SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo: inedite condizioni di ammissibilità per i ricorsi ex lege Pinto e dense nubi dal fronte di Strasburgo. - 3. Novità in tema di indennizzo: riduzioni, esclusioni e presunzioni. - 4. La modifica della competenza territoriale. - 5. Le nuove modalità di pagamento. - 6. La più ragionevole durata dei procedimenti ex lege n. 89 del 2001 dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 19 febbraio 2016, n. 36.
1. Premessa.
Recentemente il legislatore è nuovamente intervenuto sulla legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto), inserendo nella legge di Stabilità 2016 (legge n. 208 del 28 dicembre 2015) rilevanti novità, tutte esplicitamente ed univocamente ispirate alla finalità di “razionalizzare i costi conseguenti alla violazione del termine di ragionevole durata dei processi” (così l’incipit dell’art. 1, comma 777, della citata legge n. 208).
Solo il tempo potrà consentire, all’esito delle periodiche relazioni statistiche concernenti il numero di processi instaurati ex lege Pinto ed il relativo peso sulle casse statali, di verificare se tali modifiche risulteranno adeguate allo scopo perseguito, anche se può sin d’ora prevedersi che, almeno nei primi tempi di vigenza della nuova disciplina, si registrerà una effettiva contrazione del debito pubblico, quale verosimile conseguenza delle più severe condizioni di ammissibilità dell’azione e dei ridimensionati criteri di liquidazione degli indennizzi.
E’ già un buon risultato, soprattutto in tempi di crisi, ma non ancora appagante: la legge di Stabilità 2016, infatti, non interviene sulla causa ma solo sugli effetti dell’irragionevole durata dei processi, anzi solo su uno tra i suoi molteplici effetti (la spesa pubblica).
Insomma, una “cura” mirata a lenire uno dei sintomi della patologia ma inadeguata alla guarigione e, per di più, potenzialmente foriera di effetti collaterali indesiderati,
profilandosi all’orizzonte sospetti di incostituzionalità ed ennesimi interventi della Corte di Strasburgo: i primi in relazione all’eccessiva compressione dei diritti di difesa, oggi fortemente limitatati da quei “rimedi preventivi” introdotti ex novo nella legge n. 89 del 2001 (art. 1 ter), il previo esperimento dei quali costituisce ora condizione di ammissibilità dell’azione di equa riparazione (art. 2, comma 1); i secondi, a loro volta, in ragione della dubbia effettività e sufficienza del rimedio interno, con possibilità di nuove condanne dell’Italia ai sensi dell’art. 41 della CEDU.
Se tale scenario dovesse realizzarsi, i costi dell’irragionevole durata dei processi tornerebbero inevitabilmente a salire e gli effetti della loro “razionalizzazione” ex lege n. 208 del 2015 risulterebbero vanificati.
Nonostante le zone d’ombra, la nuova disciplina ha tuttavia il pregio di proporre dei “rimedi preventivi” i quali, se allo stato attuale sembrano tali più per la definizione che li individua che per la loro effettiva capacità di prevenire il dilatarsi dei tempi processuali, sono però sintomatici della avvertita necessità di “prevenire piuttosto che curare” le disfunzioni del nostro sistema giudiziario.
Inoltre, la legge di Stabilità 2016 opportunamente prosegue quel processo di “responsabilizzazione” delle parti processuali (e non più solo del giudice e dei suoi ausiliari), già iniziato con le modifiche apportate alla legge Pinto nel 2012[1], introducendo, a pena di inammissibilità della domanda di equa riparazione, l’onere a carico delle parti stesse di utilizzare gli strumenti predisposti dal codice di rito o dalle prassi giudiziarie più idonei a velocizzare il giudizio, nonché penalizzando, in misura più ampia rispetto al regime previgente, ogni abuso del processo.
Sembra allora di intravedere un “percorso”, pur lento e faticoso, lungo il quale appaiono già presenti i valori ed i principi necessari per raggiungere la meta di una giustizia ordinatamente e tempestivamente amministrata, ossia di un servizio giustizia “ragionevole”.
Certo, le criticità sottese alla legge Pinto sono ancora tante, se non altro perché l’equa riparazione dovrebbe essere una extrema ratio alla quale ricorrere nei rari casi in cui lo Stato non riesca a rendere un servizio giudiziario tempestivo, e non si vogliono sottacere le numerose perplessità che l’ultimo intervento legislativo innegabilmente suscita sul piano tecnico e pratico, ma si intende valorizzare l’aspetto culturale ad esso sotteso, perché ogni rivoluzione nasce da un fermento di nuove idee in progressiva espansione.
L’analisi dei riflessi processuali e sostanziali conseguenti alle recenti modifiche, quindi, merita di essere condotta ripercorrendo le tappe fondamentali che hanno spinto il legislatore, nel 2001, a varare la legge Pinto, poiché sia la genesi che la faticosa e tortuosa evoluzione di tale normativa implica valori, principi e problemi di ampio respiro, a volte ancora soffocati, ma ricchi di semi dai quali possono germogliare nuove e sempre più concrete modifiche che, poggiando su una rinnovata e diffusa cultura del “giusto processo”, realizzino un servizio giustizia davvero efficiente e tempestivo.
In tale prospettiva, merita di essere ricordato che il primo esplicito riconoscimento del diritto alla ragionevole durata del processo risale al lontano 1950, anno in cui tale diritto è stato sancito dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali[2], adottata dal Consiglio d’Europa e recepita dall’Italia con l. 4 agosto 1955 n. 848[3].
L’effettiva tutela veniva (e lo è tutt’oggi) garantita dagli artt. 34 e 35[4] della stessa Convenzione, a mente dei quali ogni persona fisica, organizzazione non governativa o gruppo di privati, previo esaurimento delle vie di ricorso interne (se esistenti ed adeguate) e ove non ricorrano determinate condizioni previste a pena di “irricevibilità”, può investire la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo al fine di ottenere la condanna dello Stato contraente per i danni derivati dalla violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione: si tratta di uno strumento caratterizzato dalla sussidiarietà della giurisdizione della Corte EDU rispetto ai rimedi nazionali, destinato dunque a divenire esperibile solo in caso di mancata ottemperanza, da parte del singolo Stato aderente, all’obbligo assunto con la sottoscrizione della Convenzione di rispettare e tutelare quei diritti, in particolare predisponendo una legislazione domestica idonea a tale scopo[5].
All’epoca della ratificata della Convenzione da parte dell’Italia, nel nostro ordinamento non esisteva alcun rimedio interno idoneo ad assicurare il rispetto del diritto sancito dall’art. 6 della Convenzione, e tale situazione si è protratta per ben quarantasei anni (sino al 2001, anno di emanazione della legge Pinto), nel corso dei quali numerosissimi sono stati i ricorsi contro l’Italia proposti alla Corte EDU per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ed altrettanto numerose sono state le condanne del nostro paese da parte della Corte, con conseguenti aggravi della spesa pubblica per diversi milioni di euro.
A seguito della modifica dell’art. 111 Cost., introdotta dalla legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999 in tema di “Giusto Processo”[6], il principio della durata ragionevole del processo è stato costituzionalizzato[7], ma si è trattato pur sempre di una norma programmatica, come tale inidonea a dar vita ad un diritto immediatamente tutelabile dinanzi al giudice nazionale, in quanto ha affidato al legislatore il compito di disciplinare il processo in modo da assicurarne la ragionevole durata.
Intanto, i ricorsi contro l’Italia per violazione dell’art. 6 della CEDU continuavano ad “intasare”[8] la Corte di Strasburgo, la quale ha ripetutamente stigmatizzato l’incapacità del nostro paese di garantire la ragionevole durata dei processi e di predisporre adeguati rimedi interni, inadempienze che giustificavano il timore di una espulsione dell’Italia dal Consiglio d’Europa[9].
In tale contesto nasceva la c.d. legge “Pinto” del 24 marzo 2001, n. 89, che ha introdotto nel nostro ordinamento interno un rimedio giurisdizionale contro l’eccessiva durata dei processi, assicurando il diritto ad una equa riparazione dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti dalle parti processuali a causa dell’“irragionevole” protrarsi del giudizio che le ha viste coinvolte.
E’ così che il Legislatore italiano ha, finalmente, dato attuazione all’obbligo convenzionale di predisporre strumenti di adeguata tutela domestica, restituendo all’intervento della Corte Europea il ruolo suo proprio di sussidiarietà (e non più di supplenza) rispetto all’intervento interno, con un conseguente effetto deflattivo dei ricorsi pendenti a Strasburgo.
L’adempimento agli obblighi nascenti dalla Convenzione è risultato però solo parziale, come parziale (se non addirittura insussistente) è stato l’adempimento del mandato conferito al Legislatore dall’art. 111 della Cost..
Infatti, la legge Pinto non ha introdotto strumenti per ridurre l’eccessiva durata dei processi[10], nè è intervenuta sull’organizzazione degli Uffici Giudiziari per migliorarne l’efficienza, ma si è limitata a prevedere specifici rimedi indennitari in caso di violazione del diritto alla ragionevole durata del processo. Tali rimedi, tuttavia, dovrebbero costituire solo una garanzia eventuale e sussidiaria, destinata ad operare nel caso, patologico e non fisiologico, il cui lo Stato non sia riuscito ad attuare un “giusto processo”.
A ben vedere, infatti, l’obbligo fondamentale e primario degli Stati aderenti alla Convenzione EDU, chiaramente espresso all’art. 1, è quello di garantire il diritto alla ragionevole durata dei processi, ossia di adottare misure concrete atte a far si che il danno non si verifichi.
La stessa Corte Europea dei diritti dell'uomo[11] ha sottolineato che “il miglior rimedio in assoluto è la prevenzione” e non il risarcimento dei danni, il quale può indurre a provocare deliberatamente ulteriori ritardi per conseguire non più una vittoria (ipotetica) nel processo, ma un titolo (certo) per richiedere il risarcimento per il ritardo[12].
Gli effetti di una tale soluzione non hanno tardato a palesarsi: 1) sul piano dei rapporti internazionali, la Corte europea[13] sottolineava che il rimedio c.d. Pinto non aveva affatto rimosso il problema di fondo della lentezza dei processi ed anzi rischiava di intasare ulteriormente gli uffici giudiziari (e specificamente le Corti d’appello), mentre l’interim resolution n. 114 del 2005, adottata dal Comitato dei Ministri in relazione a 2.183 casi di denuncia dell’Italia per l’eccessiva durata dei processi, a sua volta evidenziava il fatto che la legge Pinto non solo non introduceva alcuna misura acceleratoria dei procedimenti, ma non costitutiva neppure uno strumento sufficientemente idoneo a garantire un effettivo ed efficace ristoro alle “vittime” delle violazioni, tanto che chi aveva esperito vittoriosamente il rimedio interno ex lege Pinto, veniva ammesso a richiedere ulteriori somme davanti ai giudici di Strasburgo (ex art 41 CEDU: v. sub nota 4); 2) sul piano interno, le Corti d’appello non sono state in grado di far fronte alla notevole mole di nuovi ricorsi né di rispettare il termine (quattro mesi) previsto dalla legge per il procedimento (camerale, nella prima formulazione della l. 2001 n. 89), con la conseguenza che si è assistito al fenomeno della c.d.“Pinto sulla Pinto”, cioè alla richiesta di risarcimenti per il ritardo nella definizione non solo della prima causa, ma anche della causa sul ritardo.
Inoltre, i costi sostenuti dallo Stato sono cresciuti in modo esponenziale, tanto che lo stesso Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ebbe a definirli “assurdi” e “intollerabili”[14]. In merito, si è registrato un costante aumento, considerato che il costo per le casse dello Stato aveva raggiunto i 118 milioni di euro al 2008 e che nel 2014 il debito complessivo ancora esistente presso le Corti d'appello superava i 456 milioni (di cui 72,5 milioni relativi al 2014, al netto degli interessi). Le Corti d'appello con maggior debito risultavano essere Roma (79 milioni), Lecce (43 milioni), Napoli (42 milioni) e Catanzaro (40 milioni)[15].
L’insostenibilità di tale situazione ed il continuo confronto aperto con le istituzioni europee al “tavolo di Strasburgo”, hanno determinato nel 2012[16] un nuovo intervento del legislatore che ha inciso in modo significativo sulla originaria disciplina della l. n. 89 del 2001, modificandone sia le norme sostanziali che quelle processuali, all’evidente fine di snellire il procedimento per evitare che lo stesso giudizio sull’equa riparazione potesse a sua volta fondare ulteriori richieste di equo indennizzo (cd. Pinto su Pinto) e, correlativamente, di ottenere un risparmio della spesa pubblica.
Tra le novità più rilevanti apportate in quell’occasione ricordiamo: l’introduzione dei limiti temporali entro i quali la durata del processo può considerarsi ragionevole[17] (tre anni in primo grado, due anni in secondo grado ed un anno per il giudizio di legittimità; tre anni per il procedimento di esecuzione forzata e sei anni per le procedura concorsuali), la fissazione di una misura predeterminata di quantificazione dell’indennizzo[18] (individuata in una somma compresa tra i 500 ed i 1.500 euro per ciascun anno o frazione di anno di ritardo), la previsione di casi in cui è escluso l’indennizzo e la completa riscritturazione del procedimento (che si articola ora in due fasi, la prima a cognizione sommaria in assenza di contraddittorio e, la seconda, eventuale, di opposizione).
Le modifiche del 2012, pur molto incisive, non hanno tuttavia sortito un effetto soddisfacente: i tempi del processo sono rimasti “irragionevoli” ed i costi pubblici sono ulteriormente lievitati.
Così il legislatore è nuovamente intervenuto sulla legge Pinto con la già ricordata legge di Stabilità 2016, la quale, riassumendo le principali novità, ha introdotto ex novo una condizione di ammissibilità della domanda di riparazione del danno, costituita dal necessario previo esperimento di rimedi preventivi alla violazione del termine di ragionevole durata (v. artt. 1-bis, 1-ter e 2, comma 1, legge Pinto riformata), ha ridotto l’entità dell’indennizzo (art. 2 bis, legge Pinto riformata), ha riscritto in modo più puntuale le già previste ipotesi di esclusione dell’indennizzo (v. art. 2, comma 2-quinquies legge Pinto riformata), ha introdotto nuove ipotesi di presunzione (sino a prova contraria) di insussistenza del danno (v. art. 2, comma 2-sexies e septies, legge Pinto riformata) ed ha modificato i criteri di individuazione della competenza territoriale (art. 3, comma 1, legge Pinto riformata); infine, ha disciplinato le modalità di pagamento delle somme liquidate a titolo di equo indennizzo del danno prodotto dalla eccessiva durata dei processi (art. 5-sexies legge Pinto riformata).
A ben vedere la citata legge di Stabilità 2016 non sembra avere la forza, e neppure l’ambizione , di costituire uno strumento in grado di incidere sui tempi processuali, e quindi di impedire il verificarsi della violazione del diritto (di portata costituzionale ed europea) alla ragionevole durata del processo, ma proprio il suo prevedibile fallimento potrebbe costituire la spinta propulsiva verso nuovi interventi legislativi, i quali questa volta dovrebbero essere necessariamente di ben più ampio respiro, razionalmente indirizzando la spesa pubblica su interventi strutturali (eliminazione delle carenze di organico, potenziamento del sistema informatico, revisione delle modalità di accesso alla professione forense, ecc.) e processuali (snellimento delle procedure, introduzione di strumenti deflattivi delle sopravvenienze, rimeditazione del sistema delle impugnazioni, ecc.) davvero efficaci.
Qualunque novità legislativa, però, potrà portare i suoi frutti solo ove affondi le radici in una nuova “cultura del processo”, la quale richiede da parte di tutti i soggetti coinvolti (legislatore, magistratura, avvocatura e cittadini) la consapevolezza dei valori in gioco, l’approfondimento scientifico e critico del concetto di “giusto processo” siccome percepito e disciplinato nel passato e nel presente, nonchè la comune e sinergica volontà di sperimentare la via del processo ragionevole, che tale non sia solo per la durata ma anche per la qualità delle decisioni e per le ricadute socio-ecnomiche.
In tale prospettiva, l’analisi delle ultime novità normative in tema di equa riparazione per i processi irragionevolmente lunghi assume contorni affascinanti perché, oltre a costituire un doveroso studio dell’attuale regime in materia, impone una riflessione sulla adeguatezza e sufficienza di tale regime e sui nuovi orizzonti ancora da conquistare.
2. Rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo: inedite condizioni di ammissibilità per i ricorsi ex lege Pinto e dense nubi dal fronte di Strasburgo.
Particolare attenzione meritano le innovazioni contenute negli artt. 1-bis e 1-ter, rispettivamente rubricati “rimedi all’irragionevole durata del processo” e “rimedi preventivi”, entrambi aggiunti ex novo alla legge Pinto dalla legge di Stabilità 2016.
Si tratta, come suggerisce la loro definizione normativa, di “strumenti” processuali che la parte può utilizzare per prevenire il protrarsi irragionevole del processo, ma che, nello stesso tempo, la medesima parte deve utilizzare se intende successivamente chiedere l’equo indennizzo ove i tempi del processo si siano dilatati eccessivamente nonostante il previo esperimento di detti rimedi.
L’attuale disciplina, infatti, da un lato configura come un diritto l’esperimento di rimedi preventivi alla violazione della ragionevole durata del processo (nuovo art. 1-bis, comma 1), ma nel contempo prevede che il loro effettivo utilizzo nel corso del giudizio “presupposto” si atteggi sostanzialmente quale onere, in quanto condizionerà l’ammissibilità della successiva domanda di indennizzo (nuovo art. 2, comma 1) riferita ai processi che, alla data del 31 ottobre 2016, non avranno ancora raggiunto una durata irragionevole, né saranno stati assunti in decisione (art. 6 comma 2-bis).
I rimedi preventivi rilevanti ai fini della legge Pinto, e quindi costituenti oggi condizione di ammissibilità della domanda fondata su tale legge, sono specificamente individuati dal nuovo art. 1-ter, e devono ritenersi tassativi, in considerazione della loro analitica indicazione, così suddivisa:
a) per il processo civile, costituisce rimedio preventivo la proposizione del giudizio con rito sommario di cognizione ex artt. 702-bis e ss. c.p.c. o la richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario ai sensi dell’art. 183-bis c.p.c. nonchè, nei casi in cui non si applica il rito sommario, nei quali rientrano anche le cause in grado di appello, la richiesta di trattazione orale ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c., ora resa possibile anche se vi è competenza collegiale del Tribunale (nuovo art. 1-ter, comma 1);
b) per il processo penale costituisce rimedio preventivo un’apposita istanza di accelerazione che l’imputato e le altre parti del processo penale hanno diritto di depositare, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all’art. 2, comma 2-bis (nuovo art. 1-ter comma 2);
c) per il processo amministrativo costituisce rimedio preventivo l’istanza di prelievo con la quale la parte segnala l’urgenza del ricorso, prevista dall’art. 71, comma 2, c.p.a., da presentare almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all’art. 2, comma 2-bis; in proposito, merita di essere sottolineato che, con riferimento al giudizio amministrativo, l’istanza di prelievo già costituiva condizione di proponibilità della domanda di equa riparazione ai sensi dell’art. 54, comma 2, della legge 6 agosto 2008 n. 133, come modificato dall’art. 3 comma 23 dell’allegato 4 al c.p.a., applicabile ai giudizi pendenti alla data del 16 settembre 2010, sicchè per tale giudizio l’unica novità introdotta dalla legge di Stabilità del 2016 riguarda il dato temporale entro il quale tale istanza deve essere proposta, e sarà applicabile ai giudizi la cui durata sarà divenuta irragionevole alla data del 31 ottobre 2016 (nuovo art. 6, comma 2-ter, della legge Pinto).
d) per il processo contabile, pensionistico e di cassazione costituisce rimedio preventivo un’istanza di accelerazione presentata, rispettivamente, almeno 6 e 2 mesi prima della scadenza del termine di ragionevole durata (nuovo art. 1-ter commi 4, 5 e 6).
In realtà tali “rimedi” non introducono alcuna significativa novità con riferimento al processo “presupposto” ed alla sua durata, considerato che essi erano già contemplati sia nel codice di rito civile (artt. 702-bis e ss. c.p.c., 183-bis c.p.c. e 281- sexies c.p.c.) che in quello amministrativo (art. 71, comma 2, c.p.a.), mentre, nel processo penale, l’istanza di accelerazione era già disciplinata dal previgente art. 2, comma 2-quinquies lett. e) della legge Pinto[19]; quanto all’istanza di accelerazione ora prevista anche per il processo contabile, pensionistico e di cassazione (nei quali essa costituiva già una prassi spesso utilizzata dai difensori per sollecitare la definizione dei giudizi), la stessa (come del resto quella riferita al giudizio penale) non costituisce uno strumento processuale in senso tecnico, ma un semplice memento rivolto al giudice in relazione al protrarsi dei tempi processuali.
L’unica vera innovazione riguarda il rito civile, ed in particolare va individuata nell’introduzione della possibilità di decidere anche le cause soggette a riserva di collegialità con la forma della discussione orale ex art. 281-sexies c.p.c.[20], modalità decisoria prima pacificamente riservata ai soli procedimenti davanti al tribunale in composizione monocratica, come si evinceva dalla collocazione della norma nel capo terzo bis, della sezione quarta, del secondo libro del codice di rito[21], dedicato appunto in via esclusiva a tali procedimenti.
E’ comunque opportuno segnalare che, sebbene il tenore dell’art. 1-ter, comma 1, appaia inequivocabile quanto all’introduzione di una modifica nel codice di procedura civile nel senso di estendere l’applicabilità dell’art. 281-sexies anche alle cause di competenza del tribunale in composizione collegiale, qualche perplessità in proposito può sorgere leggendo il testo del disegno di legge concernente la “Delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile”, approvato dalla Camera dei deputati il 10 marzo 2016 ed ora all’esame del Senato (n. 2284): all’art. 1, comma 2, lett. a), n. 7, di tale testo si legge infatti che il Governo è delegato ad adottare, “entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi recanti il riassetto formale e sostanziale del codice di procedura civile e della correlata legislazione speciale, mediante novelle al codice di procedura civile e alle leggi processuali speciali, in funzione degli obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile, nel rispetto della garanzia del contraddittorio e dei seguenti principi e criteri direttivi: …. 7) estendere la possibilità , anche per le cause di competenza del collegio, delle decisioni di cui all'articolo 281-sexies del codice di procedura civile, prevedendo altresì una diversa collocazione sistematica degli articoli 281-quinquies e 281-sexies nel codice di procedura civile, preferibilmente dopo gli articoli 190 e 190-bis del codice medesimo”.
Delle due l’una: o si tratta di una mera svista della Camera dei deputati, alla quale è evidentemente sfuggito che, appena due mesi e dieci giorni prima era entrata in vigore una legge che già conteneva la modifica auspicata dal disegno di legge che stava approvando (in relazione alla quale rimane però opportuna la diversa collocazione sistematica delle relative norme, non affrontata nella legge di Stabilità 2016), oppure quella che sembra a tutti gli effetti una innovazione apportata dalla legge di Stabilità tale non è, rimanendo la relativa disposizione, almeno allo stato della legislazione, una scatola vuota. Pur dovendosi propendere per la prima soluzione[22] non può negarsi che qualche dubbio interpretativo sia legittimo.
In disparte la infelice tecnica legislativa con la quale è stata introdotta (rectius: sembra essere stata introdotta) la nuova disposizione processuale di cui si discorre, (inopinatamente inserita in una legge di Stabilità e, per di più, confusa nell’ambito di una più ampia disposizione destinata ad altro scopo), va osservato che la “novità” non sembra comunque apprezzabile sotto il profilo del ridimensionamento dei tempi processuali, considerato che le cause con riserva di collegialità ex art. 50 bis c.p.c. si caratterizzano per la loro complessità e delicatezza e, pertanto, mal si conciliano con l’immediatezza e concisione proprie della decisione ex art. 281- sexies c.p.c.: è facile prevedere che non saranno pertanto numericamente significativi i casi in cui il giudice istruttore riterrà che la causa possa essere effettivamente decisa con tale modalità.
Sotto altro profilo va notato che, a norma dell’art. 281 sexies c.p.c., la scelta della decisione a seguito di trattazione orale è rimessa esclusivamente al giudice (potendo eventualmente la parte solo chiedere un differimento dell’udienza), ma oggi, a norma del nuovo art. 1-ter, comma 1 della legge Pinto, è altresì attribuito alla parte il potere di proporre istanza di decisione ex art. 281-sexies c.p.c., e ciò sia che si tratti di causa attribuita al tribunale in composizione monocratica, sia che si versi in una ipotesi di riserva di collegialità: un potere che, essendo qualificato siccome “rimedio preventivo”, è anche un diritto, oltre che un onere ai fini del successivo giudizio di equa riparazione.
Emerge così uno strano intreccio di facoltà processuali della parte alle quali corrisponde, se ben si comprende la norma, il potere del giudice di non accogliere l’istanza ogni qualvolta ritenga che la controversia non si presti ad essere decisa con tale modalità: ciò si desume, per quanto riguarda i giudizi in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, dalla discrezionalità attribuita al giudice dall’art. 281-sexies c.p.c. (che non sembra essere stato modificato sul punto dalla legge di Stabilità 2016) e specularmente, per quanto attiene ai giudizi con riserva di collegialità, dall’esplicita facoltà di valutazione all’uopo rimessa, dallo stesso art. 1-ter, comma 1, ult. parte, della legge Pinto, al giudice istruttore.
Con riferimento a quest’ultima ipotesi, è singolare, peraltro, che il dettato della nuova disposizione affidi tale facoltà al giudice istruttore e non al collegio, in quanto quest’ultimo sembrerebbe vincolato dalla delibazione del primo sull’opportunità o meno di decidere la causa a seguito di trattazione orale ex art. 281-sexies c.p.c.. Deve tuttavia ritenersi che, nonostante il tenore della norma, non sia precluso al collegio il riesame dell’istanza di remissione della causa al collegio per la decisione a seguito di trattazione orale, atteso che l’ordinanza dell’istruttore che abbia accolto tale richiesta può essere oggetto di nuova delibazione da parte del collegio ai sensi dell’art. 178, comma 1, c.p.c.: seguendo quest’ultima interpretazione, però, il rimedio preventivo dell’art. 281-sexies c.p.c., applicato alle cause soggette a riserva di collegialità, potrebbe costituire un boomerang, essendo potenzialmente foriero di dispendio di tempi processuali ogni qualvolta il collegio ritenga di non condividere la valutazione del giudice istruttore; in tal caso, infatti, nella migliore delle ipotesi, il collegio stesso inviterà le parti a precisare le conclusioni dinanzi a sè ed assegnerà i termini di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, attività che ben poteva essere fatta dinanzi al giudice istruttore senza impegnare l’intero collegio in un’apposita udienza.
Ancora una peculiarità caratterizza il 281-sexies c.p.c. nella versione applicabile alle cause collegiali secondo la nuova disposizione contenuta nell’art. 1-ter, comma 1, della legge Pinto: la fissazione dell’udienza collegiale per la decisione è rimessa al giudice istruttore, e non al Presidente, come invece normalmente avviene per tutte le udienze collegiali e, in particolare, per la diversa ipotesi in cui una delle parti richieda che la causa sia discussa oralmente ai sensi dell’art. 275, comma 2, c.p.c. o, nel giudizio d’appello, dell’art. 352 c.p.c.[23]. Si realizza così una sovrapposizione di attribuzioni nella gestione del ruolo di udienza, con intuibili ripercussioni sulla organizzazione e sull’efficienza.
Al di là delle rispettive specificità, tutti i “rimedi preventivi”, e quindi sia quelli mutuati dalle norme processuali già esistenti che quelli disegnati ex novo, hanno due caratteristiche comuni, peraltro entrambe foriere di questioni di incostituzionalità e di possibili contrasti con le norme comunitarie: 1) non sono idonei ad assicurare una riduzione certa dei tempi del processo presupposto; 2) il loro esperimento nel giudizio presupposto costituisce tout court condizione di ammissibilità della successiva domanda di equa riparazione ex lege Pinto.
La prima caratteristica è insita nella circostanza che l’effettiva applicazione di tutti gli strumenti catalogati dal legislatore nell’art. 1-ter, comma 1 della nuova versione della legge n. 89 del 2001 e la loro incidenza sui tempi processuali dipendono, in ultima analisi, dalla valutazione discrezionale del giudice (così per l’utilizzo del rito sommario, per la trattazione orale ex art. 281-sexies c.p.c., nonché, a fortiori, per le istanze di prelievo e di accelerazione).
Ciò si evince non solo dalla disciplina processuale che regola tali strumenti, ma, ancor più chiaramente, dallo stesso articolo 1-ter che ha introdotto nel nostro ordinamento i “rimedi preventivi”, considerato che tale articolo si chiude con un comma (il settimo) a mente del quale “restano ferme le disposizioni che determinano l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti”.
In altri termini, nessuno dei rimedi di cui si discorre, pur se esperito, ha effetti obbligatori per il giudice né offre un sufficiente grado di certezza circa la contrazione dei tempi processuali, circostanza che a sua volta suscita perplessità sulla conformità dei rimedi interni alle norme comunitarie, in particolare con riferimento al principio di effettività e, quindi, di legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117 Cost..
Una perplessità che è molto concreta ed attuale alla luce della recente sentenza della Corte EDU del 25 febbraio 2016 (Olivieri ed altri contro Italia), la quale si è pronunciata con riferimento alla condizione di ammissibilità della previa proposizione dell’istanza di prelievo, prevista dall’art. 54 della legge n. 133 del 2008 per poter accedere all’equa riparazione ex lege Pinto a seguito dell’irragionevole durata di un processo amministrativo.
Il caso esaminato da tale sentenza è emblematico per profetizzare sulla sorte dei “rimedi preventivi” come oggi tipizzati dal nuovo art. 1-ter della legge n. 89 del 2001, considerato che tutti tali rimedi presentano caratteristiche assimilabili, sotto il profilo dell’effettività , all’istanza di prelievo del giudizio amministrativo, la quale può considerarsi un loro prototipo, per aver costituito, prima delle innovazioni introdotte dalla legge di Stabilità del 2016, l’unica ipotesi di “rimedio” interno il cui esperimento era previsto a pena di inammissibilità della domanda ex lege Pinto.
La vicenda vagliata dalla Corte europea riguarda quattro dipendenti del Comune di Benevento che hanno lamentato la violazione del loro diritto alla ragionevole durata del processo amministrativo dagli stessi instaurati, per ottenere il pagamento di differenze retributive, dinanzi al TAR Campania nel 1990.
I ricorrenti hanno adito il giudice sovranazionale esponendo che, dopo diciotto anni dalla presentazione dei rispettivi ricorsi dinanzi al TAR ed in assenza di fissazione dell’udienza nonostante la reiterata presentazione della relativa istanza, avevano adito la Corte di appello di Napoli, sulla base della legge Pinto, lamentando la durata eccessiva della procedura amministrativa: tale ricorso, tuttavia, era stato dichiarato inammissibile, con decisione successivamente confermata dalla Corte di cassazione, sulla base del rilievo che nel corso della procedura giurisdizionale amministrativa essi non avevano presentato una domanda di fissazione d’urgenza della data dell’udienza (i.e. l’istanza di prelievo), domanda che invero costituiva nuova condizione di ricevibilità dei ricorsi Pinto, introdotta il 25 giugno 2008.
Ebbene, la Corte Edu, dopo aver ricordato che il principio di sussidiarietà previsto dall’art. 35 della Convenzione EDU (a mente del quale il giudice di Strasburgo può essere adito solo previo esaurimento dei rimedi nazionali predisposti da ciascuno Stato membro) presuppone che i ricorsi interni risultino non solo disponibili, ma anche adeguati, nel senso che “la loro esistenza deve presentare un sufficiente grado di certezza non solo teorica, ma anche pratica, poiché in caso contrario mancano loro l’effettività e l’accessibilità richieste”(§42), ha concluso ritenendo nella specie ricevibile il ricorso sovranazionale per mancanza di effettività del rimedio interno ed ha quindi riconosciuto a ciascuno dei quattro ricorrenti un indennizzo di €. 22.000.000 per il pregiudizio morale subito, oltre accessori e spese legali.
Ciò in quanto, hanno osservato i giudici di Strasburgo, la condizione di ammissibilità di un ricorso Pinto prevista dall’articolo 54, comma 2, della legge n. 112/2008 risulta essere una mera “condizione formale” che produce solo “l’effetto di ostacolare l’accesso alla procedura Pinto” (§64), posto che la presentazione di una istanza di prelievo non ha “un effetto significativo sulla durata del procedimento, portando alla sua accelerazione o impedendole di oltrepassare il limite di quanto possa essere considerato ragionevole”, sicchè “si deve concludere che l’esito di tale istanza è aleatorio”(§61).
Inoltre, la Corte ha anche stigmatizzato la legislazione nazionale per non aver previsto “delle modalità precise per quanto riguarda l’esame dell’istanza in questione, in particolare sui criteri che il presidente del TAR deve applicare per rigettare o accogliere l’istanza e le conseguenze, in caso di decisione favorevole alla parte, sullo svolgimento del procedimento” (§56).
E’ sufficiente un rapido sguardo ai nuovi “rimedi preventivi” per intuire che anche a questi ultimi si attagliano perfettamente le critiche enunciate dalla Corte Edu con riferimento al loro prototipo, ossia all’istanza di prelievo, già da tempo contemplata quale condizione di ammissibilità del ricorso ex lege Pinto riferito alla giustizia amministrativa.
Il contrasto con la normativa europea non è però l’unico punto critico delle novità di cui si discorre, profilandosi anche dubbi di legittimità costituzionale, in relazione all’art. 24 Cost., con riferimento a quei rimedi preventivi che, soprattutto nel rito civile, sono tesi a condizionare le scelte difensive delle parti.
Colui che voglia iniziare un giudizio civile, ad esempio, si troverà immediatamente di fronte alla scelta tra il rito sommario e quello ordinario, nella consapevolezza che solo la prima opzione gli consentirà poi di chiedere l’equa riparazione nel caso di eccessiva durata del processo ma, nel contempo, tale opzione penalizzerà la pienezza dell’accertamento del suo diritto.
Il convenuto, a sua volta, ove intenda precostituirsi la condizione di ammissibilità per un successivo giudizio ex lege Pinto, deve proporre al giudice (almeno sei mesi prima della scadenza dei termini di cui all’art. 2, comma 2-bis) istanza di mutamento del rito da ordinario a sommario a norma dell’art. 183-bis c.p.c.[24].
In entrambi i casi, peraltro, la decisione ultima sul rito spetta al giudice, il quale, se ritiene che le difese svolte dalle parti richiedano un’istruzione non sommaria, potrà sempre disporre che il giudizio introdotto ex art. 702-bis c.p.c. sia trattato con rito ordinario (disponendo ai sensi dell’art. 702-ter, comma 3, c.p.c.) e, viceversa, se ritiene che la complessità della lite e dell’istruzione probatoria non consentano il rito sommario respingerà l’istanza di mutamento di rito formulata del convenuto ex art. 183-bis c.p.c.: è evidente la delicatezza e rilevanza della scelta del giudice che, quale accorto manager del procedimento, dovrà ora prestare particolare attenzione all’opportunità di mutare il rito originariamente scelto dall’attore, dovendo contemperare le esigenze di celerità del processo con le imprescindibili esigenze difensive ed istruttorie delle parti, tenendo altresì conto che le proposte processuali di quest’ultime saranno ora condizionate anche dalle nuove regole di ammissibilità dei ricorsi per l’equa riparazione dei danni da irragionevole durata del processo.
Resta da chiedersi se, una volta introdotto dall’attore un giudizio ex art. 702-bis c.p.c., il convenuto, il quale in tal caso non avrà ovviamente spazio per attivare il “suo” rimedio preventivo (i.e. la richiesta ex art. 183-bis c.p.c.), potrebbe vedersi negare l’ammissibilità dell’eventuale ricorso ex lege Pinto per mancato esperimento di tale rimedio.
Un’interpretazione costituzionalmente orientata dovrebbe condurre a ritenere che il convenuto potrà beneficiare degli effetti del rimedio preventivo già attuato dall’attore, realizzandosi altrimenti una disparità di trattamento tra le parti processuali che, ancora una volta, suscita dubbi di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost..
Se ciò è corretto, la medesima soluzione dovrebbe valere nell’ipotesi inversa, ossia nel caso in cui l’attore abbia introdotto il giudizio con rito ordinario ed il convenuto abbia chiesto il mutamento del rito ex art. 183-bis c.p.c.: anche in tal caso, infatti, lo scopo di accelerazione del rito risulta essere stato “tentato” (non importa se poi sia stato effettivamente raggiunto, trattandosi, come si è detto, di decisione rimessa al giudice), ma questa volta l’estensione degli effetti del rimedio preventivo alla parte diversa da quella che lo ha esperito verrebbe a squilibrare le posizioni delle parti, avvantaggiando l’attore, il quale avrebbe in tal modo goduto della doppia chance del rito ordinario e del rito abbreviato, nel contempo guadagnando la condizione di ammissibilità all’eventuale ricorso per l’equa riparazione.
Tale incongruenza potrebbe essere risolta distinguendo le ipotesi in cui il giudice abbia ritenuto di accogliere l’istanza proposta dal convenuto ex art. 183-bis c.p.c. da quelle in cui invece la abbia respinta: nel primo caso, l’attore non potrà avvalersi della ammissibilità del ricorso Pinto conseguente alla trattazione con rito sommario, non avendo esercitato il diritto-onere di introdurre la causa con tale rito pur sussistendone i presupposti; nel secondo caso, invece, dovrà ritenersi che la scelta attorea del rito ordinario fosse stata ben ponderata e necessitata dalla natura della controversia, risultando pertanto sufficiente l’istanza del convenuto ed il provvedimento di diniego del giudice per ritenere integrata, con riferimento ad entrambe le parti, la condizione di ammissibilità introdotta all’art. 2, comma 1 della legge Pinto.
Sono questi solo alcuni spunti di riflessione sulle questioni interpretative che oggi pone la inclusione del procedimento ex art. 702-bis c.p.c. tra i “rimedi preventivi” disegnati dalla legge di Stabilità 2016, ma è doveroso aggiungere che tali problematiche potrebbero ben presto essere superate ed assorbite da nuovi interventi legislativi. Il già ricordato disegno di legge concernente la “Delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile”, approvato dalla Camera dei deputati il 10 marzo 2016, all’art. 1, comma 2, lett. a), n. 4, delega infatti il governo anche a “collocare il procedimento sommario di cognizione, ridenominato «rito semplificato di cognizione di primo grado», nell'ambito del libro secondo del codice di procedura civile, prevedendone l'obbligatorietà per le cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, con esclusione dei procedimenti attualmente assoggettati al rito del lavoro, prevedendo che l'udienza di prima comparizione delle parti sia fissata in un congruo termine, comunque non superiore a tre mesi, e assegnando al giudice, nel rispetto del principio del contraddittorio, la facoltà di fissare termini perentori per la precisazione o modificazione delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni, tenuto conto delle domande e delle eccezioni proposte dalle altre parti, nonché per l'indicazione dei mezzi di prova diretta e contraria e per le produzioni documentali, escludendo il potere del giudice di disporre il passaggio al rito ordinario”, oltre a “prevedere l'obbligatorietà del rito ordinario di cognizione per le cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, escludendo il potere del giudice di disporre il passaggio al rito semplificato di cognizione” .
Se tale disposizione verrà approvata anche al Senato e quindi attuata dal governo, né le parti né il giudice avranno più alcuna scelta tra rito ordinario e rito “semplificato di cognizione di primo grado” (secondo la nuova denominazione che assumerà l’attuale rito sommario ex art. 702-bis e ss. c.p.c.)[25], con la conseguenza che il rito con il quale verranno introdotte le cause civili non potrà più costituire un “rimedio preventivo” e, per l’effetto, verrà meno (salve ulteriori modifiche normative) anche qualsiasi condizione di ammissibilità del giudizio Pinto legata a tale aspetto processuale.
3. Novità in tema di indennizzo: riduzioni, esclusioni e presunzioni.
Nell’ottica di contenimento dei costi conseguenti alla violazione dei termini di ragionevole durata dei processi, l’intervento più ovvio ed immediato non poteva che essere quello di “tagliare” l’entità degli indennizzi.
La legge di Stabilità 2016 ha quindi applicato tale elementare criterio di risparmio, riducendo la soglia minima e massima entro cui potrà essere liquidato l’indennizzo: il riformulato art. 2-bis, comma 1, ha infatti indicato nuovi parametri di liquidazione dell’indennizzo fissando un range compreso tra 400 e 800 euro per anno o frazione di anno superiore ai sei mesi di eccedenza sulla durata ragionevole del processo (in precedenza il range era fissato tra 500 e 1500 euro), con la previsione però di correttivi in aumento per i casi in cui il ritardo si sia eccessivamente prolungato, potendo la somma liquidata essere in tali casi aumentata sino al 20 per cento per gli anni successivi al terzo e sino al 40 per cento per gli anni successivi al settimo.
A sua volta, il nuovo comma 1-bis dell’art. 2-bis consente riduzioni sino al 20 per cento se le parti del processo presupposto sono più di dieci e fino al 40 per cento se le parti sono più di cinquanta, mentre il nuovo comma 1-ter dell’art. 2-bis prevede la diminuzione “fino a un terzo” della somma liquidabile a titolo di indennizzo nei casi di integrale rigetto delle richieste della parte ricorrente nel giudizio presupposto.
I nuovi parametri, per espressa previsione della norma, si applicano tuttavia “di regola”[26], dovendo pertanto prevedersi una loro flessibilità secondo criteri che l’applicazione giurisprudenziale dovrà elaborare in relazione alla natura della controversia; così, verosimilmente, sarà prevedibile un ribasso dell’indennizzo liquidabile per eccessiva durata dei giudizi presupposti Pinto (cc.dd. ricorsi Pinto su Pinto o Pinto-bis), considerato che la giurisprudenza di Strasburgo tende a liquidare tale indennizzo nella misura massima di 200 euro all’anno, ovvero potrà ipotizzarsi un aumento in relazione a cause presupposte coinvolgenti diritti fondamentali della persona.
La misura della soglia, sia minima che massima, di quantificazione degli indennizzi risulta così nettamente inferiore agli standard determinati dalla Corte di Strasburgo, che si attestano su importi compresi tra €. 1.000,00 ed € 1.500,00, legittimando qualche dubbio sulla sua adeguatezza al fine di assicurare l’effettiva tutela del diritto all’equa riparazione e, quindi, di evitare il rischio di un intervento “suppletivo” della Corte europea ai sensi dell’art. 41 CEDU[27].
E’ infatti vero che, secondo la giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo, il giudice nazionale conserva un margine di apprezzamento in forza del quale gli importi concessi a titolo di equa riparazione da irragionevole durata del processo possono essere anche inferiori a quelli liquidati in ambito europeo, ma ciò “a condizione che le decisioni pertinenti” siano “coerenti con la tradizione giuridica e con il tenore di vita del paese interessato”, e purchè detti importi non risultino irragionevoli.
In linea con tali principi, giurisprudenza della nostra Corte di cassazione ha, sebbene nella vigenza dell’originaria Legge Pinto (quando il nostro il legislatore non aveva ancora fissato le soglie interne, introdotte solo con il d.l. n. 83 del 2012), reputato “non irragionevole” una soglia pari al 45 per cento del risarcimento che la Corte europea avrebbe attribuito: ciò in virtù dell’esigenza di offrire un'interpretazione della legge 24 marzo 2001, n. 89 idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine ad assicurare l'obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con l'art. 6 della CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo[28].
Successivamente, la stessa giurisprudenza della Cassazione ha valorizzato ulteriormente la possibilità di discostarsi dai parametri indennitari fissati dalla Corte
europea dei diritti dell'uomo, purchè tale scostamento sia suffragato da una puntuale motivazione, idonea a dar conto di un giudizio di comparazione tra la entità della pretesa patrimoniale azionata (c.d. posta in gioco), che occorre valutare per accertare l'impatto dell'irragionevole ritardo sulla psiche della parte richiedente, e la situazione socioeconomica dell'istante, tale da evidenziare la reale portata dell'interesse di quest'ultimo alla decisione[29].
Orbene, il campo di variazione dell’indennizzo oggi indicato dall’attuale art. 2-bis l. 89/200, pur con i correttivi previsti, sembra fissare a priori dei limiti che violano i principi sopra richiamati, i quali sono frutto della precedente stratificazione della giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di cassazione; inoltre, la previsione normativa della misura del risarcimento potrebbe ritenersi idonea a dispensare il giudice dal fornire un’adeguata motivazione per la liquidazione di un importo ad essa corrispondente ma di gran lunga inferiore a quello minimo generalmente applicato dalla Corte di Strasburgo, in quanto tale importo, pur ove di fatto violasse il principio di effettività del rimedio interno, risulterebbe comunque oggi ineccepibilmente conforme alla norma nazionale.
Oltre alla riduzione dei parametri indennitari, alcune novità riguardano anche i casi di diniego dell’indennizzo. La legge di Stabilità 2016 ha, infatti, riscritto il vecchio comma dell’art. 2, comma 2-quinquies (introdotto dal d.l. n. 83 del 2012), il quale prevedeva una serie di ipotesi in cui è escluso in radice il diritto all’indennizzo, ora ampliate e puntualizzate[30].
Ai sensi del nuovo art. 2, comma 2-quinquies, infatti, non è riconosciuto alcun indennizzo alla parte condannata, ex art. 96 c.p.c., ai danni per lite temeraria nel processo presupposto ed anche alla parte che, pur in assenza di tale condanna, risulti consapevole dell’infondatezza “originaria o sopravvenuta” della sua posizione (lett. a)[31], nonché nei casi di cui all’art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c. (lett. b) e all’art. 13, comma 1, primo periodo del d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 (lett. c); infine, l’indennizzo è escluso “in ogni altro caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento” (lett. d).
Quest’ultima disposizione lascia intendere che il legislatore, tipizzate alcune ipotesi di abuso (nelle lettere da a, b e c) abbia voluto lasciare aperta la possibilità d'individuarne altre di pari livello, prevedendo quindi una clausola finale di chiusura volta a includere qualsivoglia altra ipotesi similare.
La esplicita previsione di uno sbarramento dell’accesso all’indennizzo nei casi indicati, tutti riferiti a comportamenti dilatori delle parti, appare assai opportuna, sia perché favorisce l’evolversi di una cultura giudiziaria, sempre più attenta ai valori della correttezza processuale, sia perché opportunamente responsabilizza le parti dissuadendole da abusi processuali che non di rado incidono sulle “lungaggini” del giudizio e che spesso il giudice non ha il potere di prevenire o arginare: in tale prospettiva, appare molto opportuna la scelta di rimettere, in ultima analisi (lett. d del comma 2-quinquies citato), alla giurisprudenza la valutazione in concreto della sussistenza dell’“abuso”, posto che la peculiarità dei casi singoli e la loro vasta latitudine esperienziale non avrebbe potuto garantire la tipizzazione di una equa e reale casistica.
Del tutto inedita è, invece, la disposizione di cui al nuovo comma 2-sexies dell’art. 2, il quale inserisce nell’ordito della l. n. 89 del 2001 una presunzione di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, superabile dalla prova contraria, per i casi di prescrizione del reato di cui benefici l’imputato (lett. a), di contumacia della parte (lett. b), di estinzione o perenzione del processo civile o amministrativo (lett. c e lett. d), di proposizione di motivi aggiunti al ricorso amministrativo mediante autonomo ricorso (lett. e), nonché di mancata richiesta di riunione ex art. 70 c.p.a. dei ricorsi amministrativi connessi, proposti dalla stessa parte (lett. f); infine, la lettera g) della medesima norma esclude fino, a prova contraria, l’indennizzo in caso di “irrisorietà della pretesa o del valore della causa, valutata anche in relazione alla condizione personale della parte”, così recependo il principio fissato dall’art. 35, comma 3, lett. b) Convenzione EDU, in vigore dall’1 giugno 2010, che nega il ristoro del pregiudizio che non abbia un certo grado di serietà (c.d. clausola de minimis non curat praetor)[32].
Infine, il nuovo comma 2-septies dell’art. 2, ha introdotto una specifica applicazione del principio della compensatio lucri cum damno ponendo una presunzione di insussistenza del danno per la parte che, dall’eccessiva durata del processo, abbia ricevuto vantaggi patrimoniali uguali o maggiori rispetto alla misura dell’indennizzo in astratto ad essa spettante.
4. La modifica della competenza territoriale.
Nella versione originaria del 2001, non modificata dalle successive riforme del 2012 e 2013, la legge Pinto indicava, quale criterio di individuazione del giudice territorialmente competente a conoscere della domanda di equa riparazione, quello previsto dall’art. 11 del c.p.c. per i procedimenti penali riguardanti i magistrati, in forza del quale tale competenza era attribuita alla “corte d'appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata”.
La ratio della norma risiedeva nella opportunità di attribuire la cognizione del giudizio concernente la violazione della ragionevole durata del processo presupposto ad un giudice che, non appartenendo all’ufficio giudiziario nel quale si era svolto il processo “sub judice”, offrisse maggiori garanzie di terzietà ed imparzialità, esigenza che può essere agevolmente apprezzata ove si consideri che la pronuncia di accoglimento di un ricorso Pinto è potenzialmente foriera di responsabilità erariale e/o disciplinare del magistrato designato alla trattazione del giudizio presupposto (art. 5, comma 4 l. 89/2001).
L’ultima riforma, tuttavia, ha modificato tale norma (art. 3, comma 1), risultando oggi attribuita la competenza territoriale alla Corte d’appello dello stesso distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo presupposto: risulta così eliminato il precedente richiamo all’art. 11 del c.p.p. che, radicando la competenza in un distretto diverso da quello del giudizio presupposto, gravava eccessivamente i ruoli di diverse piccole Corti d’appello presso le quali venivano a confluire i numerosissimi ricorsi Pinto originati da Corti di riferimento di dimensioni assai più ampie.
La scelta legislativa, evidentemente determinata dalla priorità accordata ad una più adeguata ripartizione dei carichi di lavoro delle Corti d’appello, è apprezzabile per le ricadute in termini di efficienza, mentre non sembra che sussistano fondati timori sotto il profilo della terzietà ed imparzialità del giudice dell’equa riparazione: a tal fine il nuovo quarto comma dell’art. 3, nel prevedere la possibilità che il presidente della Corte d’Appello designi a provvedere sulla domanda di equa riparazione un magistrato della stessa Corte, ha opportunamente specificato che non può essere designato il giudice del processo presupposto.
In altri termini, si può dire che le modifiche in tema di competenza hanno sostituito alla precedente incompetenza di un intero ufficio giudiziario (i.e., la Corte d’appello nel cui distretto esercitava le funzioni il giudice del processo presupposto), la attuale incompatibilità di un singolo magistrato (o di più singoli magistrati, ossia di quelli a cui era stato affidato il giudizio presupposto).
Da segnalare, infine, con riferimento ai giudici che possono essere designati dal Presidente della Corte di appello per la decisione sui ricorsi ex lege n. 89 del 2001, una ulteriore novità: il comma 782 dell’art. 1 della legge di Stabilità n. 208 del 2015, modificando l’art. 62, comma 2, della legge 9 agosto 2013 n. 98, prevede la possibilità di affidare ai giudici ausiliari delle Corti di appello anche la trattazione dei ricorsi Pinto e la redazione dei decreti ingiuntivi di competenza del Presidente della Corte o ai magistrati da lui delegati.
5. Le nuove modalità di pagamento.
Il testo originario della legge n. 89 del 2001 nulla prevedeva in ordine alle modalità di pagamento delle somme liquidate a titolo di equo indennizzo del danno da irragionevole durata del processo.
La legge di Stabilità del 2016 ha colmato tale lacuna introducendo nella legge il nuovo art. 5-sexies, che disciplina le modalità di pagamento dei decreti Pinto di condanna onerando in primo luogo il creditore di rilasciare all’amministrazione una dichiarazione di autocertificazione e sostitutiva di notorietà “attestante la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l’esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso credito, l’ammontare degli importi che l’amministrazione è ancora tenuta a corrispondere, la modalità di riscossione prescelta ai sensi del comma 9 del presente articolo”; inoltre, il creditore è tenuto “a trasmettere la documentazione necessaria a norma dei decreti di cui al comma 3[33]” (art. 5-sexies, comma 1).
Si tratta evidentemente di una serie di adempimenti di ordine strettamente burocratico che, a ben vedere, si risolvono in una supplenza dell’attività amministrativa, in quanto concernenti dati e documentazione già nella piena disponibilità dell’amministrazione: sono così stati posti a carico del cittadino vittorioso ex lege Pinto oneri che sembrano eccessivamente gravosi, tanto più che la predetta dichiarazione ha validità solo semestrale e deve essere rinnovata a semplice richiesta della pubblica amministrazione (art. 5-sexies, comma 2).
Peraltro, ai sensi del comma 4 dell’art. 5-sexies, “nel caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione o della documentazione di cui ai commi precedenti, l’ordine di pagamento non può essere emesso”: una disposizione che, sostanzialmente rimettendo alla valutazione unilaterale della amministrazione il giudizio di completezza e regolarità sia della dichiarazione che della documentazione trasmessa, da un lato assoggetta il soddisfacimento dei crediti ex lege Pinto (pur consacrati in un provvedimento giurisdizionale passato in giudicato) alle determinazioni ultime della parte debitrice e, dall’altro è prevedibilmente foriera di nuovo contenzioso ove sorgano contestazioni sui criteri utilizzati per valutare la completezza e regolarità della dichiarazione e documentazione trasmesse.
In ogni caso è previsto, in favore dell’amministrazione, un tempo di dilazione del pagamento, che deve avvenire “entro sei mesi dalla data in cui sono integralmente assolti gli obblighi previsti ai commi precedenti”, termine che comunque, ribadisce la norma, “non inizia a decorrere in caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione ovvero della documentazione di cui ai commi precedenti” (art. 5-sexies, comma 5) e che, se non interamente decorso, impedisce ai creditori di “procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento” (art. 5-sexies, comma 7).
Quand’anche il creditore riesca a soddisfare tutte le formalità richieste dai primi cinque commi dell’art. 5-sexies, il soddisfacimento del suo credito non sarà ancora assicurato, posto che l’amministrazione dovrà eseguire i provvedimenti per intero solo “ove possibile” e che l’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene “nei limiti delle risorse disponibili”, fatto salvo il ricorso ad anticipazioni di tesoreria mediante pagamento in conto sospeso (art. 5-sexies, comma 6).
Il mancato, incompleto o irregolare adempimento degli obblighi di comunicazione impedirà anche al giudice investito del procedimento di esecuzione forzata, così come al commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo, ove il creditore abbia proposto azione di ottemperanza, di disporre il pagamento di somme o l’assegnazione di crediti in favore dei creditori ex lege Pinto (art. 5-sexies, comma 11).
La semplice lettura dell’art. 5-sexies lascia facilmente intuire che la parte vittoriosa ex lege Pinto dovrà ancora attendere un incerto, e verosimilmente non breve, lasso di tempo prima di ottenere la completa soddisfazione del suo credito.
6. La ragionevole durata dei procedimenti ex lege n. 89 del 2001 dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 19 febbraio 2016, n. 36.
La legge di Stabilità 2016 non ha modificato i termini di durata ragionevole del processo, i quali, ai sensi dell’art. 2, comma 2-bis, si considerano rispettati se il processo non eccede la durata di:tre anni in primo grado, due anni in secondo grado, un anno nel giudizio di legittimità, nonché se il procedimento di esecuzione forzata si è concluso in tre anni e se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni.
Il successivo comma 2-ter specifica poi che il termine ragionevole si considera comunque rispettato se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo complessivo non superiore a sei anni, nel computo del quale non deve però tenersi conto del tempo in cui il processo è sospeso e di quello intercorso tra il giorno in cui inizia a decorrere il termine per proporre l’impugnazione e la proposizione della stessa.
Tali termini, non previsti nell’originaria formulazione della legge n. 89 del 2001, sono stati introdotti dalla novella del 2012[34] con l’intento di sottrarre alla discrezionalità giudiziaria la determinazione della congruità del termine, per affidarla invece ad una previsione legale di carattere generale volta a regolare, per quanto riguarda il settore civile, tutti i processi civili di cognizione, e dunque anche il procedimento ex lege Pinto.
In relazione ai termini di ragionevole durata di quest’ultimo, tuttavia, la legge n. 89 del 2011, nel testo vigente dopo le modifiche del 2012, risulta oggi modificata in forza, non già della legge di Stabilità 2016, bensì di una pronuncia della Corte Costituzionale intervenuta appena un mese e venti giorni dopo l’entrata in vigore della citata legge di Stabilità.
Il giudice delle leggi, con la sentenza n. 36 del 2016[35], ha infatti dichiarato la illegittimità costituzionale - in riferimento all’art. 111, secondo comma, e all’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU - dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui determina in tre anni la ragionevole durata del primo (e unico) grado di merito del giudizio proposto ai sensi della legge n. 89 del 2001.
A tale conclusione la Corte è pervenuta osservando che nella giurisprudenza europea è consolidato il principio secondo cui “lo Stato è tenuto a concludere il procedimento volto all’equa riparazione del danno da ritardo maturato in altro processo in termini più celeri di quelli consentiti nelle procedure ordinarie”, con la conseguenza che l’art. 6 della CEDU, il cui significato si forma attraverso il reiterato ed uniforme esercizio della giurisprudenza europea sui casi di specie, “preclude al legislatore nazionale, che abbia deciso di disciplinare legalmente i termini di ragionevole durata dei processi ai fini dell’equa riparazione, di consentire una durata complessiva del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 pari a quella tollerata con riguardo agli altri procedimenti civili di cognizione, anziché modellarla sul calco dei più brevi termini indicati dalla stessa Corte di Strasburgo e recepiti dalla giurisprudenza nazionale”.
La nostra giurisprudenza, in applicazione degli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. ed in aderenza alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, aveva in precedenza (ossia prima dell’introduzioni dei termini di cui alla modifica del 2012) determinato il termine ragionevole dei giudizi “Pinto”, per il caso di procedimento svoltosi in entrambi i gradi previsti, in complessivi due anni, che è appunto il limite di regola ammesso dalla Corte EDU.
La Corte Costituzionale, nella medesima sentenza, ha invece ritenuto non fondata l’ulteriore questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui determina in un anno la ragionevole durata del giudizio di legittimità previsto dalla legge n. 89 del 2001, ritenendo che il termine annuale scelto dal legislatore “è conforme alle indicazioni di massima provenienti dalla Corte europea e recepite dalla giurisprudenza nazionale”, e rilevando altresì che “la dichiarazione di illegittimità costituzionale della previsione concernente la durata del processo di primo grado fa sì che la ragionevole durata complessiva di un procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, in concreto articolatosi su due gradi di giudizio, sia inferiore a quella stabilita per gli altri procedimenti ordinari di cognizione, e comunque possa essere contenuta nel tetto di due anni, in conformità agli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost”.
Quanto al termine complessivo di sei anni, previsto dall’art. 2, comma 2-ter, la Corte ha precisato che tale disposizione è inapplicabile ai procedimenti previsti dalla legge n. 89 del 2001, perché essi sono articolati su due gradi di giudizio, mentre il termine di sei anni previsto da tale norma, e che si considera “comunque” ragionevole, esigerebbe che il processo si sia svolto in tre gradi.
Dunque, all’esito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui si applica alla durata del processo di primo grado previsto dalla legge n. 89 del 2001 ed alla luce delle ulteriori precisazioni contenute nella citata sentenza della Corte Costituzionale, la ragionevole durata del giudizio di equa riparazione dovrà ora essere ravvisata nel termine di un anno per l’unico grado di merito ex lege Pinto e di un anno per il giudizio di Cassazione, così per un tempo di durata complessiva di entrambi i gradi di giudizi non superiore a due anni.
Abstract:
La legge del 28 dicembre 2015 n. 208 (legge di Stabilità 2016) ha apportato rilevanti novità alla legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto), al dichiarato fine di razionalizzarne i costi. Il lavoro, partendo da un breve excursus delle vicende che hanno portato alla nascita e all’evoluzione della legge Pinto, offre un quadro analitico delle ultime modifiche e propone alcuni spunti di riflessione sui tempi processuali e sui risparmi di spesa pubblica che potrebbero derivarne. Tra le novità spicca l’inedita categoria dei “rimedi preventivi”, tra i quali è inopinatamente inserita anche una vera e propria modifica al codice di rito civile, costituita dalla estensione della decisione ex art. 281-sexies c.p.c. alle controversie con riserva di collegialità. Pur profilandosi alcuni dubbi di legittimità costituzionale e di non conformità alla giurisprudenza di Strasburgo, il nuovo assetto della disciplina ha il pregio di favorire un processo di responsabilizzazione di tutte le parti processuali, utile viatico per una nuova “cultura” del giudizio.
Altre novità hanno interessato la legge n. 89 del 2001 nei primi mesi del 2016: la pronuncia della Corte costituzionale n. 36 del 19 febbraio 2016 e la sentenza della Corte EDU del 25 febbraio 2016 (Olivieri ed altri contro Italia).
[1] L’art. 55 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con la l. 7 agosto 2012 n. 134, aveva, tra l’altro, introdotto, all’art. 2 della legge n. 89 del 2001, il comma 2 quinquies, con il quale venivano previsti alcuni casi di esclusione del diritto all’indennizzo, tutti riferiti a varie ipotesi di comportamenti delle parti atte ad introdurre o prolungare ingiustificatamente il giudizio: la legge di Stabilità 2016 ha sostanzialmente confermato tale impostazione, apportandovi alcune modifiche ed ampliamenti. Il testo attuale dell’art. 2, comma 2 quinquies stabilisce che:
<Non e' riconosciuto alcun indennizzo:
a) in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole dell’infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, anche fuori dei casi di cui all'articolo 96 del codice di procedura civile;
b) nel caso di cui all'articolo 91, primo comma, secondo periodo, del codice di procedura civile;
c) nel caso di cui all'articolo 13, primo comma, primo periodo, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28;
f) in ogni altro caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento.>
Rispetto alla formulazione precedente risultano ora molto più estese le ipotesi di cui alla lettera “a” (che, nel testo introdotto nel 2012, così recitava: “in favore della parte soccombente condannata a norma dell'articolo 96 del codice di procedura civile”) e sono state espunte le ipotesi di cui alle previgenti lettere “d” (relativa al “caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte”) ed “e”(riferita all’ipotesi in cui “l'imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento mini cui all'articolo 2-bis”), le quali però sono ora contemplate, con alcuni aggiustamenti, rispettivamente come “presunzione” di insussistenza del pregiudizio (e non più di esclusione tout court del diritto all’indennizzo) ai sensi del nuovo comma 2 sexies dell’art. 2 e come “rimedio preventivo a pena di inammissibilità” ai sensi dell’art. 1-ter, comma 2.
[2] La norma, intitolata “diritto a un equo processo”, al paragrafo 1, recita che “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia.
[3] Legge 4 agosto 1955, n. 848, Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo1952.
[4] Per agevolare la lettura si riporta il testo degli articoli citati:
Art. 34: Ricorsi individuali – “La Corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga d’essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli. Le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’esercizio effettivo di tale diritto”.
Art. 35: Condizioni di ricevibilità - “1. La Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, come inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva.
2. La Corte non accoglie alcun ricorso inoltrato sulla base dell’articolo 34, se:
(a) è anonimo; oppure
(b) è essenzialmente identico a uno precedentemente esaminato dalla Corte o già sottoposto a un’altra istanza internazionale d’inchiesta o di risoluzione e non contiene fatti nuovi.
3. La Corte dichiara irricevibile ogni ricorso individuale presentato ai sensi dell’articolo 34 se ritiene che:
(a) il ricorso è incompatibile con le disposizioni della Convenzione o dei suoi Protocolli, manifestamente infondato o abusivo; o
(b) il ricorrente non ha subito alcun pregiudizio importante, salvo che il rispetto dei diritti dell’uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli esiga un esame del ricorso nel merito e a condizione di non rigettare per questo motivo alcun caso che non sia stato debitamente esaminato da un tribunale interno.
4. La Corte respinge ogni ricorso che consideri irricevibile in applicazione del presente articolo. Essa può procedere in tal modo in ogni stato del procedimento”.
[5] Se il previo esaurimento delle vie di ricorso interno, è condizione di ricevibilità del ricorso alla Corte EDU, ai sensi dell’art. 35 della Convenzione, l’idoneità del diritto interno ad assicurare l’effettiva tutela del diritto costituisce invece oggetto di una valutazione della Corte, che, se negativa, può determinare la condanna dello stato aderente ad una equa riparazione anche ove i rimedi interni siano stati esperiti ma siano risultati insufficienti: ai sensi dell’art. 41 CEDU, infatti, “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”.
[6]L’art 111 Cost., come modificato dalla citata legge n. 2 del 1999, stabilisce infatti che “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità,davanti ad un giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata …”.
[7] A ben vedere, il rango costituzionale di tale principio era già desumibile dagli artt. 3 e 24 della Cost., per cui la sua esplicita menzione nel novo testo dell’art. 111 Cost. secondo molti autori, non ha avuto alcuna portata innovativa, considerato che “dall’art. 24, comma 2° Cost., anche nella sua connessione con l’art. 3, sono ricavabili tutte le garanzie enunciate dalla prima parte del nuovo art. 111” e che, pertanto, “non esiste un solo caso in cui, oggi, si dovrebbe dichiarare l’illegittimità di norme ordinarie per violazione di garanzie costituzionali che non si sarebbe potuta (e dovuta) dichiarare prima. Non esistono norme del processo civile legittime prima dell’entrata in vigore della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 e illegittime dopo”: v, per tutti,. S. CHIARLONI, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il processo civile, in Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, a cura di Civinini e Verardi, Milano, 2001, 13 ss..
[8] E’ il termine usato dal relatore Follieri nella seduta del Senato del 28.9.2000, come ricordato in motivazione da Cass., Sez. 1, 17 giugno 2004, n. 11350, la quale sottolinea anche che la Corte di Strasburgo, prima della legge n. 89/01, aveva ampiamente censurato le inadempienze dell'Italia, le quali "riflettono una situazione che perdura, alla quale non si è ancora rimediato e per la quale i soggetti a giudizio non dispongono di alcuna via di ricorso interna. Tale accumulo di inadempienze è pertanto costitutivo di una prassi incompatibile con la Convenzione (quattro sentenze della Corte in data 28 luglio 1999, su ricorsi di Bottazzi, Di Mauro, Ferrari)”.
[9] La prolungata inadempienza di uno Stato aderente può integrare la violazione dell’art. 3 dello Statuto del Consiglio d’Europa, che obbliga tutti i membri a riconoscere il primato del diritto, nonché la violazione del principio che impone a ciascuna Parte aderente di assicurare ad ogni persona soggetta alla sua giurisdizione il godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; situazione alla quale consegue l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 8 dello Statuto dell’Organizzazione, quali la sospensione del diritto di rappresentanza nel Consiglio d’Europa e il ritiro dal Comitato dei Ministri ovvero l’espulsione dall’organizzazione.
[10] L’unica modifica di carattere processuale operata dalla l. n. 89 del 2001 è stata la riformulazione dell’art. 375 c.p.c., la quale , in quanto relativa al solo giudizio in Cassazione, appariva sin dagli albori palesemente insufficiente.
[11] Cfr. Grande Camera, Scordino c. Italia del 29 marzo 2006, consultabile su www.foroeuropeo.it, con nota di P. Voltaggio, La Corte di Strasburgo “bacchetta l’Italia” anche dopo la legge Pinto. La decisione del 27 marzo sul caso Scordino riapre l’accesso al ricorso a Strasburgo.
[12] Così il Primo Presidente della Corte di Cassazione in occasione della sua Relazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
[13] Emblematica in proposito è la sentenza Scordino c. Italia, cit. sub nota 10.
[14] Le parole del Presidente Napolitano sono state sottolineate dal Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione, Vincenzo Carbone, nel discorso inaugurale dell’Anno Giudiziario tenuto il 29 gennaio 2009, il quale ha a sua volta dedicato un apposito capitolo della sua relazione a “I gravissimi e assurdi costi della legge-Pinto”.
[15] Dati tratti dal dossier sulla legge di stabilità 2016 realizzato congiuntamente dai Servizi del Senato e della Camera.
Relazione della Corte dei conti sul Rendiconto evidenzia che
[16] D.L. del 22 giugno 2012 n. 83, “Misure urgenti per la crescita del Paese”, convertito con L. 7 agosto 2012 n. 134, entrata in vigore l’11 settembre 2012.
[17] Nella sua formulazione originaria la legge Pinto non prevedeva tempi fissi, lasciando al giudice la determinazione in concreto della ragionevole durata, avendo riguardo alla specificità del singolo caso ed ai principi elaborati dalla CEDU.
[18] Prima della novella del 2012, la legge Pinto non fissava alcun “tariffario” per l’indennizzo ed il giudice nazionale tendeva a recepire la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che indicava quale standard di quantificazione una somma compresa tra 1.000 e 1.500 euro, dalla quale era possibile discostarsi solo dando adeguata motivazione, altrimenti configurandosi una violazione di legge, suscettibile di essere dedotta quale motivo di ricorso in cassazione: Cfr. Cass., Sez. I, 24 gennaio 2007 n. 1605.
[19] L’omesso deposito dell’istanza di accelerazione per il processo penale, nella previsione di cui al precedente art. 2, comma 2-quinquies lett. e), introdotto nella legge Pinto con il d.l. 22 giugno 2012, n. 83, costituiva causa di esclusione del diritto all’indennizzo: v.. sub nota 1.
[20] Tale novità si desume dal tenore dell’ultima parte del comma 1 dell’art. 1-ter, introdotto dalla legge di Stabilità 2016, che così dispone: “Nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, il giudice istruttore, quando ritiene che la causa può essere decisa a seguito di trattazione orale, a norma dell’art. 281-sexies del codice di procedura civile, rimette la causa al collegio fissando l’udienza collegiale per la precisazione delle conclusioni e per la discussione orale”.
[21] L’art. 281- sexies c.p.c. è stato inserito nel codice di rito dall’art. 68 del decreto legislativo del 19 febbraio 1998 n. 51, istitutivo del giudice unico di primo grado
[22] Invero, affermare che una norma sia priva di concreto contenuto precettivo è davvero l’extrema ratio, alla quale l’interprete può ricorrere solo quando i criteri ermeneutici indicati dall’art. 12 delle preleggi al codice civile conducano ad escludere con assoluta certezza ogni possibile significato: tale principio, le cui ragioni fondanti sono di immediata percezione, trova riscontro in un passo della motivazione di Cass., 9 novembre 1981 n. 5927, in Foro Padano 1981, I, 187, dove si legge che: “nell’interpretazione della legge, a meno che il significato letterale sia tale da escludere ogni altro significato, non può attribuirsi al legislatore di aver avuto l’intenzione di porre in essere un testo legislativo privo di contenuto normativo immediato”.
[23] La richiesta di discussione orale ai sensi dei citati articoli 275 e 352 c.p.c., a differenza dell’ipotesi prevista dall’art. 281-sexies c.p.c., non incide sulle modalità della decisione (restando fermi, per le parti, i termini per il deposito delle difese conclusionali ex art. 190 c.p.c., nonché, per il tribunale, le modalità ed i termini per la redazione e pubblicazione della sentenza), ma costituisce solo una facoltà attribuita alle parti che vogliano affiancare, alla trattazione scritta della causa, anche la discussione orale.
[24] Norma recentemente introdotta nel codice di rito dall’art. 14 del d.l. del 12 settembre 2014 n. 132, convertito con modificazioni nella legge n. 162 del 10 novembre 2014.
[25] La nuova denominazione prevista dal disegno di legge delega è evidentemente tesa a sottolineare che il procedimento di cui si discorre rientra a pieno titolo nella cognizione piena ed esaustiva dei procedimenti a cognizione ordinaria, e che la semplificazione attiene non già al grado di approfondimento del merito della controversia da parte del giudice, bensì alla mera semplificazione dell’iter procedimentale.
[26] Tale precisazione, non contenuta nella precedente versione dell’art. 2-bis, comma 1 (che era stato aggiunto all’originaria legge Pinto dall’art. 55, co. 1, lett. b), D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134), recepisce un principio già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la soglia minima è tendenziale, vale cioè "di regola", senza costituire una frontiera invalicabile, laddove in considerazione del carattere bagatellare o irrisorio della pretesa patrimoniale azionata nel processo presupposto, parametrata anche sulla condizione sociale e personale del richiedente, vi sia l'esigenza di evitare sovracompensazioni (così Cass., sez. VI-1, 30 luglio 2010 n. 17922; Cass., sez. VI-1, 28 maggio 2012 n. 8471; Cass., sez. VI-2, 2 novembre 2015 n. 22385).
[27] V. sub nota 5.
[28] Così Cass., sez. I, 8 luglio 2009 n. 16086, la quale aveva conseguentemente stabilito che la quantificazione del danno non patrimoniale doveva essere, di regola, non inferiore a euro 750,00 per ogni anno di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata. Successivamente, la stessa Corte di cassazione aveva precisato che detto parametro va applicato per i primi tre anni eccedenti la durata ragionevole mentre, per il periodo successivo, la soglia minima saliva ad Euro 1.000,00, in quanto l'irragionevole durata eccedente tale periodo comporta "un evidente aggravamento del danno" (così Cass., sez. 1, 14 ottobre 2009 n. 21840; Cass., sez. VI-1, 30 luglio 2010 n. 17922; Cass., sez. 1, 6 giugno 2011, 12173; Cass., sez. VI-1, 28 maggio 2012 n. 8471).
[29] V. Cass., sez. 1, 24 luglio 2009 n. 17404; Cass., sez. II, 24 luglio 2012 n. 12937; Cass., sez. VI-2, 2 novembre 2015 n. 22385.
[30] Per un raffronto tra il testo precedente e la nuova formulazione dell’art. 2, comma 2-quinquies, v. sub nota 1.
[31] La possibilità, per il giudice del ricorso Pinto, di apprezzare la temerarietà del giudizio presupposto, pur in assenza di una esplicita condanna ex art. 96 c.p.c., non era espressamente contemplata nella precedente formulazione della lett. a) dell’art. 2, comma 2-quinquies, ma era stata comunque ammessa dalla giurisprudenza in considerazione della non tassatività dei casi di esclusione dell’indennizzo e della “apertura” rinvenibile nella previsione di chiusura di cui alla lettera f) della norma (oggi integralmente trasfusa nella lettera d), che escludeva il diritto all’indennizzo “in ogni altro caso di abuso dei poteri processuali…”: V. Cass., sez. VI-2, 19 ottobre 2015 n. 21131.
[32] In tal senso, come si è già accennato, si era in precedenza già orientata parte della giurisprudenza: V. Cass. 24 luglio 2012 n. 12937, ad avviso della quale il giudice, nel determinare la quantificazione del danno non patrimoniale subito per ogni anno di ritardo, poteva scendere al di sotto del livello di "soglia minima" là dove, in considerazione del carattere bagatellare o irrisorio della pretesa patrimoniale azionata nel processo presupposto, parametrata anche sulla condizione sociale e personale del richiedente, l'accoglimento della pretesa azionata renderebbe il risarcimento del danno non patrimoniale del tutto sproporzionato rispetto alla reale entità del pregiudizio sofferto.
[33] A mente del richiamato comma 3, la documentazione che deve essere trasmessa, così come i modelli di dichiarazione di cui al comma 1, dovrà essere precisamente indicata con decreti del Ministero dell’economia e delle finanze e del Ministero della Giustizia da emanarsi entro il 30 ottobre 2016. In attesa dell’emanazione del decreto previsto dalla norma citata, da adottare di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, il Ministero della giustizia ha predisposto un modello di autodichiarazione, consultabile sul sito istituzionale, di dubbia valenza ai fini previsti dall’art. 5-sexies della nuova legge Pinto, dichiaratamente trattandosi di un modello provvisorio, non corrispondete a quello indicato dalla norma citata.
[34] L’introduzione della predeterminazione di termini che devono ritenersi “ragionevoli” è stata disposta dall’art. 55, comma 1, lett. a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134.
[35] V. sent. Corte Costituzionale del 19 febbraio 2016, n. 36, consultabile al sito www.cortecostituzionale.it.