandabile alla discrezionalità delle parti anche in relazione al principio di indisponibilità dell'obbligazione tributaria ([22]).
In particolare, proprio in relazione al principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, corollario anch’esso del principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost., si osserva che le regole civilistiche di interpretazione del contratto ex art. 1362 ss. c.c., incentrate sulla ricerca della comune intenzione delle parti, non risultano, di per sé sole, dirimenti in ambito fiscale, come fatto palese proprio dalla formulazione dell’art. 20 in esame, da cui si ricava la preminenza degli oggettivi effetti che la regolamentazione negoziale produce, a prescindere dalla volontà delle parti di produrli ovvero dal loro accordo per produrre un determinato risultato fiscale ([23]). In sede di qualificazione negoziale a fini impositivi, invero, “gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscono a semplici elementi della fattispecie tributaria” ([24]).
In tale prospettiva di indagine dell’oggettiva portata dell’assetto di interessi delle parti, la giurisprudenza di legittimità ha fatto applicazione anche in ambito tributario della teorica della causa in concreto, il cui impiego giurisprudenziale in ambito civilistico si è andato via via sempre più affermando ([25]) e che, superando la tradizionale concezione della causa come funzione economico – sociale, attribuisce rilievo, nella brevità imposta dalle presenti note, agli interessi di cui le parti sono portatrici nella singola e concreta vicenda contrattuale, per giungere ad una nozione di causa come funzione economico-individuale della negoziazione medesima, ovvero come funzione pratica che le parti hanno effettivamente e concretamente attribuito al loro accordo e, dunque, in definitiva, come la sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare, al di là del modello astratto utilizzato.
Ebbene, nella prospettiva della causa concreta, laddove emerga che lo scopo pratico perseguito dalle parti di un determinato assetto contrattuale (nell’esempio tratto dalla casistica giurisprudenziale sopra enunciato, il conferimento d’azienda funzionalmente collegato alla cessione di partecipazioni della società conferitaria) sia quello di realizzare effetti corrispondenti a quelli di una diversa fattispecie assoggettata a maggior imposizione (nell’esempio, una cessione d’azienda), è stato dalla giurisprudenza ritenuto corretto applicare la tassazione corrispondente a tale diversa fattispecie, per l’appunto individuata come lo scopo pratico, la ragione concreta che le parti hanno perseguito con la loro negoziazione.
In tale prospettiva, dunque, la teorica della causa concreta viene impiegata sul piano della qualificazione e dell’interpretazione degli atti da sottoporre a registrazione, alla ricerca della sintesi degli interessi ivi oggettivati: ecco che, allora, in presenza di più atti funzionalmente collegati per la realizzazione di un’operazione economica complessiva, la qualificazione giuridica ai fini impositivi deve, giocoforza rispondere alla causa concreta dell’operazione negoziale complessiva: “La qualificazione interpretativa prescritta dal citato art. 20 ha ad oggetto la causa dell’atto, nella sua dimensione reale, concreta e oggettiva” ([26]).
Un tanto, inoltre, secondo tale orientamento, giustifica – con acuto parallelismo all’assoggettabilità a sanzione penale, ex art. 110 c.p., del concorrente che abbia posto in essere anche solo un frammento della complessiva condotta criminosa, purché causalmente rilevante – l’assoggettamento all’imposizione relativa alla complessiva operazione negoziale posta in essere anche di quelle parti che abbiano stipulato solo uno degli atti della sequenza avvinta da collegamento negoziale, laddove, dall’operazione complessiva posta in essere anche da altre parti, esse abbiano ritratto un beneficio oggettivamente apprezzabile ([27]).
In definitiva, la rilevanza sul piano della qualificazione negoziale della teorica della causa in concreto giustifica sia la considerazione unitaria della pluralità degli atti collegati ai fini dell’individuazione della fattispecie imponibile, sia l’imputazione soggettiva dei relativi effetti, unitariamente considerati, a tutte le parti (anche non coincidenti) degli atti medesimi.
Anche nell’ambito della dottrina tributaria si registrano, di recente, tentativi di sostenere la rilevanza ai fini impositivi del collegamento negoziale alla luce della teorica della causa in concreto, considerata quale elemento unificante della complessiva operazione economica realizzata dalle parti attraverso il collegamento negoziale, richiamando, in tale ottica, anche la dottrina civilistica che prospetta l’“operazione economica” quale categoria concettuale e giuridica, funzionale a coglierne gli effetti in termini di risultato complessivo.
In tale prospettiva, e ribadito che l’imposta non colpisce l’atto in quanto documento, la dottrina in esame prospetta una lettura in senso evolutivo del lemma “disposizione”, unità minima a cui applicare l’imposta, che si ritiene potrebbe indicare una convenzione negoziale non solo a struttura semplice, ma, altresì, “a struttura complessa”, a prescindere dalla veste documentale ([28]). Nell’ambito del medesimo ragionamento, si superano in via interpretativa le sopra richiamate asserite preclusioni sistematiche alla rilevanza del collegamento negoziale derivanti dai citati artt. 21 e 22 del d.p.r. 131/1986, a cui si attribuisce la funzione di sancire, nelle ipotesi ivi considerate, l’irrilevanza dell’unicità documentale ai fini dell’applicazione del tributo, ma non, altresì, quella di escludere, in generale, a prescindere dall’unicità o pluralità documentale, la considerazione unitaria, ai fini impositivi, dell’espressione dell’autonomia negoziale che si articoli in una pluralità di negozi diretti a realizzare un unitario assetto di interessi.
In particolare, l’art. 21, comma 1, contiene la regola dell’autonoma tassazione di una pluralità di “disposizioni”, non avvinte da collegamento necessario, contenute nel medesimo documento, da cui emerge unicamente l’irrilevanza della loro contestualità documentale, ma da cui non sarebbe dato ricavare, a contrario, l’irrilevanza ai fini impositivi del collegamento volontario: in altri termini, più convenzioni negoziali – ancorché contenute nel medesimo documento - restano plurime anche ai fini impositivi se esse, secondo la prospettiva ermeneutica che caratterizza il settore e di cui sopra si è detto, possono ritenersi effettivamente distinte, ma, in base all’articolo medesimo, non sarebbe dato escludere che, laddove le parti abbiano istituito un collegamento funzionale tra le convenzioni medesime, esse non possano essere apprezzate unitariamente ai fini impositivi. Quanto all’art. 22, si rileva che la finalità della disposizione è quella di sancire l’irrilevanza ai fini impositivi della contestualità documentale nel caso in cui un negozio ne enunci un altro, ma esso non detta un criterio interpretativo per il loro apprezzamento atomistico o in termini unitari laddove sussista un collegamento negoziale volontario ([29]).
4. (segue) … e gli evidenziati profili di criticità
Ragionando nella prospettiva della causa concreta – che implica l’accertamento degli interessi presenti nel caso singolo ed in vista dei quali le parti concludono quella specifica operazione, come in concreto congegnata -, è innegabile che la funzione pratica complessiva perseguita dalle parti possa risultare, alla luce di tutte le circostanze, in primo luogo, per rimanere nell’esempio, quella di trasferire l’azienda percependo il relativo corrispettivo. Tuttavia, laddove emerga che le parti perseguono, nel contempo, anche lo scopo pratico di realizzare un risparmio fiscale attraverso l’impiego di un assetto negoziale anziché di un altro, ebbene, nella prospettiva della causa concreta, dovrebbe ritenersi che anche tale interesse permea, in virtù della specifica nozione adottata, l’elemento causale ([30]).
Ma, allora, se nella individuazione della causa concreta deve tenersi conto anche dell’interesse a realizzare un risparmio fiscale, il terreno di indagine potrebbe spostarsi nuovamente verso la liceità o meno di tale risparmio di imposta e, dunque, in definitiva, sul terreno del contrasto all’elusione: secondo i principi generali, il risparmio sarà lecito in presenza di valide ragioni economiche extrafiscali, mentre dovrà, per l’appunto, qualificarsi come indebito nel caso contrario, con conseguente applicazione della tassazione in base alla fattispecie elusa ([31]).
In altri termini, se l’adesione alla teorica della causa in concreto implica attribuire rilievo causale anche all’interesse delle parti al risparmio di imposta che consegue all’adozione di un determinato schema negoziale, potrebbe obiettarsi che il superamento, ai fini impositivi, del predetto schema negoziale debba, allora, passare attraverso la contestazione dell’elusione, che, come sopra già emerso, implica in capo all’amministrazione finanziaria ben precisi oneri di allegazione, di prova e procedimentali.
Ma, come si è visto, costituisce approdo interpretativo attualmente condiviso, sia in giurisprudenza che in dottrina, quello per cui l’art. 20 non ha natura antielusiva.
Viceversa, lo sforzo giurisprudenziale di perseguire obiettivi di coerenza sistematica sul piano del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. assoggettando alla medesima imposizione fattispecie ritenute equiparabili quoad effectum, non è stato, in genere, condiviso in dottrina con riferimento alle ipotesi in cui l’equiparazione tra fattispecie ai fini impositivi travalichi l’equivalenza degli effetti giuridici per apprezzare anche quelli esclusivamente economici ([32]).
In particolare, nella prospettiva (anche questa non unanimemente accolta in dottrina nella vigenza del precedente testo dell’art. 20) di rilevanza del collegamento negoziale ai fini dell’imposta di registro ([33]), si è evidenziato che la tassazione unitaria dell’operazione negoziale posta in essere dalle parti non può che considerare, laddove ravvisabile, l’unitario effetto giuridico eventualmente riconducibile ad uno degli effetti giuridici espressamente presi in considerazione dal legislatore, ma il collegamento negoziale non potrà rilevare in sede fiscale laddove determini solo dal punto di vista economico effetti ritenuti equivalenti a quelli di una fattispecie impositiva prevista, pervenendosi altrimenti ad una equiparazione/sostituzione di fattispecie non consentita ex art. 23 Cost. ([34]).
Invero, secondo questo orientamento dottrinale in alcune delle ipotesi che ricorrono nella prassi non vi sarebbe identità di effetti giuridici tra fattispecie formalmente posta in essere e quella rispetto alla quale si opera l’equiparazione a fini impositivi ma, tutt’al più, solo possibile identità di effetti economici.
Nell’esempio di cui sopra - conferimento di azienda in società collegato al trasferimento delle partecipazioni nella predetta società - la dottrina in esame rileva una disomogeneità di effetti giuridici rispetto alla cessione onerosa dell’azienda, osservando, in particolare, che nella sequenza negoziale posta in essere dalle parti non si ravvisa tout court una cessione dell’azienda verso il corrispettivo di una somma di denaro, ma si ha, nel primo negozio, il trasferimento dell’azienda verso una partecipazione nella società conferitaria, e, nel secondo negozio, il trasferimento della partecipazione societaria verso il corrispettivo di una somma di denaro. E’ ben vero, osserva questo orientamento, che, dal punto di vista economico, l’acquisizione di una partecipazione totalitaria o di controllo in una società che detiene determinati beni è suscettibile di essere considerata fungibile rispetto all’acquisto diretto dei beni medesimi; tuttavia, da un punto di vista giuridico, gli effetti della circolazione diretta o indiretta dell’azienda rimangono non equiparabili e si apprezzano, in particolare, sul piano della responsabilità dell’acquirente per le passività connesse all’azienda, delle regole di imputazione del reddito prodotto e della relativa disciplina impositiva, del concorso dei creditori sui beni aziendali.
In tale prospettiva, questa dottrina ritiene che la tassazione dell’intera operazione come se le parti avessero realizzato una compravendita del compendio conferito rischia di riproporre, nel momento in cui si equiparano fattispecie che solo sul piano economico presentano effetti fungibili, la teorica dell’interpretazione funzionale dell’atto, abbandonata a seguito della scelta legislativa di attribuire rilevanza ai soli effetti giuridici dell’atto da registrare, e di non armonizzarsi, proprio nel momento in cui si ricerca una coerenza sistematica alla luce del parametro della capacità contributiva ex art. 53 Cost., con il diverso parametro costituzionale della riserva di legge ex art. 23 Cost. in quanto l’interprete, valutando caso per caso e dando rilievo anche ad effetti meramente economici, opera una equiparazione a fini impositivi non prevista dal legislatore, al di fuori dell’ambito dell’accertamento antielusivo, come detto, attualmente previsto dall’art. 10 bis L. 212/2000, c.d. Statuto dei diritti del contribuente, introdotto dal d.lgs. 128/15.
5. I recenti interventi legislativi e il “nuovo” art. 20
A fronte di questo panorama, come detto, nel 2017 il legislatore è intervenuto sulla disposizione dell’art. 20 sostituendo, quale oggetto a cui applicare l’imposta e, quindi, da interpretare secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici, l’espressione “atti presentati alla registrazione” con l’espressione “atto presentato alla registrazione” ed ha aggiunto che la predetta interpretazione deve avvenire “sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati”.
Non v’è dubbio che, così interpolata, l’attuale disposizione dell’art. 20 sia chiara nell’imporre la considerazione isolata dell’atto presentato alla registrazione ([35]) e nell’escludere, in particolare, la rilevanza del collegamento negoziale, vanificando gli sforzi giurisprudenziali (ma, come si è visto, di recente emersi anche in parte della dottrina) di pervenire, per via interpretativa, ad una applicazione del tributo di registro adeguata alla complessità dei traffici moderni.
In altri termini, il legislatore, anziché intervenire sulle disposizioni, in particolare sostanziali, del tributo di registro per tener conto della forza economica, espressiva di capacità contributiva, sottesa in particolare alle fattispecie di collegamento negoziale che realizzano vicende di circolazione indiretta di beni (anche) attraverso lo strumento societario, ha scelto di ricondurre l’imposta di registro alla concezione di “imposta d’atto” da applicarsi – salve le ipotesi espressamente previste – in relazione al solo contenuto e agli effetti giuridici del singolo atto.
Ne deriva, certamente, una più netta perimetrazione dell’ambito di applicazione dell’art. 20 rispetto alle riprese a tassazione fondate sul divieto di abuso del diritto e di elusione fiscale ex art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente, che, viceversa, contempla espressamente il collegamento negoziale e che, anche in relazione alla sua collocazione, è disposizione generale dell’ordinamento tributario, applicabile, salve deroghe espresse (che non sussistono per l’imposta di registro), a tutti i tributi ([36]).
Il collegamento negoziale volontario, quindi, alla luce della novella in esame, risulta rilevante ai fini dell’imposta di registro, salve le ipotesi espressamente previste, solo nell’ambito dell’accertamento antielusivo e, dunque, se impiegato senza valide ragioni economiche e per conseguire un risparmio d’imposta indebito, profili che dovranno essere contestati dall’amministrazione finanziaria e dovranno essere oggetto di contraddittorio endoprocedimentale, a pena di nullità dell’atto impositivo.
La novella del 2017 non si autoqualifica come legge di interpretazione autentica, al contrario di quanto previsto dall’art. 1, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente - che, tuttavia, come noto, non ha natura di norma interposta ma di criterio ermeneutico ([37]) -, ed ha posto l’interrogativo sulla sua natura interpretativa, con conseguente efficacia retroattiva, generalmente riconnessa alle leggi di interpretazione autentica e attualmente sancita anche dall'art. 3, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente ([38]), o innovativa e, dunque, in difetto di espresse previsioni di segno contrario, con efficacia solo per il futuro.
Trattasi di distinzione non sempre agevole e comunque delicata, in specie in ambito fiscale, anche in relazione ai possibili fenomeni di abuso dello strumento della legge di interpretazione autentica che veicoli, in realtà, disposizioni innovative che, per tal via, vengono surrettiziamente applicate con efficacia retroattiva ([39]). Ancorché, nel caso di specie, l’intervento legislativo appaia, a differenza di altri casi, risolversi in sfavore del Fisco - poiché in genere, nella casistica giurisprudenziale, la tassazione isolata degli atti che compongono la complessiva operazione economica comporta un carico fiscale inferiore rispetto alla loro tassazione unitaria -, nondimeno esso ha suscitato diverse perplessità che permangono anche a seguito della sua qualificazione come legge di interpretazione autentica operata dalla legge di bilancio 2019.
I criteri discretivi tra legge interpretativa e legge innovativa sono stati oggetto di una copiosa elaborazione, sia in dottrina che in giurisprudenza, in particolare da parte della Corte Costituzionale ([40]), che in questa sede deve essere necessariamente sintetizzata. Come noto, la peculiarità della norma di interpretazione autentica si ravvisa, a prescindere dalla sua autoqualificazione, nel rapporto con la norma interpretata, poiché la norma interpretante non ha una valenza autonoma, ma si fonde con la norma interpretata in un precetto unitario compatibile con il tenore letterale della disposizione interpretata, in quanto già ricompreso tra le possibili varianti di senso di quest’ultima. Si ritiene che l'esercizio della funzione di interpretazione autentica presupponga la necessità di chiarire la volontà del legislatore in presenza di una situazione di incertezza sulla portata normativa di una disposizione già vigente, incertezza che deriva non solo dall'esistenza di un contrasto giurisprudenziale, ma anche dalla necessità, avvertita dal legislatore, di imporre una possibile variante di senso compatibile con il tenore letterale della disposizione ([41]) e, quindi, di porre fine ad interpretazioni giurisprudenziali difformi da quella che intende essere la linea politica del legislatore medesimo ([42]).
Peraltro, la Corte Costituzionale ha anche chiarito che non è decisivo verificare se la norma abbia carattere interpretativo o abbia piuttosto carattere innovativo con efficacia retroattiva, in quanto il divieto di retroattività, ancorché principio generale dell’ordinamento e fondamentale valore di civiltà giuridica, è costituzionalizzato solo in materia penale (art. 25 Cost.): al di fuori di tale ambito, il legislatore può emanare norme retroattive (sia di carattere interpretativo che innovativo) purchè la retroattività risponda al criterio della ragionevolezza e non contrasti con altri interessi costituzionalmente protetti, quali il principio di uguaglianza e la tutela dell’affidamento legittimamente posto sulla certezza dell’ordinamento giuridico ([43]).
Le pronunce della Corte di Cassazione anteriori alla legge di bilancio 2019 si sono espresse nel senso della efficacia non retroattiva della novella del 2017 ([44]), richiamando, in primo luogo, il principio di tendenziale irretroattività della legge - desumibile dagli artt. 10 e 11 delle disposizioni sulla legge in generale, ribadito in ambito tributario dall’art. 3, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente e valorizzato anche dalla giurisprudenza sovrannazionale ed in particolare dalla Corte EDU che ritiene che la retroattività è giustificata solo in presenza di ragioni imperative di interesse generale ([45]).
Emerge, dunque, nell’argomentazione della Suprema Corte, il richiamo al dialogo che, in materia di disposizioni interpretative o comunque retroattive, si è svolto tra Corti interne e Corte EDU ([46]).
La Corte EDU, invero, in più occasioni ha affermato che le leggi retroattive – non è dirimente, nella sua prospettiva, se retroattive o innovative – in genere confliggono con il fisiologico esercizio della giurisdizione, e dunque contrastano con l’art. 6 della Convenzione, in quanto il diritto ad un equo processo è suscettibile di essere violato da un intervento normativo che, avendo carattere retroattivo, condiziona l’esito delle controversie già pendenti in favore di una parte (in genere, nelle fattispecie portate alla sua attenzione, lo Stato – pubblica amministrazione che sia parte processuale) piuttosto che dell’altra, salvo casi eccezionali in cui si ravvisino, per l’appunto, “imperative ragioni di interesse generale” o “impellenti ragioni di interesse pubblico” ([47]).
Peraltro, mentre avanti alla Corte EDU si è vagliato il rispetto del diritto fondamentale ad un equo processo, isolatamente considerato, il sindacato che in ordine alle disposizioni di interpretazione autentica si svolge avanti alla Corte Costituzionale, come rimarcato dallo stesso giudice delle leggi – che, come detto, mostra di condividere il rilievo del carattere non dirimente della natura interpretativa o innovativa con effetti retroattivi della norma scrutinata - , ha ad oggetto la ragionevolezza dell’effetto retroattivo alla luce di tutti gli interessi costituzionalmente protetti, in una prospettiva sistemica di bilanciamento che coinvolge anche il citato art. 6, norma interposta nella prospettiva interna ([48]), sì che gli esiti dei rispettivi sindacati sono suscettibili di non collimare ([49]).
In tale prospettiva, la Corte Costituzionale ha affermato che, sul piano interno, la ragionevolezza sussiste allorché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare beni e diritti di rilievo costituzionale “che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale” secondo la giurisprudenza della Corte EDU ([50]).
La Corte Costituzionale ha anche ritenuto non irragionevole la portata retroattiva della legge scrutinata che svolga una effettiva funzione di interpretazione autentica, limitandosi ad assegnare alla norma censurata un significato compatibile con il suo tenore letterale e dunque già in essa ricompreso al fine di ristabilire l’originaria volontà del legislatore, in quanto, anche nella prospettiva della giurisprudenza della Corte EDU, la sua ragionevolezza deve ravvisarsi proprio nel perseguimento di un interesse di carattere generale qual è la certezza del diritto, anch’esso rilevante sul piano del rispetto del principio dell’uguaglianza ([51]), sicché la norma interpretativa, operando sul piano delle fonti, non lede le attribuzioni del potere giudiziario.
Alla luce di tale dialogo, con riferimento al caso di specie, la richiamata giurisprudenza della Suprema Corte ritiene difetti proprio il predetto presupposto relativo alla sussistenza di adeguati motivi di interesse generale, con riferimento alla circostanza che l’interpretazione legislativamente imposta, nell’impedire, attraverso l’irrilevanza degli elementi esterni al singolo atto e del collegamento negoziale, una imposizione fiscale coerente con l’effettiva manifestazione di capacità contributiva sottesa alla complessiva operazione posta in essere dalle parti, va in senso contrario all’interesse della collettività, da identificarsi nel corretto riparto dei carichi pubblici in ragione degli indici di capacità contributiva posti in essere ex art. 53 Cost., estrinsecazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.
Inoltre, la giurisprudenza di legittimità mette in luce vari profili ostativi al riconoscimento alla novella del 2017 della funzione di interpretazione autentica.
Invero, a dispetto di quanto si legge nella relazione illustrativa alla legge di bilancio 2018, ove si enuncia un mero intento chiarificatore sulla portata applicativa dell’art. 20 ([52]), di fatto l'intervento si è concretamente tradotto in una profonda modifica strutturale e contenutistica del predetto articolo.
In particolare, l’orientamento giurisprudenziale in esame ha evidenziato che l’art. 1, comma 87, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205, oltre a non autoqualificarsi come legge di interpretazione autentica - secondo le previsioni dello Statuto, valorizzabili in chiave ermeneutica - , sul piano strutturale ha inciso direttamente sul testo dell’originaria disposizione dell’art. 20, modificandola in senso innovativo, come fatto palese dal tenore letterale dell’art. 1, comma 87, medesimo, che enuncia che all’art. 20 sono apportate “le seguenti modificazioni …”.
Sul piano contenutistico, alla locuzione “ atti presentati” si sostituisce la locuzione, al singolare, “ atto presentato” e si introduce un limite all'estrinsecarsi dell'attività interpretativa – “ sulla base degli elementi desumibili dall'atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati” - in precedenza non previsto secondo il consolidato orientamento, in particolare, della giurisprudenza di legittimità.
Nella medesima prospettiva, la giurisprudenza di legittimità evidenzia l’insussistenza di contrasti giurisprudenziali in ordine alla latitudine dell'attività interpretativa ex art. 20 e alla rilevanza del collegamento negoziale, sussistendo anzi, come già ampiamente emerso, un diritto vivente sul punto; infine, rileva che non sussiste nemmeno l'esigenza di chiarire i termini del coordinamento tra l’art. 20 e l’art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente, atteso che l’orientamento giurisprudenziale prevalente da tempo esclude la natura antielusiva dell’art. 20 in relazione al diverso ambito applicativo dei due articoli, il primo operante sul piano dell'interpretazione e qualificazione degli atti, il secondo, per l'appunto, operante nell'ambito del contrasto all'abuso del diritto.
Resta, peraltro, il dubbio che, pur in assenza di significativi contrasti giurisprudenziali e, anzi, in presenza di un diritto vivente in materia, il precetto normativo risultante dalla disposizione dell’art. 20, come interpolata dal legislatore del 2017, risulti suscettibile di essere letto, alla luce dei percorsi interpretativi tratteggiati nei precedenti paragrafi, quale una delle possibili varianti di senso compatibile con il precedente testo dell’art. 20 (come si è visto, nella vigenza del precedente testo l’irrilevanza del collegamento negoziale è stata sostenuta, in particolare in dottrina). In altri termini, ancorché la novella modifichi il testo della disposizione dell’art. 20, il senso espresso dalle modifiche testuali e, dunque, la portata normativa delle medesime, potrebbe essere ritenuto compatibile con uno dei possibili precetti ricavabili dalla precedente disposizione, quello più “antico” della rilevanza isolata dell’atto.
Alla novella del 2017 potrebbe, per tal via, riconoscersi effettivamente natura di legge di interpretazione autentica, secondo la qualificazione operata dalla legge di bilancio 2019, con conseguente portata retrospettiva - che, peraltro, come si è detto, pare risolversi in favore del contribuente -, risultando conseguentemente applicabile anche agli accertamenti ancora non definitivi. Pare, invero, che potrebbe sostenersi, in tale prospettiva, che con i predetti interventi il legislatore ha inteso chiarire la propria scelta politica in materia di imposta di registro in modo divergente dal diritto vivente, secondo un impiego della legge di interpretazione autentica già in passato riconosciuto astrattamente legittimo dalla Corte Costituzionale ([53]).
Nondimeno, anche in tale prospettiva ed anche laddove si ritenga che l’effettiva funzione di interpretazione autentica integri una autonoma e autosufficiente giustificazione dell’effetto retroattivo, resta, in ogni caso, l’ulteriore dubbio che, avuto riguardo alla moderna realtà dei traffici commerciali, l’esito dell’intervento legislativo in esame non sia del tutto rispondente ai parametri di cui agli art. 3 e 53 Cost. riguardati sul piano della coerenza interna del tributo - intesa quale coerenza tra costruzione della fattispecie imponibile e ratio ispiratrice del tributo (il presupposto impositivo, espressivo della capacità contributiva colpita) ([54]) –, quantomeno ove sia possibile configurare in concreto fattispecie in cui il collegamento negoziale determini effetti giuridici (non solo economici) contemplati dal sistema del tributo.
Laddove si condividano le rilevate criticità in ordine alla retroattività della novella e/o alla sua coerenza interna rispetto alla struttura del tributo e non si rinvengano margini per una sua interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata – margini che parrebbero, ad una prima lettura, di non agevole identificazione a fronte, da un lato, del chiaro tenore letterale relativo all’esclusione degli elementi extratestuali e del collegamento negoziale e, dall’altro lato, della espressa qualificazione da parte della sopravvenuta legge di bilancio 2019 della novella in esame come legge di interpretazione autentica -, resta aperta la prospettiva, ricorrendone in concreto i relativi presupposti, della proposizione dell’incidente di costituzionalità.
([1]) Recante disposizioni in materia di Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020, c.d. legge di bilancio 2018.
([2]) In particolare, l’art. 1, comma 1084, della c.d. legge di bilancio 2019 statuisce: “L’articolo 1, comma 87, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205, costituisce interpretazione autentica dell’art. 20, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131”.
L’art. 1, comma 87, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205, a sua volta, ha introdotto delle modifiche all’art. 20, comma 1, della legge di registro, nei termini che seguono: “87. Al testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all'articolo 20, comma 1: 1) le parole: « degli atti presentati » sono sostituite dalle seguenti: « dell'atto presentato »; 2) dopo la parola: « apparente » sono aggiunte le seguenti: « , sulla base degli elementi desumibili dall'atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi »”.
Sicché, mentre il testo dell’antevigente art. 20, comma 1, era il seguente: “L'imposta e' applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”, l’attuale testo, a seguito delle predette modifiche, risulta così formulato: “1. L'imposta e' applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell'atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall'atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.
([3]) Sulla rilevanza del collegamento negoziale in sede di applicazione dell’art. 20 in ambito giurisprudenziale si veda la ricostruzione di Stalla, sub L’imposta di registro, in Rassegna semestrale delle pronunce della Corte di Cassazione in materia tributaria, a cura dell’Ufficio del Massimario e Ruolo, Primo semestre 2018, 277. In particolare si veda, di recente, Cass. 13610/2018, in relazione ad una fattispecie in cui si è configurato, avuto riguardo alla vicinanza temporale dei contratti, un collegamento negoziale tra un conferimento societario di un'azienda e la successiva cessione da parte del conferente a soggetti terzi delle quote della società medesima; si veda, altresì, Cass. 4590/2018, in relazione ad una fattispecie in cui, in stretta consecuzione temporale, due soggetti hanno costituito una società conferendo un immobile di loro proprietà, gravato da un mutuo, oggetto di accollo da parte della società medesima e, successivamente, hanno ceduto la loro quota sociale ad un terzo soggetto per un importo corrispondente al capitale sociale della società medesima, sostanzialmente corrispondente al valore dell'immobile al netto del debito residuo relativo al mutuo; si segnala anche Cass. 4407/2018, relativa ad una fattispecie analoga alla precedente. La rilevanza del collegamento negoziale nell’applicazione dell’imposta di registro costituiva, prima dei recenti interventi legislativi, diritto vivente: si vedano, altresì, Cass. 11873/2017; Cass. 6578/2017; Cass. 3562/2017; Cass. 10216/2016; Cass.1955/2015; Cass.14150/2013; Cass. 6835/2013; Cass. 2713/2002.
([4]) Sui profili generali del tributo e sulla sua natura poliedrica, in relazione alla sua evoluzione storica da tassa, dovuta per il servizio pubblico della registrazione, ad imposta, parametrata alla capacità contributiva espressa dall'atto soggetto a registrazione ed il cui presupposto sorge, secondo alcuni, sin dal verificarsi del fatto o dell'atto imponibile, a prescindere dalla richiesta di registrazione, si vedano Ferrari, voce Registro (imposta di), in Enc. Giur. Treccani, Roma, XXVI, 1991; Santamaria, voce Registro (imposta di), in Enc. Dir., Milano, XXXI,1988; Uckmar-Dominici, voce Registro (imposta di), in Dig. Disc. Priv.- Sez. comm., Torino, XXII, 1996; Fransoni, Il presupposto dell’imposta di registro tra tradizione ed evoluzione, in Rass. trib., 2013, 955 ss.; Tabet, L’applicazione dell’art. 20 T.U. Registro come norma di interpretazione e/o antielusiva, in Rass. trib., 2016, 913 ss. Di recente, sui profili generali del tributo, si segnala il contributo di Delli Priscoli, sub L’imposta di registro, in Rassegna semestrale delle pronunce della Corte di Cassazione in materia tributaria, a cura dell’Ufficio del Massimario e Ruolo, Primo semestre 2018, 267 ss.
Seguendo tale linea di sviluppo, parte della dottrina ha sostenuto che il tributo di registro conserva la natura di tassa nelle ipotesi di imposizione fissa e assume la natura di imposta nell'ipotesi di imposizione proporzionale, mentre altra parte della dottrina riconosce al tributo di registro la natura di imposta nei casi in cui è prevista l'obbligatorietà della registrazione e di tassa in relazione alle ipotesi di registrazione volontaria, v. in particolare la ricostruzione di Uckmar-Dominici, voce Registro (imposta di), cit., 259; Ferrari, voce Registro (imposta di), 2 la quale, quanto a tale ultima impostazione, richiama Jammarino, Commento alla legge sulle imposte di registro, Torino, 1962, 5.
([5]) In particolare, l’interpretazione economica o funzionale sostenuta dalla cosiddetta scuola di Pavia (gli Autori citati alla precedente nota ricordano Griziotti, Il principio della realtà economica sugli art. 8 e 68 della legge di registro, in Riv. dir. fin., 1939, II, 202; Jarach, Principi per l’applicazione delle tasse di Registro, Padova, 1937; Giannini A.D., I concetti fondamentali del diritto tributario, Bari, 1938; Vanoni, Natura ed interpretazione delle leggi tributarie, Padova, 1932) riteneva che l'imposta colpisce direttamente il fatto economico sottostante l'attività giuridica, sicché all'interprete è consentito indagare la sostanza economica dell'atto a prescindere dalla sua veste giuridica.
Peraltro, già sotto la vigenza della formulazione normativa che non specificava la natura degli effetti rilevanti, un contrapposto orientamento (si ricordano, in particolare, Uckmar A., Berliri, Rastello, Batistoni Ferrara) privilegiava un criterio di imposizione fondato sugli oggettivi effetti giuridici del tipo negoziale utilizzato dalle parti, ancorché solo potenziali. La giurisprudenza aveva sin da subito accolto questa seconda impostazione, sostenendo che l'imposta colpiva la potenzialità economica in quanto espressa dagli effetti giuridici dell'atto: Cass. 1491/1943; Cass. 2183/1952; Cass. 3046/1959, si veda, per tale ricostruzione, Tabet, L’applicazione dell’art. 20 T.U. Registro, cit., 915.
([6]) Ai fautori della teoria economica si obiettava che il trattamento impositivo sarebbe arbitrariamente determinato dall'interprete in modo incompatibile con la certezza del diritto e il principio di riserva di legge ex art. 23 Cost., in quanto sarebbe l'interprete a stabilire l'idoneità degli atti a manifestare una certa capacità contributiva, v. Santamaria, voce Registro (imposta di), cit., 544 ss. il quale evidenzia che, del resto, gli stessi sostenitori della teoria economica ritenevano che tale impostazione dovesse essere impiegata con estrema attenzione e riporta testualmente un passaggio di Giannini A.D., Istituzioni, 155 che invitava ad utilizzare la predetta teoria “ con la massima circospezione, per evitare di sostituire il proprio apprezzamento soggettivo alla norma posta dal legislatore”.
([7]) In particolare, Uckmar – Dominici, voce Registro (imposta di), cit. 263; Ghinassi, Imposte di registro e di successione, Milano, 1996, 2 ss.
([8]) A differenza dell'imposta di bollo che colpisce l'atto in quanto documento, Ferrari, voce Registro (imposta di), cit., 2. In particolare, per la configurazione del presupposto del tributo che valorizza gli effetti giuridici: Ghinassi, Imposte di registro e di successione, cit., 2 ss.; Fransoni, Il presupposto dell’imposta di registro, cit., 969. In giurisprudenza, Cass. 7637/2018; Cass. 3481/2014.
([9]) Anche l’atto nullo, invero, soggiace ad imposizione, ancorché improduttivo di effetti giuridici, salvo, a determinate condizioni, il diritto al rimborso, per la parte eccedente la misura fissa, ove la nullità sia stata definitivamente accertata (art. 38 del T.U. registro); con specifico riferimento all’atto nullo, tale assetto viene ritenuto sistematicamente coerente, anche sul piano della giustificazione costituzionale, in relazione all'esigenza di evitare che attraverso l'esecuzione dell'atto viziato si determini la stessa situazione espressiva di capacità contributiva derivante dall'esecuzione dell'omologo atto privo del vizio. Su tali profili, Uckmar – Dominici, voce Registro (imposta di) cit., 261, ove, quanto all’identificazione del presupposto del tributo, si rileva “l’esistenza di un sostrato economico costituisce parametro di legittimità costituzionale di ciò che il legislatore assume essere l’effetto giuridico imponibile”. In giurisprudenza, si veda, di recente, Cass. 6832/2018 che, in applicazione del principio di cui al citato art. 38, ha affermato che l’obbligo di chiedere la registrazione e di pagare la relativa imposta sussiste anche in ipotesi di nullità o annullabilità dell’atto, salvo il diritto alla restituzione (per la parte eccedente l’imposta fissa) a seguito di accertamento dell’invalidità dell’atto con sentenza passata in giudicato in ragione di un vizio non imputabile alle parti, laddove l’atto sia insuscettibile di ratifica, convalida o conferma.
([10]) Si vedano, anche per le argomentazioni in chiave sistematica, Fransoni, Il presupposto dell’imposta di registro, cit., 962; Zizzo, Imposta di registro e atti collegati, in Rass. trib., 2013, 876, il quale rileva che la presenza, nel sistema dell’imposta, di disposizioni quali l’art. 21 e 22, che danno rilievo alla connessione tra diversi atti in presenza di determinati presupposti, significherebbe che tale rilevanza non potrebbe essere fatta discendere, in generale, dall’art. 20. Nella prospettiva del superamento delle obiezioni fondate sugli artt. 21 e 22, di recente, Cannizzaro, Autonomia e pluralità di disposizioni nell’imposta di registro: contributo ad una riflessione in chiave evolutiva, in Riv. trim. dir. trib., 2016, 278 ss., v. anche infra, nel testo.
([11]) Per l’evoluzione dell’interpretazione del concetto di “disposizione”, quale unità minima impositiva, dall’originario riferimento alla singola attribuzione contrattuale al successivo riferimento al negozio giuridico si veda, di recente, la ricognizione svolta da Cannizzaro, Autonomia e pluralità di disposizioni, cit., 278 ss.; l’Autrice, indagando la possibile rilevanza del collegamento negoziale, prospetta anche una lettura in chiave evolutiva di tale lemma come convenzione negoziale a struttura tanto semplice quanto complessa, a prescindere dall’instrumentum, ovvero dall’unicità documentale, irrilevante, nella prospettiva seguita, nell’applicazione del tributo, v. anche infra, nel testo.
Si tratta di un approdo coerente con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che, sul presupposto che il concetto di “atto” non identifica il mero contesto documentale, ha interpretato la locuzione “atti presentati alla registrazione”, di cui al previgente testo dell’art. 20, come riferibile anche all’insieme dei negozi collegati, v. Stalla, sub L’imposta di registro, cit., 278, che richiama in particolare Cass. 10743/2013; Cass. 6405/2014; Cass. 25001/2015.
([12]) Cass. 15774/2017; Cass. 22899/2014.
([13]) Sul punto, Uckmar – Dominici, voce Registro (imposta di), cit., che richiama Cass. 4994/1991. Si vedano, del resto, per la rilevanza del collegamento negoziale, tra le sentenze più risalenti, anche Cass. 5563/1980 e Cass. 5693/1978. Nella dottrina più recente, si vedano Fransoni, Il presupposto dell’imposta, cit., 973; Canizzaro, Autonomia e pluralità di disposizioni, cit., 286; Padovani, Imposta di registro e collegamento negoziale nel pensiero della Cassazione, in Riv. trim. dir. trib., 2014, 237. In senso contrario alla predetta rilevanza, si vedano: Marongiu, L’elusione nell’imposta di registro tra abuso del “diritto” e abuso di potere, in Dir. prat. trib., 2008, I, 1077; Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, Torino, 2012, 273; Boria, Il sistema tributario, Torino, 758; Girelli, Abuso del diritto e imposta di registro, Torino, 2012, 61.
([14]) Si veda l’ampia ricognizione di Stalla, sub L’imposta di registro, cit. 277.
([15]) Applicazione in termini antielusivi che si fa risalire a Cass. 14900/2001. A partire da Cass. 15319/2013 la Cassazione ha sostenuto costantemente la natura non antielusiva della disposizione in commento. Anche tale arresto, ormai, può considerarsi diritto vivente, si vedano Cass. 13610/2018; Cass. 8619/2018; Cass. 21676/2017; Cass. 6758/2017; Cass. 2054/2017; Cass. 18454/2016; Cass. 24594/2015; Cass. 1955/2015; Cass. 6835/2013. Si sottolinea, altresì, che l’art. 20 opera su un piano diverso anche dall'istituto della simulazione, posto che la riqualificazione ex art. 20 apprezza gli effetti oggettivamente prodotti dal negozio o dal collegamento negoziale, a prescindere dall'effettiva volontà delle parti di porre in essere quel negozio o quel collegamento negoziale v. Cass. 5748/2018 che richiama Cass. 2050/2017; Cass. 9585/2016; Cass. 19211/2016; Cass. 9573/2016; Cass. 18454/2016.
([16]) Il percorso che ha portato all’affermazione del principio, oggi sancito in via generale dall’art. 10 bis della L. 212/2000, c.d. Statuto dei diritti del contribuente, introdotto dal d.lgs. 128/15, è stato complesso, v. le considerazioni di Stalla, sub Imposta di registro, cit. 287; l’Autore richiama, per i tributi non armonizzati, l’orientamento espresso da Cass. SS.UU. 30055/2008, che ha ritenuto la sussistenza di un principio generale antiabuso quale estrinsecazione dei principi costituzionali di capacità contributiva e progressività dell’imposizione e che ha specificato e integrato l’orientamento della Suprema Corte che, prima dell’entrata in vigore dell’art. 37 bis d.p.r. 600/73 – disposizione antielusiva collocata nell’ambito dell’accertamento delle imposte sui redditi e abrogata dal citato art. 10 bis –, aveva riconosciuto l’esistenza nell’ordinamento interno di un principio tendenziale antielusivo derivante dai principi dell’ordinamento comunitario e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, v. Cass. 20398/2005.
([17]) Per la ricognizione della casistica giurisprudenziale in ordine alle più significative ipotesi di riqualificazione ex art. 20, in particolare in considerazione del collegamento negoziale, v. Stalla, op. cit., 279, il quale annovera, in particolare, le seguenti ipotesi: il collegamento negoziale tra mutuo ipotecario e conferimento alla società dell'immobile su cui grava l'ipoteca, anche senza successiva cessione di quote societarie, riqualificato come vendita (Cass. 4589/2018; Cass. 7637/2018); le vendite separate, ma collegate, di beni funzionalmente suscettibili di destinazione ed organizzazione produttiva unitaria, riqualificate come cessione di azienda (Cass. 1955/2015; Cass. 17965/2013; Cass. 31069/2017); la cessione totalitaria delle quote di una società operativa, riqualificata come cessione di azienda (Cass. 24594/2015); l'operazione che si articola nel finanziamento della società contribuente, nell'apporto del patrimonio immobiliare di questa ad un fondo comune di investimento immobiliare verso accollo liberatorio del finanziamento da parte della società di gestione del fondo, nell'attribuzione alla società apportante di quote di partecipazione al fondo per un ammontare molto inferiore al valore finanziato, nella cessione delle quote ad altri partecipanti o investitori, operazione riqualificata come cessione onerosa (Cass. 15319/2013).
([18]) Mastroiacovo, Abuso del diritto o elusione nell’imposta di registro e negli altri tributi indiretti, in AA.VV., Abuso del diritto ed elusione fiscale, Torino, 2016, 243 ss.; Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. trib., 2015, 1322, nt.7, ove si rileva che l’utilizzo dell’art. 20 per rendere inopponibile al Fisco lo schema negoziale formalmente adottato in relazione agli effetti economici equivale ad un utilizzo del predetto art. 20 per raggiungere l’effetto che costituisce il quid proprium delle norme antielusive: sicché l’attribuzione di rilevanza agli effetti economici degli atti da registrare presupporrebbe, coerentemente, l’attribuzione all’art. 20 di una funzione antielusiva.
([19]) Come ricordato alla nota 15, a partire da Cass.15319/2013 si è formato un diritto vivente secondo cui l’art. 20 è norma che opera sul piano dell’interpretazione e non propriamente su quello antielusivo, si vedano, ex multis, le già citate Cass. 13610/2018; Cass. 8619/2018; Cass. 21676/2017; Cass. 6758/2017; Cass. 2054/2017; Cass. 18454/2016; Cass. 24594/2015; Cass. 1955/2015; Cass. 6835/2013. Secondo questo orientamento, ancorché norma priva di funzione antielusiva, l’art. 20 consente di riqualificare l’operazione posta in essere in base al dato giuridico reale.
([20]) Rilevano tale inadeguatezza, in particolare, Fransoni, Il presupposto dell’imposta, cit., 956; Cannizzaro, Autonomia e pluralità di disposizioni, cit., 278 ss.; Tabet, L’applicazione dell’art. 20 T.U., cit., 920.
([21]) Cannizzaro, Autonomia e pluralità di disposizioni, cit., 286.
([22]) Si veda l’ampia ricognizione di Stalla, sub L’imposta di registro, cit., 278, il quale osserva che, viceversa, non sussiste la necessità di far riferimento ad elementi esterni e collegati all'atto sottoposto registrazione nell'ipotesi di atti di natura non negoziale ed in particolare con riferimento alle sentenze o ai lodi arbitrali, ipotesi in cui è necessario limitarsi ai soli effetti e contenuti che emergono dal provvedimento, v. Cass. 15918/2011.
La configurazione di un collegamento negoziale - il cui accertamento in concreto integra una questione di fatto demandata al giudice di merito con apprezzamento non sindacabile in sede di legittimità se correttamente e congruamente motivato, v. Cass. 7637/2018; Cass. 11974/2010 – comporta delle ricadute innanzitutto sul piano dell’identificazione dei soggetti passivi: se, ex art. 57, comma 1, d.p.r. 131/1986, tenute all’adempimento dell’obbligazione di pagamento dell’imposta di registro sono le parti in solido tra loro (c.d. solidarietà paritetica, in quanto il presupposto del tributo è riferibile a tutti i condebitori), nell’ipotesi in cui si ravvisi un collegamento negoziale in forza di riqualificazione ex art. 20, devono ritenersi obbligate in solido tutte le parti che abbiano partecipato ai distinti negozi avvinti da collegamento, v. Delli Priscoli, sub L’imposta di registro, cit., 269, che richiama Cass. 12909/2018. Sul piano procedimentale, il collegamento rileva ai fini dell’individuazione del dies a quo del termine di decadenza dal potere impositivo che, in tale prospettiva, dovrebbe individuarsi avuto riguardo all’ultimo atto della sequenza negoziale, v. Cass. 11474/2018 e Cass. 25001/2015, nonché dell’individuazione della competenza territoriale che, viceversa, viene radicata dal primo degli atti della sequenza, v. Cass. 8792/2017, richiamate da Stalla, sub L’imposta di registro, cit., 282.
([23]) Stalla, sub Imposta di registro, cit., 291 che richiama Cass. 23584/2012; di recente, v. Cass. 2009/2018; Cass. 4407/18.
([24]) Cass. 7637/2018; Cass. 2007/2018; Cass. 19752/2013; Cass. 10660/2003, Cass. 14900/2001.
([25]) La letteratura sull’argomento è ampia. Nella sintesi del presente scritto si richiama Roppo, Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. dir. civ., 2013, 957 ss. e la giurisprudenza civilistica ivi richiamata.
In ambito tributario, ai fini dell’applicazione dell’art. 20 hanno richiamato il concetto di causa concreta, di recente, Cass. 7649/2018; Cass. 4590/2018; Cass. 4407/2018; Cass. 2007/2018; Cass. 6758/2017; Cass. 11692/2016.
([26]) v. Cass. 4407/2018 e Cass. 4590/2018 che aggiungono: “…quando gli atti sono plurimi e funzionalmente collegati, quando cioè la causa tipica di ciascuno è in funzione di un programma negoziale che la trascende, non può rilevare che la causa concreta dell’operazione complessiva, ossia la sintesi degli interessi oggettivati nell’operazione economica … e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti così come emerge obiettivamente dai negozi posti in essere, anche se mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali” e richiamano Cass. 1955/2015; Cass. 14611/2005; Cass. 14900/2001.
([27]) v. le citate Cass. 4407/2018 e Cass. 4590/2018.
([28]) In tali termini, v. Cannizzaro, Autonomia e pluralità di disposizioni, cit. 292 che richiama Gabrielli, Il contratto e l’operazione economica, in Riv. dir. civ., 2003, 93 ss., il quale prospetta la rilevanza dell’ “operazione economica” non già sul piano meramente descrittivo, ma altresì sul piano sistematico ed applicativo; in particolare, l’Autore rileva che l’operazione economica, quale “schema unificante l’intero assetto di interessi disegnato dall’autonomia privata, penetra all’interno delle singole cause che compongono il collegamento negoziale, qualificandole in concreto, a prescindere dalla causa tipica dei singoli schemi negoziali”: operazione economica, dunque, quale categoria giuridica che esprime, nell’ambito della teorica della causa in concreto, l’unità formale dell’operazione.
([29]) In ordine a tali argomentazioni, v. Cannizzaro, op.cit., 295 ss. Del resto, l’Autrice rileva che il sistema dell’imposta conosce ipotesi volte a disciplinare una pluralità di atti relativi ad una medesima vicenda giuridica, come avviene in relazione all’ipotesi della sequenza contratto preliminare – contratto definitivo, all’ipotesi del contratto condizionato e all’ipotesi degli atti solutori relativi ad un rapporto già sorto che avvengano attraverso atti di trasferimento immobiliare non contestuali. In ordine all’apprezzamento dell’unitarietà logico – giuridica della sequenza preliminare – definitivo anche agli effetti fiscali, v. Cass. 30192/2017.
([30]) Come rileva Roppo, Causa concreta, cit., 977.
([31]) Dopo un iniziale periodo in cui il tema dell’elusione fiscale è stato affrontato in termini civilistici sub specie di nullità del negozio per mancanza o illiceità della causa – si vedano, in via esemplificativa, Cass. 22932/2005 e Cass. 30057/2008 –, da ultimo si sostiene che l’elusione fiscale non comporta la nullità del negozio in sede civilistica per difetto/illiceità della causa, anche in relazione alla previsione di cui all’art. 10, comma 3, dello Statuto dei diritti del contribuente, a mente del quale “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto”, si veda Roppo, Causa concreta, cit., 978; in giurisprudenza si veda Cass. 5612/2017.
([32]) Tabet, L’applicazione dell’art. 20 T.U., cit. 921; Zizzo, Imposta di registro e atti collegati, in Rass trib., 2013, 874 ss.; Mastroiacovo, Abuso del diritto e interpretazione degli atti, consultabile sul sito www.treccani.it.
([33]) In dottrina si colgono, invero, aperture all’apprezzamento del collegamento negoziale, nell’ambito della sola considerazione degli effetti giuridici e non senza prospettarne criticità sul piano dell’applicazione dell’imposta, ancora congegnata con riferimento al singolo atto, v. Fransoni, Il presupposto dell’imposta, cit., 973; Cannizzaro, Autonomia e pluralità di disposizioni, cit., 286; Padovani, Imposta di registro e collegamento negoziale nel pensiero della Cassazione, in Riv. trim. dir. trib., 2014, 237. Come già in precedenza ricordato, in senso contrario, v. Marongiu, L’elusione nell’imposta, cit., 1077; Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, cit., 273; Boria, Il sistema tributario, cit., 758; Girelli, Abuso del diritto, cit., 61.
([34]) Si vedano, in particolare, sul punto, Zizzo, Imposta di registro e atti collegati, cit., 878 ss.; Fanni, L’art. 20 del T.U.R. tra natura antielusiva e valutazione degli effetti giuridici degli atti nella circolazione indiretta delle aziende, in GT- giur.trib., 2014, 502 ss; Id., La Cassazione rivede i suoi precedenti sull’art. 20 T.U.R. e sulla circolazione indiretta dell’azienda: c’è luce in fondo al tunnel? in GT-giur. trib., 2017, 227 ss. In giurisprudenza non ha avuto seguito l’orientamento espresso da Cass. 2054/2017 che, sul rilievo che l’attività di interpretazione e qualificazione consentita dall’art. 20 non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, ha negato la riqualificabilità dei negozi collegati che realizzano una circolazione indiretta dell’azienda in cessione (diretta) dell’azienda medesima, rilevando che, ancorché gli effetti economici siano suscettibili di essere ritenuti equivalenti, le due operazioni divergono quanto ad effetti giuridici. Invero, la giurisprudenza successiva ha ribadito l'orientamento dominante, rilevando che tale isolato precedente che mal si concilia con il principio costituzionale di capacità contributiva, con l'evoluzione del tributo in questione della natura di tassa a quella di imposta, con l'evoluzione giurisprudenziale in materia della configurabilità della causa come causa concreta, v. in particolare Cass. 7637/2018; Cass. 8619/2018.
([35]) Stalla, sub L’imposta di registro, cit., 277.
([36]) Sul punto, in particolare, Mastroiacovo, Abuso del diritto o elusione nell’imposta di registro e negli altri tributi indiretti, cit., 249 ss. che rileva che, a seguito dell’introduzione dell’art. 10 bis, tra le possibili norme/interpretazioni dell’art. 20 dovrebbero essere espunte quelle che legittimano contestazioni in termini di elusione o abuso o che si fondano sull’ “effetto economico finale”, dovendo queste condotte essere sussunte nell’ambito dell’art. 10 bis, sia sul piano sostanziale che procedimentale.
([37]) L’art. 1, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente, rubricato “Principi generali” prevede: “L'adozione di norme interpretative in materia tributaria puo' essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica.”. La legge di bilancio 2018 non prevedeva tale autoqualificazione ma, come chiarito anche da Corte Cost. 216/2004, i principi dello Statuto ed in particolare le c.d. norme sulla normazione non hanno natura di norme interposte e sono inidonee a fondare un giudizio di legittimità costituzionale della legge ordinaria successiva che le violi. Nondimeno, esse sono “criteri di interpretazione adeguatrice”. Anche recentemente la Cassazione ha ribadito che le norme dello Statuto non hanno, nella gerarchia delle fonti, un rango superiore a quello della legge ordinaria e, dunque, non possono fungere da norme parametro di costituzionalità, ma hanno la funzione di risolvere, sul piano dell’interpretazione, eventuali dubbi ermeneutici, v. Cass. 16227/2018; Cass. 20812/2017; Cass. 4815/2014.
([38]) La naturale retroattività della legge interpretativa è oggi sancita anche dall'articolo 3, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente che prevede che, in generale, le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo, salvo quanto previsto dall'art.1, comma 2, in materia, per l’appunto, di leggi di interpretazione autentica.
([39]) Sul fenomeno dell’abuso della legge di interpretazione autentica al fine di introdurre, in realtà, disposizioni innovative con efficacia retroattiva, ravvisato in particolare laddove, per tal via, si determini l’esito del contenzioso in favore del Fisco, v. Mastroiacovo, Esiste davvero la legge di interpretazione autentica ?, in Riv. dir. trib., 2012, I, 538.
([40]) La Corte Costituzionale ha da tempo chiarito che la legge interpretativa deve ritenersi senz’altro ammissibile, v. Corte Cost. 118/1957 e Corte Cost. 123 e 233/1988, salvo che risultino vulnerate le funzioni giurisdizionali, ipotesi che si è ritenuta integrata da un intervento volto ad annullare gli effetti del giudicato, v. Corte Cost. 155/1990, o quando la legge incida intenzionalmente su concrete fattispecie sub iudice, v. Corte Cost. 6/1994. Ed invero, l’efficacia retroattiva, sotto il profilo della ragionevolezza, viene giustificata proprio in relazione alla necessità di sciogliere un obiettivo dubbio ermeneutico in relazione ad una disposizione già vigente (Corte Cost. 229/99), anche a prescindere dalla sussistenza di un contrasto giurisprudenziale (Corte Cost. 374/2002; Corte Cost. 525/2000). Sulla legge di interpretazione autentica in ambito tributario, Mastroiacovo, La legge di interpretazione autentica: la particolare prospettiva dello Statuto dei diritti del contribuente rispetto alle posizioni della dottrina e della giurisprudenza, in AA.VV., Statuto dei diritti del contribuente, Milano, 2005, 29 ss.
([41]) v. Corte Cost. 400/2007; 234/2007; 374/2002; 397/1994; 155/90; 233/88; 413/88; 178/87.
([42]) v. in particolare, Corte Cost. 397/1994.
([43]) v. Corte Cost. 374/2002; Corte Cost. 525/2000. Con specifico riferimento alle disposizioni tributarie sostanziali, limiti alla retroattività desumibili dagli artt. 3 e 53 Cost. sono stati individuati sotto il profilo della perdurante attualità della capacità contributiva e della prevedibilità della modificazione della norma impositrice. Del resto, il divieto di retroattività della legge tributaria contenuto nello Statuto dei diritti del contribuente ha, come tutte le c.d. norme sulla normazione ivi contenute, efficacia meramente interpretativa.
([44]) Cass. 2007/2018; Cass. 4407/2018; Cass. 7637/2018; Cass. 8619/2018; in senso adesivo, Stalla, sub L’imposta di registro, cit., 283 ss.; Tabet, Il collegamento negoziale tra riqualificazione e abuso, in Rass. trib., 2018, 227.
([45]) Per una attenta disamina della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo sulle norme di interpretazione autentica o comunque retroattive e del dialogo, sul punto, tra Corti nazionali e Corti sovrannazionali, si veda Varrone, Norme interpretative o retroattive, in AA.VV., Corte di Cassazione e Corti Europee, a cura dell’Ufficio del Ruolo e del Massimario della Corte Suprema di Cassazione, Roma, 2014, 35 ss., da cui emerge che la Corte EDU ha assunto sul punto un atteggiamento molto rigoroso, ritenendo che le leggi retroattive, di norma, contrastano con l’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, salvi casi eccezionali in cui si ravvisino “imperative ragioni di interesse generale” o “impellenti ragioni di interesse pubblico”.
L’Autore evidenzia, quanto all’identificazione delle “imperative ragioni di interesse generale” o delle “impellenti ragioni di interesse pubblico”, che la Corte EDU, con orientamento ripreso dalla Corte Costituzionale, ne ha demandato, quantomeno in parte, la competenza ai singoli Stati, trattandosi di interessi che sono alla base del potere legislativo; peraltro, mentre per la Corte EDU tali ragioni non possono in ogni caso risiedere nell’interesse finanziario dello Stato, il punto di vista del nostro giudice delle leggi è più articolato, in quanto la tutela dell’interesse finanziario è funzionale alla tutela dei diritti fondamentali.
([46]) Si veda l’ampia analisi, con riferimento ai più significativi recenti casi, svolta da Varrone, Norme interpretative o retroattive, cit., 38 ss.
([47]) Si veda, tra le tante, la sentenza 7 giugno 2011, Agrati e altri c. Italia, in cui la Corte EDU ha ritenuto che “se, in linea di principio, nulla vieta al potere legislativo di regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni dalla portata retroattiva, diritti risultanti da leggi in vigore, il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti dall’articolo 6 ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia (sentenze Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis succitata, § 49, serie A n. 301-B; Zielinski e Pradal & Gonzalez ed altri succitata, § 57).”; si vedano, altresì, le sentenze 31 maggio 2011, Maggio c. Italia e 14 febbraio 2012, Arras c. Italia, ove il riferimento è a “impellenti ragioni di interesse pubblico”.
([48]) v. Corte Cost. 264/2012.
([49]) Varrone, Norme interpretative o retroattive, cit., 36 nonché 46.
([50]) Corte Cost. 264/2012; v. anche Corte Cost. 150/2015; Corte Cost. 156/2014; Corte Cost. 69/2014.
([51]) Come sembrerebbe emergere, ex multis, da Corte Cost. 257/2011: “con riferimento ad altre leggi d’interpretazione autentica, questa Corte ha già affermato che non è decisivo verificare se la norma censurata abbia carattere effettivamente interpretativo (e sia perciò retroattiva), ovvero sia innovativa con efficacia retroattiva. Infatti, il divieto di retroattività della legge, pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica, non è stato elevato a dignità costituzionale, salva, per la materia penale, la previsione dell’art. 25 Cost. Pertanto, il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare sia disposizioni di interpretazione autentica, che determinano la portata precettiva della norma interpretata, fissandola in un contenuto plausibilmente già espresso dalla stessa, sia norme innovative con efficacia retroattiva, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti. Sotto l’aspetto del controllo di ragionevolezza, dunque, rilevano la funzione di “interpretazione autentica”, che una disposizione sia in ipotesi chiamata a svolgere, ovvero l’idoneità di una disposizione innovativa a disciplinare con efficacia retroattiva anche situazioni pregresse in deroga al principio per cui la legge dispone soltanto per l’avvenire. In particolare, la norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica non può dirsi irragionevole qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (ex plurimis: sentenze n. 162 e n. 74 del 2008)... Non è sostenibile, dunque, che la disposizione de qua abbia inteso realizzare una illecita ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia, allo scopo d’influenzare la risoluzione di controversie. Essa, in realtà, ha fatto propria una soluzione già individuata dalla più recente giurisprudenza di legittimità, nell’esercizio di un potere discrezionale in via di principio spettante al legislatore e nel quale non è dato ravvisare profili di irragionevolezza. La finalità di superare un conclamato contrasto di giurisprudenza, essendo diretta a perseguire un obiettivo d’indubbio interesse generale qual è la certezza del diritto, è configurabile come ragione idonea a giustificare l’intervento interpretativo del legislatore.
Pertanto, il denunciato contrasto tra la norma censurata e l’art. 6 CEDU, con violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., deve essere escluso”. Si vedano, altresì, sotto il profilo per cui non è irragionevole il ricorso alla legge di interpretazione autentica per assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario, Corte Cost. 150/2015; Corte Cost. 274/2006; Corte Cost. 374/2002.
Del resto, come rileva la Corte Costituzionale, la stessa Corte EDU ha ritenuto in alcune fattispecie non in contrasto con l’art. 6 della Convenzione l’impiego di una disposizione interpretativa retroattiva per ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore: “nel definire e verificare la sussistenza o meno dei motivi imperativi d’interesse generale, la Corte di Strasburgo ha ritenuto legittimo l’intervento del legislatore che, per porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata, aveva inteso con la legge retroattiva ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore.
Si tratta, in primo luogo, della sentenza 23 ottobre 1997, nel caso National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito (utilizzata mutatis mutandis anche nella citata pronuncia Forrer-Niederthal c. Germania), nella quale è stato ritenuto che l’adozione di una disposizione interpretativa può essere considerata giustificata allorché lo Stato, nella logica di interesse generale di garantire il pagamento delle imposte, abbia inteso porre rimedio al rischio che l’intenzione originaria del legislatore fosse, in quel caso, sovvertita da disposizioni fissate in circolari.
Nello stesso solco si pone la sentenza del 27 maggio 2004, Ogis-institut Stanislas, Ogec St. Pie X e Blanche De Castille e altri c. Francia, in cui le circostanze del caso di specie non erano identiche a quelle del caso Zielinski del 1999. La pronuncia ha affermato che l’intervento del legislatore non aveva inteso sostenere la posizione assunta dall’amministrazione dinanzi ai giudici, ma porre rimedio ad un errore tecnico di diritto, al fine di garantire la conformità all’intenzione originaria del legislatore, nel rispetto di un principio di perequazione.
Il caso viene, quindi, assimilato a quello National & Provincial Building Society del 1997, dove l’intervento del legislatore era giustificato dall’obiettivo finale di «riaffermare l’intento originale del Parlamento». La Corte ha ritenuto che la finalità dell’intervento legislativo fosse quindi quella di garantire la conformità all’intenzione originaria del legislatore a sostegno di un principio di perequazione, aggiungendo che gli attori non avrebbero potuto validamente invocare un “diritto” tecnicamente errato o carente, e dolersi quindi dell’intervento del legislatore teso a chiarire i requisiti ed i limiti che la legge interpretata contemplava.” v. Corte Cost. 309/2011.
([52]) Nella relazione illustrativa alla legge di bilancio 2018 si legge: “La modifica è volta a dirimere alcuni dubbi interpretativi sorti in merito alla portata applicativa dell’articolo 20 del DPR 26 aprile 1986, n. 131 (TUR), rubricato ‘interpretazione degli atti’.
Tali incertezze interpretative sono rese evidenti anche dall’esame delle pronunce della giurisprudenza di legittimità che, in alcune sentenze, ha riconosciuto una valenza antielusiva all’articolo 20 del TUR, mentre in altri arresti, soprattutto in quelli più recenti, ha ritenuto di dover procedere alla riqualificazione delle operazioni poste in essere dai contribuenti, attraverso il perfezionamento di un atto o di una serie di atti, facendo ricorso ai principi sanciti dall’articolo 20 del TUR; secondo tale tesi interpretativa, la riqualificazione può essere operata, dunque, senza dover valutare il carattere elusivo dell’operazione posta in essere dai contribuenti.
La norma introdotta è volta, dunque, a definire la portata della previsione di cui all’articolo 20 del TUR, al fine di stabilire che detta disposizione deve essere applicata per individuare la tassazione da riservare al singolo atto presentato per la registrazione, prescindendo da elementi interpretativi esterni all'atto stesso (ad esempio, i comportamenti assunti dalle parti), totalitaria di quote).
E’ evidente che ove si configuri un vantaggio fiscale che non può essere rilevato mediante l’attività interpretativa di cui all’articolo 20 del TUR, tale vantaggio potrà essere valutato sulla base della sussistenza dei presupposti costitutivi dell’abuso del diritto di cui all’articolo 10-bis della Legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente). In tale sede andrà quindi valutata, anche in materia di imposta di registro, la complessiva operazione posta in essere dal contribuente, considerando, dunque, anche gli elementi estranei al singolo atto prodotto per la registrazione, quali i fatti, gli atti e i contratti ad esso collegati. Con le modalità previste dall’articolo 10-bis della Legge 27 luglio 2000, n. 212, potrà essere, quindi, ad esempio, contestato l’abusivo ricorso ad una pluralità di contratti di trasferimento di singoli assets al fine di realizzare una cessione d’azienda.”.
([53]) v. in particolare, Corte Cost. 397/1994.
([54]) La Corte Costituzionale ha, invero, più volte affermato l’ammissibilità, in base agli artt. 3 e 53 Cost., del sindacato sull’uso ragionevole o meno che il legislatore abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, in particolare al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, v. Corte Cost. 142/2014; Corte Cost. 10/2015; Corte Cost. 223/2012; Corte Cost. 111/97.