Nel 1992 la Comunità Economica Europea si trasforma, con il Trattato di Maastricht, in Unione Europea, e si allarga ulteriormente. Come già accennato, nel 1995 raggiungono l’Unione la Svezia, l’Austria e la Finlandia; nel 2004 si verifica un grande allargamento al blocco dei Paesi dell’est (Estonia, Lituania, Lettonia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, oltre a Malta e Cipro) completato nel 2007 con Romania e Bulgaria e, nel 2013, con la Croazia, fino a raggiungere così il numero di 28 Stati Membri – salva la riduzione a 27 per l’inopinato esito del referendum britannico del giugno 2016, la c.d. Brexit. Nel 1992, l’ambizione è di creare una struttura, una istituzione, più politica, forse il primo passo verso uno Stato federale. Per questo le sue competenze devono essere più ampie di quelle relative al solo mercato unico della CEE. Così, pur senza abbandonare queste, che vanno a rappresentare un primo campo di azione della neonata UE (il c.d. primo pilastro, al quale è estraneo il diritto penale), la nuova istituzione si dota di una competenza anche in tema di sicurezza e difesa comune (secondo pilastro) e, necessariamente, nel campo della cooperazione tra le autorità giudiziarie, non potendo una struttura che non è solo più economica, ma tende ad essere anche politica, tollerare al suo interno la coesistenza di sistemi giuridici non solo differenti, ma neppure cooperanti tra loro.
Il terzo campo di azione della UE (terzo pilastro) diventa, allora, quello della cooperazione giudiziaria, in origine sia in campo civile che penale.
Tra i vari “pilastri” esistono differenze istituzionali profonde: tralasciando il secondo pilastro che ha sempre avuto una vita a sé, il primo pilastro opera con il c.d. metodo comunitario, la procedura legislativa ordinaria che – in sintesi - prevede il ruolo della Commissione Europea come proponente, ed il Consiglio della UE e il Parlamento Europeo con il compito di discutere ed approvare le proposte. Gli atti legislativi tipici di tale settore sono i regolamenti, atti ad efficacia diretta, le direttive, in genere vincolanti nello scopo ma non aventi efficacia diretta e bisognose di una legge nazionale di attuazione, le raccomandazioni, i pareri. Il mancato adeguamento del sistema interno alle norme europee può comportare anche azioni legali nei confronti di tale Stato da parte della Commissione Europea davanti alla Corte di Giustizia.
Nel terzo pilastro, invece, il metodo legislativo è quello intergovernativo: non vi è necessariamente una proposta della Commissione discussa da Consiglio e Parlamento, ma le norme sono discusse e approvate direttamente dal Consiglio, cioè dagli Stati, sebbene alle discussioni partecipi anche la Commissione. Gli atti tipici di questo settore non sono mai ad efficacia diretta, e sono le convenzioni, tipici strumenti di diritto internazionale tra Stati, e le posizioni quadro; col tempo, queste saranno sostituiti dalle decisioni quadro. La possibilità per la Commissione Europea di intervenire sull’eventuale inadempimento nel recepimento di tali strumenti normativi è, sostanzialmente, molto limitata, se non addirittura inesistente.
Il terzo pilastro riguarda, come detto, anche la cooperazione tra gli Stati in diritto penale (dal 1997, poi, esclusivamente la cooperazione in diritto penale, essendo la cooperazione civile divenuta materia del primo pilastro). Inizia così a delinearsi una competenza dell’Unione in materia. La competenza non comporta il potere di emettere norme penali ad effetto diretto o norme sulla parte generale del diritto penale, ma consiste nel tentativo di armonizzare le fattispecie penali dettando, con atti normativi privi di efficacia diretta, definizioni comuni a livello sovranazionale ed invitando gli Stati a recepirle attraverso la attuazione di tali strumenti nel diritto interno, per tutelare determinati beni. Un concetto non così diverso da quello espresso dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 1989. La materia in cui l'Unione inizia ad esercitare tale nuova funzione, allora, non può che essere quella che rappresenti un interesse tipico e proprio della neonata istituzione, un interesse sovranazionale. La sentenza della Corte del 1989 riguardava la lotta alle frodi contro gli interessi finanziari della Comunità, la tutela del bilancio della Comunità; questo è l’interesse tipico anche dell’Unione, conservando la stessa il medesimo bilancio, su cui si inizia ad esercitare la potestà legislativa penale dell’Unione nei limiti sopra detti. L’atto con cui ciò avviene è, dunque, una convenzione, un tipico atto di terzo pilastro. Lo spirito di questo atto è il seguente: gli Stati e l’Unione prendono atto del fatto che il bilancio dell’Unione, e quindi gli interessi finanziari della stessa, è compromesso da alcune condotte di rilievo penale che ne diminuiscono le entrate o ne disperdono le spese; queste condotte, spesso commesse da persone giuridiche oltre che da persone fisiche, vengono identificate nelle fattispecie di frode, corruzione e riciclaggio. Gli stessi si accordano allora affinchè si abbia una definizione comune, a livello dell’Unione, di tali fattispecie, per favorire la cooperazione delle autorità giudiziarie dei vari Stati nelle indagini transnazionali. Nel 1995, in seno all’Unione si conclude quindi una convenzione, denominata appunto “Convenzione per la tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee”, con alcuni protocolli, nella quale l’Unione detta definizioni comuni di tali reati ed invita gli Stati a recepire tali definizioni nei propri sistemi giuridici.
La Convenzione viene introdotta nei vari ordinamenti; l’Italia la ha attuata con legge n. 300 del 2000 che ha approntato alcune modifiche al codice penale ed ha rappresentato la legge delega per l’approvazione di un decreto sulla responsabilità degli enti. Il notissimo dpr 231 del 2001 origina, quindi, nel recepimento di tale strumento normativo dell’Unione Europea dettato per la protezione degli interessi finanziari della stessa.
Intanto le competenze penali dell’Unione hanno una lenta evoluzione; nell’ottobre 1999 un Consiglio Europeo (cioè una riunione degli Stati nella loro massima espressione, a livello di Primi Ministri o Presidenti della Repubblica) si riunisce nella città finlandese di Tampere per discutere della Unione Europea come “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” in cui si delinea, tra l’altro, la creazione di un “autentico spazio di giustizia europeo”. Gli atti legislativi mutano natura: a partire dai primi anni 2000, le convenzioni sono sostituite dalle decisioni quadro. In tale momento, gli eventi mondiali rivelano la necessità per l’Unione di occuparsi non solo della lotta alle frodi del proprio bilancio, ma di fronteggiare fenomeni di rilievo penale transnazionale come il terrorismo, in particolare dopo i fatti dell’11 settembre 2001. Nel frattempo, poi, anche in virtù della approvazione nel 2000 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e del notevole sviluppo che inizia ad acquistare l’altro sistema di diritto penale europeo, quello della Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU) e della relativa Corte di Strasburgo – sistema che, è sempre bene precisare, è del tutto distinto da quello della Unione Europea -, l’Unione inizia sempre più a rivolgere la propria attenzione anche alla tutela delle parti del processo penale. Da un lato, così, si incrementano gli atti legislativi per favorire una sempre più stretta collaborazione tra autorità inquirenti: basti pensare al riguardo alle decisioni quadro sul mandato di arresto europeo ed a quella sulla creazione dell’organismo di cooperazione Eurojust, entrambe del 2002. Dall’altro, l’Unione inizia a redigere piani pluriennali di azione in materia di giustizia (piano dell'Aja per gli anni 2005-2009, piano di Stoccolma per il 2010-2014) in cui riveste una parte importante la tutela dei diritti all’interno del processo penale, e ad adottare decisioni quadro sui singoli aspetti.
Il diritto penale dell’Unione inizia così ad assumere nei primi anni 2000 una sua definita fisionomia: si delinea l’idea sopra ricordata di Unione Europea come “spazio di libertà, sicurezza e giustizia comune”, anche in diritto penale, ma sconta sempre il limite di una base legale non particolarmente incisiva; non esiste infatti sia nel Trattato di Maastricht del 1992, che in quello di Amsterdam del 1997 che in quello di Nizza del 2000 una chiara base legale che permetta all’Unione di avere poteri espliciti in materia penale. L’Unione non può quindi che, attraverso atti non vincolanti e che necessitano sempre di normative nazionali di recepimento, invitare gli Stati ad adottare provvedimenti, ma contro l’eventuale inadempimento degli Stati, i poteri dell’Unione sono scarsissimi. E’ la debolezza del terzo pilastro.